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’eterno ritorno “pensiero abissale”’eterno ritorno un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino…La grandezza dell’uomo è di essere un ponte non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto»[16]. Heidegger individua tre cose di questo passaggio: 1) ciò da cui colui che passa si allontana; 2) il passaggio stesso; 3) il luogo dove va colui che passa[17]. Dei tre momenti quello che assume il significato più importante è naturalmente il terzo, poiché è la meta che dà agli altri due momenti il loro significato. Certamente il superuomo direttamente non dice nulla dove questo passaggio porta; parla del passaggio – super-uomo –, ma non quale sia il luogo a cui l’uomo che supera perviene. Per Heidegger il «verso-dove» il passaggio porta rimane nella lontananza. Ma proprio perché si indica il passaggio questa lontananza rimane allo stesso tempo vicina, ossia «quella vicinanza che custodisce il lontano come lontano, perché pensa al lontano e si volge verso di esso»[18]. Ciò sprigiona una tonalità emotiva particolarmente significativa in tutto il Così parlò Zarathustra, quella della nostalgia: «la nostalgia è il dolore della vicinanza del lontano»[19]. Zarathustra come il maestro dell’eterno ritorno che dovrà essere, è egli stesso questo passaggio, essendone il portavoce. Nell’opera questo passaggio è il tema portante della terza parte, che rappresenta il fulcro di tutta l’opera. Ed è significativo che questa sezione sia intrisa di una grande sofferenza, quella appunto della nostalgia. Per avviare una comprensione, se pur parziale, del luogo che questo passaggio porta, prendiamo in considerazione un brano della terza parte dell’opera, Del grande anelito. Qui Zarathustra intrattiene un colloquio con la sua anima: «Anima mia, io ti insegnai a dire “oggi” come se fosse “un giorno” e “un tempo”, e a danzare al di sopra di ogni “qui” e “lì” e “là” la tua danza circolare»[20]. Con le parole “oggi”, “un giorno” e “un tempo” Nietzsche indica le dimensioni fondamentali del tempo, ossia il presente, il futuro e il passato. Nella metafisica occidentale queste tre dimensioni vengono raggruppate in un unicum mediante il concetto di eternità, ossia dell’”ora” eterno. Anche Nietzsche parla di eternità, solo che per quest’ultimo l’eternità non consiste in uno stare, quello dell’”ora” eterno, ma in un “eterno ritorno dell’uguale”. La metafisica fondando l’eternità – ad esempio l’essere eterno di Parmenide – pone un contrasto insolubile tra questa dimensione ed il divenire; Nietzsche invece, facendo sua la lezione del divenire eracliteo, vuole porre l’eterno nel divenire stesso. Ma in che modo è possibile fondare questo nuovo senso dell’eterno? Tutto ciò che si inoltra nel divenire non è destinato al suo successivo tramonto, senza più farvi ritorno? Come può l’ente e in particolare l’uomo ritornare eternamente? La risposta a questa domanda si trova in un brano della seconda sezione dell’opera intitolato Delle tarantole. Il passo che ci interessa dice: «Giacché: che l’uomo sia redento dalla vendetta – questo è per me il ponte verso la speranza suprema e un arcobaleno dopo lunghe tempeste»[21]. La redenzione dallo spirito di vendetta indica il ponte verso questo nuovo luogo, altrimenti inaccessibile. Ma perché questa redenzione rende possibile il passaggio? E cosa intende Nietzsche per vendetta? In un altro brano sempre della seconda parte, Della redenzione, dice Zarathustra: «Lo spirito di vendetta: amici, su nient’altro finora gli uomini hanno meglio riflettuto, e dov’era sofferenza, sempre doveva essere una punizione»[22]. Da questi due brevi passi si comprende che l’ostacolo a partire dal quale è possibile il passaggio verso la meta dello Über-mensch, è lo spirito di vendetta. Bisogna allora capire cosa Nietzsche intende per vendetta. Da questo chiarimento si comprenderà qualcosa in più sul perché Zarathustra è sia l’avvocato della vita, del dolore e del circolo, sia il maestro dell’eterno ritorno e del superuomo. In primo luogo, lo