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. «Che ne è del nulla?», 217 221 4. Dopo Auschwitz 1. Bellum judaicum, 221 2. Abdicare al silenzio, 224 3. «La fabbricazione di cadaveri» e l’indifferenza ontica, 233 4. Il massacro ontologico. Parmenide e Auschwitz, 238 5. «Muoiono? Non muoiono, vengono liquidati …», 242 6. Il dispositivo, la tecnica, il crimine. Sulla responsabilità, 244 7. Se è possibile perdonare un Rav, 248 8. Il cugino Gross e il cugino Klein. Ebrei e somiglianze di famiglia, 251 9. L’oblio dell’ebraico. Il debito occultato, 257 10. Dove si nasconde Paolo, 261 11. Il futuro dell’Essere e il Nome ebraico, 267 12. Un paesaggio pagano, 270 13. L’altro inizio, l’inizio dell’altro. L’anarchia, la nascita, 272 14. Un angelo nella Foresta Nera. Apocalittica e rivoluzione, 275 280 Note 325 Bibliografia 347 Indice dei nomi Premessa Nei Quaderni neri Heidegger parla degli ebrei e dell’ebraismo. A chiare lettere scrive che la “questione ebraica” è una questione metafisica. Contro ogni possibile fraintendimento avverte che il tema va affrontato entro la storia dell’Essere. Qual è allora il rapporto tra l’Essere e l’Ebreo? In che modo l’Ebreo minerebbe l’Essere? L’Ebreo è insediato per così dire nel cuore del pensiero di Heidegger, nel centro della questione per eccellenza della filosofia. Ma d’altra parte proprio all’Ebreo viene ascritto l’oblio dell’Essere, la colpa più grave. Molti sono i temi implicati nell’antisemitismo metafisico che, se per un verso coinvolge buona parte della tradizione filosofica, per l’altro rinvia alla responsabilità della filosofia nello sterminio. I Quaderni neri, pubblicati nella primavera del 2014, sono un’opera filosofica dallo stile personale; assomigliano al diario di bordo di un naufrago che attraversa la notte del mondo, rischiarata da profondi sguardi filosofici e potenti visioni escatologiche. Oltre ad aprire una inedita prospettiva sul pensiero di Heidegger, stanno suscitando un nuovo intenso dibattito filosofico, dalla Germania, alla Francia, agli Stati Uniti. Se qualcuno, nel contesto italiano, si è affrettato a tacciare di tenebre Heidegger, chiudendo così il tema del totalitarismo con un gesto altrettanto totalitario, non è mancato chi, dal versante opposto, lo ha subito assolto liquidando immediatamente la “questione”. Entrambi i gesti, del tutto inadeguati, anche rispetto alla gravità dei temi che vorrebbero rimuovere, sono profondamente antifilosofici. Questo libro, che ha evitato di essere una ennesima storia criminale della filosofia, non intende servire nessuna causa. Si muove perciò su un crinale molto stretto che, non di rado, si spalanca sugli abissi della storia più recente. L’intento è quello di sollevare gli interrogativi filosofi, politici, teologici, in tutta la loro gravità. Desidero ringraziare l’editore Vittorio Klostermann che mi ha permesso di leggere i tre volumi prima che fossero pubblicati. Con Giacomo Marramao ho avuto modo di discutere sin dall’inizio le pagine di Heidegger. Un ringraziamento particolare va a Michele Luzzatto che ha sostenuto questo progetto e ne ha seguito tutte le fasi con i suoi preziosi suggerimenti. viii premessa Heidegger e gli ebrei 1. Tra politica e filosofia Il pentimento non è una virtù.1 Non aspettatevi né rinnegamento né pentimento. […] È ora di ammettermi quale fui, filosofo, e nazista finché vi aggrada, ma filosofo.2 1. Un affare mediatico Non è mai avvenuto che un filosofo suscitasse tanto scalpore post mortem. Da quando, già nel 1945, l’“affare Heidegger” – l’affaire, come dicono