spirito di vendetta non è qualcosa che riguarda un particolare tipo d’uomo, ma riguarda la totalità dell’uomo fino adesso esistito, dice infatti Zarathustra nel brano Della redenzione: «Lo spirito di vendetta: amici, su nient’altro finora gli uomini hanno meglio riflettuto; e dov’era sofferenza, sempre doveva essere una punizione». Heidegger nota che il rapporto che si instaura tra l’uomo e l’essente, mediante la vendetta, non riguarda un particolare essente, ma l’essente nella sua totalità, ossia l’essere dell’essente[23]. La vendetta è quindi intesa non in termini etico-morali, ma metafisici. Ma cosa significa precisamente vendetta (Rache)? La parola tedesca per dire vendetta è Rache, dal verbo rächen (vendicare), che a sua volta rimanda a wreken, urgere, col significato di urtare, spingere, inseguire, dare la caccia. Questi significati indicano una contrapposizione tra colui che si vuole vendicare e ciò di cui ci si vuol vendicare. La vendetta per sua natura è ispirata dal sentimento di colui che si sente vinto, che ha subito un danno; questo comporta che chi si vuol vendicare, vuole abbassare il suo avversario ad un livello di subalternità, vuole cioè rovesciare il rapporto dato dal danno ricevuto. Si è detto però che la vendetta nel linguaggio nietzschiano ha una portata metafisica, non si esaurisce cioè nella semplice vendetta di un individuo nei confronti di un altro. Ora, nell’epoca moderna la struttura dell’essere dell’essente ha assunto una dimensione differente rispetto alla struttura antica, questa struttura, che parte dal cogito cartesiano fino all’idealismo tedesco, è caratterizzata dalla volontà. La volontà qui – in particolare nell’idealismo tedesco – non è semplicemente una facoltà dell’uomo, ma indica lo stesso essere dell’essente nella sua totalità: l’essere dell’essente si determina nell’epoca moderna come volere[24]. Questo comporta anche che il pensiero, pensando l’essere dell’essente, conformandosi ad esso, è il pensiero della volontà. Visto in questi termini, il pensiero di Nietzsche non si distanzia dal pensiero moderno, anzi porta a compimento l’essenza dell’essente come volontà. Eppure Nietzsche afferma che il pensiero degli uomini è condizionato dallo spirito di vendetta, che si esprime come: «l’avversione della volontà contro il tempo e il suo ‘così fu’»[25]. Nella vendetta la volontà è in conflitto, ed è in conflitto proprio col “tempo”, espresso dal “così fu”. Il tempo diveniente, come si è accennato, è caratterizzato da tre dimensioni: il passato, il presente ed il futuro. Ogni cosa immersa nel divenire è condizionata dal suo passare, dal suo schiudersi nell’apparire per rimanervi per un certo lasso di tempo e poi svanire. Ciò che svanisce è ciò che passa, ciò che esce fuori dal presente. Nietzsche quando mostra cosa sia la vendetta indica una doppia avversione della volontà quella nei confronti del tempo e quella nei confronti di una specifica dimensione del tempo, il “così fu”, il passato. La volontà nella vendetta è avversa nei confronti del passare del tempo, ossia di quella dimensione del tempo di cui la volontà non può far nulla. E non può far nulla perché il tempo è irreversibile, ciò che passa non può tornare. L’ente che nel suo divenire passa, passa nel non essente, in quello che la metafisica greca chiama μὴ ο̉́ν, il ni-ente. La volontà non ha potere nei confronti di ciò che passando diventa ni-ente. Eppure l’uomo sta per entrare nella fase in cui dominerà l’essente nella sua totalità, questo significa che per fare ciò, per essere veramente pronto per questo destino, deve superare questa avversione, redimersi dallo spirito di vendetta. Senza questo passo l’uomo non potrà mai oltrepassare se stesso. Questo oltrepassamento comporta che la volontà, l’essere dell’essente, sia libera, non costretta dai lacci del “così fu”, dall’avversione nei confronti del passato. In ultimo, questo significa che il passato non deve passare e andare nel niente, il passato deve permanere. Solo se permane, la volontà è veramente libera, solo se cioè l’ente che passa permane, la volontà è compiutamente l’essere dell’essente. «Ma come può il passare rimanere? Solo in quanto, come passare, non solo sempre va, ma anche viene sempre. Soltanto in quanto il passare e ciò che in esso è passeggero ritorna, nel suo venire, come l’uguale. Ma questo ritorno stesso è qualcosa di permanente solo se è un ritorno eterno. Il predicato della “eternità” appartiene, secondo l’insegnamento della metafisica, all’essere dell’essente»[26]. Questo significa che con la redenzione dello spirito di vendetta si compie il passaggio verso la volontà che colloca l’essente nell’eterno ritorno dell’uguale; ecco perché Zarathustra è l’avvocato del circolo. Questa redenzione della volontà, la stessa che redime l’essente dal passato nullificante, rende possibile il passaggio dell’uomo, il suo superamento, l’evenire del superuomo. Zarathustra è infatti sia colui che insegna il superuomo, ma principalmente il maestro dell’eterno ritorno, ed è proprio perché egli è in primo luogo il maestro dell’eterno ritorno che può essere colui che insegna il superuomo. Questo significa che è proprio per il pensiero dell’eterno ritorno che è possibile il passaggio del superuomo. Questo pensiero è per Nietzsche il pensiero «più abissale», ed infatti è il pensiero che nello Zarathustra viene esposto per ultimo e solo in modo enigmatico. Comprendere quale sia il significato della figura di Zarathustra significa comprendere quello che egli annuncia ed insegna, la sua figura è tutta nella sua opera, in quello che Zarathustra porta agli uomini. Egli è sia colui che annuncia il superuomo sia il maestro dell’eterno ritorno, queste due componenti non sono separate, ma sono un unicum, si richiamano vicendevolmente. Questo significa che l’eterno ritorno dell’uguale non è semplicemente una nuova idea del tempo, che per giunta non è neppure nuova, ma anzi rimanda all’idea della circolarità del cosmo greco, e non solo. Non possiamo cioè ridurre l’eterno ritorno come fa il nano nel brano La visione e l’enigma ad una semplice constatazione sulla circolarità del tempo cosmico, esso riguarda l’essenza stessa della volontà, e della sua redenzione. Veniamo allora al punto nodale del tema della redenzione dello spirito di vendetta. Come può la volontà essere redenta da quel macigno del “così fu” che non si lascia smuovere? Come può la volontà interrompere il susseguirsi inesorabile di colpa e punizione? Solo con la capacità della volontà di creare. Afferma Zarathustra in tal senso: «Via da tutte queste filastrocche, io vi condussi quando vi insegnai: “la volontà è qualcosa che crea”… Finché la volontà che crea non dica anche: “ma io così voglio! Così vorrò!”»[27]. la volontà si redime solo se essa stessa diventa veramente partecipe della creazione, solo se è capace di questo atto di pura creazione, la volontà si redime dall’avversione verso il passato. La volontà trasfigurata non vede più nel passato un macigno inesorabile, ma ciò che in quanto voluto ritorna sempre. Il superuomo è colui che compie questo passaggio, oltrepassa il macigno del “così fu”, mutandolo in un “così volli”. Ma perché tutto questo possa accadere l’uomo stesso deve mutare, in lui deve succedere una metamorfosi. Zarathustra, colui che annuncia il superuomo, il maestro dell’eterno ritorno, in primo luogo deve insegnare agli uomini la grande metamorfosi. Solo a partire da questa metamorfosi è possibile qualcosa come la redenzione dallo spirito di vendetta. La metamorfosi non è però semplicemente qualcosa che Zarathustra insegna, essa è qualcosa che lo stesso Zarathustra compie all’inizio del suo cammino (tramonto); di questo ne è testimone il vegliardo che vede Zarathustra scendere dalla montagna: «questo viandante non mi è sconosciuto: alcuni anni fa è passato di qui. Zarathustra era il suo nome; ma egli si è trasformato. Portavi allora la tua cenere sul monte: oggi vuoi portare nelle valli il tuo fuoco?…Sì, riconosco Zarathustra. Puro è il suo occhio, né disgusto si cela sulle sue labbra. Non incede egli a passo di danza? Trasformato è Zarathustra, un bambino è diventato Zarathustra, Zarathustra è un risvegliato»[28]. 3. Le tre metamorfosi. La grande metamorfosi è in realtà tripartita, il ponte verso il superuomo pone tre grandi mutamenti, senza i quali e il superuomo e la dottrina dell’eterno ritorno come anche la volontà di potenza non potrebbero essere chiariti. Le tre metamorfosi dello spirito sono quella in cui «lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo»[29]. Lo spirito cammello è caratterizzato dalla capacità di portare su di sé i pesi più gravosi, è lo spirito della sopportazione, del dovere. «Che cosa è gravoso? Domanda lo spirito paziente e piega le ginocchia, come il cammello, e vuol essere ben caricato»[30]. Il peso che questo spirito sopporta compiaciuto, è il peso della trascendenza, dell’idealismo. Questo spirito rifiuta compiti facili, vuole essere sottoposto sempre a compiti gravosi, e vuole ubbidire a molti. In ultima analisi lo spirito-cammello vuole il suo “dovere”, vuole il peso che appunto la categoria del dovere implica. Tutta la sua volontà è concentrata sul dictat “io devo”[31]. In questa prima metamorfosi la categoria del volere è tutta immersa in quella del dovere. Ora, si è detto che l’affrancamento della volontà dallo spirito di vendetta si ottiene mediante queste tre metamorfosi. È quindi paradossale che questo affrancamento debba iniziare mediante questa prima metamorfosi, che appunto più che affrancare attanaglia la volontà, la lega ad una servitù gravissima. Forse Nietzsche ci vuole dire che la via del superuomo è una via estrema, una via che necessita di vivere la sofferenza al suo massimo livello. Solo se cioè l’uomo assume su di sé il peso più grande della sofferenza del dovere, può affrancarsi da quest’ultimo. Questa liberazione più accadere solo quando l’uomo raggiunge nel deserto la sua più profonda solitudine: «ma là dove il deserto è più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto»[32]. Se la prima metamorfosi porta al massimo grado il peso della morale, con la seconda metamorfosi si ha il capovolgimento. La tensione è perciò massima, in quanto lo spirito-leone capovolge completamente lo stato in cui si trovava precedentemente, negando completamente tutta la morale, il peso appunto che nello spirito-cammello rappresentava il senso della sua esistenza. Ed infatti in questa nuova metamorfosi lo spirito-leone vede nel “dovere” il suo ultimo nemico: «Qui cerca il suo ultimo signore: il nemico di lui e del suo ultimo dio vuol egli diventare, con il grande drago vuol egli combattere per la vittoria. Chi è il grande drago, che lo spirito non vuol più chiamare signore e dio? “Tu devi” si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice “io voglio”»[33]. Ecco quindi il nocciolo essenziale della metamorfosi, “io devo” diventa “io voglio”, e di conseguenza il più grande nemico diventa il “dovere”, simbolicamente raffigurato mediante l’immagine del drago. Il drago è quindi l’immagine della morale, del trascendente, che attanagliano lo spirito, e lo lega a questo mostro: «“tu devi” gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l’oro, e su ogni squama splende a lettere d’oro “tu devi!”. Valori millenari rilucono su queste squame e così parla il più possente dei draghi: “tutti i valori delle cose – risplendono su di me”. “Tutti i valori sono già stati creati, e io sono – ogni valore creato. In verità non ha da essere più alcun ‘io voglio’!”»[34]. Il drago mostra come la volontà è impotente, sancisce il divieto di creare. Lo spirito-cammello è infatti colui che è incapace di creare, tutto il peso che egli porta su di se impedisce alla sua volontà di esser libera di produrre nuovi valori, «tutti i valori sono gia stati creati», egli può solo sottomettersi a tali valori. Il “tu devi” corrisponde quindi al “così fu” dello spirito di vendetta. Solo uno spirito affrancato da tale peso può porsi nella disposizione di creare nuovi valori. L’atto creativo però non è ancora compiuto. Lo spirito-leone non è ancora in grado di creare: «creare valori nuovi – di ciò il leone non è ancora capace: ma crearsi la libertà per una nuova creazione – di questo è capace la potenza del leone»[35]. La libertà del leone è libertà “da”, non libertà “di”, egli per così dire si rende libero per l’atto creativo, ma non per compierlo. «Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere: per questo fratelli, è necessario il leone»[36]. Commenta in tal senso Fink: «questa libertà del leone, che dice No, che rifiuta Dio, la morale oggettiva e la cosa metafisica in sé, e le intuisce come illusioni di una alienazione idealistica, non è la libertà radicale: essa è soltanto una libertà negativa, libertà “da”, non libertà “di”»[37]. È certamente un passo essenziale nell’affrancamento della volontà dai tentacoli della morale metafisica, ma non definitivo. Lo spirito-leone è in primo luogo spirito combattivo, spirito che attua un forte attacco nei confronti del “drago”, eppure è proprio questa tensione ad impedire l’ultimo passo, quello della volontà creatrice. La volontà per creare ha bisogno dell’innocenza del fanciullo: «Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire sì»[38]. Il frammento 52 di Eraclito dice «αι̉ὼν ε̉στι παίζων πεσσεύων˙ παιδὸς η̉ βασιληίη», “il tempo è un fanciullo che gioca con le tessere di una scacchiera, di un fanciullo è il regno”. È indubbio la grande vicinanza del fanciullo di Nietzsche con quello di Eraclito. Questo viene confermato dal passo successivo di Nietzsche: «Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo»[39]. È importante notare come l’innocenza del fanciullo sia perfettamente compiuta nel significato della parola gioco, che rileva come la volontà pienamente affrancata crea perché gioca. Bisogna subito dire che il gioco qui non è qualcosa di ludico, non è un affare per così dire leggero. Il gioco è qualcosa di estremamente serio, indica che la volontà può creare liberamente nuovi valori, una nuova configurazione del mondo, perché si immette nella stessa innocenza del divenire, che appunto crea e distrugge “senza perché”. È l’erompere del caos dionisiaco: «bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante»[40]. Il fanciullo è tutto questo: in quanto volontà innocente, è anche volontà creatrice; in quanto creatrice, è un nuovo inizio; ed ancora, in quanto questo nuovo inizio è affrancato dai lacci del “così fu”, è «una ruota ruotante da sola». Il fanciullo è simbolicamente il compimento del superuomo e con esso l’aprirsi dell’eterno ritorno dell’uguale. È indubbio che nel parallelo tra la sentenza di Eraclito e il fanciullo di Nietzsche ci sono anche delle differenze; in particolare per ciò che riguarda la volontà, che nel pensiero di Eraclito sembra assente. La volontà è infatti un concetto moderno, connesso alla figura del soggetto; solo che, appunto, il pensiero di Nietzsche mette in crisi la figura del soggetto, dell’individuo. Il soggetto, a sua volta, è il risultato del pensiero metafisico, e quindi di ciò di cui Nietzsche vuole sbarazzarsi. Il fanciullo nietzschiano si pone in opposizione assoluta rispetto al soggetto moderno, e, la sua volontà, confrontata alla volontà del soggetto, è non-volontà, non nel senso che non ha volontà, ma nel senso che questa volontà è affrancata dal peso della tradizione metafisica: libera di “essere”, e non di “dover essere” (conforme alla tradizione) o di “voler essere” (in contrapposizione alla tradizione, ma essendo in contrapposizione ancora non completamente libera per creare). La volontà creatrice ed il fanciullo sono la medesima cosa. Il che ci porta al terzo dictat: “io sono”. In questo “io sono” si comprende l’innocenza della volontà creatrice, del fanciullo che giocando fa-mondo, porta allo schiudimento nuove configurazioni del mondo, fondendosi con esso. Se infatti nella prospettiva moderna la volontà del soggetto produce la sua opera, rimanendone però separato, nel fanciullo si ha una sorta di corto circuito tra volontà creatrice ed opera. Nella dimensione cosmologica del divenire, il fanciullo è quella volontà che è coerente con l’innocenza del flusso diveniente, ed è proprio grazie a questa compiuta adesione al divenire cosmico che il fanciullo può a sua volta creare, partecipare al divenire dionisiaco. Le tre metamorfosi possono essere così sintetizzate: “io devo”, “io voglio”, “io sono”. Il super-uomo è la via che compie questa triplice metamorfosi. 4. Il superuomo e la morte di dio. Alcuni tratti del Übermensch sono stati già esposti, dobbiamo adesso approfondire questa figura enigmatica. È da notare che i primi discorsi di Zarathustra sono per così dire discendenti, egli parla prima del superuomo, ma quando si accorge di non essere ascoltato parla dell’uomo nella sua qualità di essere un ponte che porta al superuomo, quando poi anche questo discorso non trova ascolto, Zarathustra parla dell’ultimo uomo, ossia dell’antitesi del superuomo. Zarathustra all’inizio del suo cammino giunge in una città, dove molta gente è radunata al mercato per vedere l’esibizione di un funambolo. Lì Zarathustra decide di insegnare il superuomo. Ecco la prima frase che mostra un primo significato del superuomo: «Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra!»[41]. Cosa intende Nietzsche per «terra»? La terra è la natura intesa come ciò a partire dal quale le cose nascono. La terra è la φύσις, ciò a partire dal quale gli enti si schiudono nell’apparire. Essa è perciò il principio della creazione in quanto tale. È lo stesso principio del divenire cosmico, del principio che pone come suo essenziale movimento il processo di produzione-distruzione “senza perché”, privo cioè di un principio razionale che dovrebbe stare al di sopra di questo flusso diveniente. Dire quindi che il superuomo è il “senso” (der Sinn) della terra, significa che egli è il senso del divenire cosmico, compie questo principio perché lo porta alla sua massima espressione, quella appunto del fanciullo. È importante notare che la terra indica qui la dimensione della morte di Dio, la dimensione in cui colto l’inganno dell’idealismo, Nietzsche ridà alla terra la sua purezza, privata della sua sottomissione nei confronti di verità metafisiche. «Il superuomo, consapevole della morte di Dio, cioè della fine dell’idealismo, della perdita dell’al di là, riconosce nell’al di là idealistico soltanto una utopica immagine riflessa della terra. E alla terra restituisce ciò che le è stato preso a prestito e rapinato; rinnega tutti i sogni dell’al di là e si volge alla terra col medesimo fervore, col quale prima si volgeva al mondo dei sogni, il massimo della libertà umana si volge alla Gran Madre, alla terra dall’ampio petto, e in essa trova i limiti, il contrappeso di tutti i suoi tentativi»[42]. Il superuomo è il senso della terra, affrancata dalla deformazione dell’idealismo platonico, di quel pensiero che vede nel reale solo un pallida immagine del mondo soprasensibile. In questo senso l’annuncio del superuomo annuncia nel contempo la morte di Dio, le due asserzioni costituiscono un unico grande movimento: esso si articola come affrancamento dell’uomo dall’istituzione del soprasensibile, che incatenato ad esso lo aliena dalla sua essenza, quale quello di essere creatore. In sostanza l’uomo stesso si sostituisce a Dio, e in particolare per ciò che concerne la creatio ex nihilo. Bisogna ribadire che lo Übermensch non è l’uomo, ma lo scopo di quest’ultimo, che per attuarsi deve compiersi il tramonto dell’uomo, solo se cioè l’uomo della tradizione metafisica tramonta, lo Übermensch può compiersi: «la grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto»[43]. Noi abbiamo già accennato cosa implica il tramonto dell’uomo nelle tre metamorfosi, che per questo sono un riferimento essenziale per tutto il discorso sviluppato nella prima parte dello Zarathustra. Il punto nevralgico sta nel chiarimento di quell’essenza nascosta dell’uomo che si determina nella sua capacità di creare. Questo tema viene ripreso nel brano Del cammino del Creatore. In esso troviamo quella progressione dell’uomo indicata dalle tre metamorfosi. Progressione che vede l’uomo che si affranca dalla metafisica semp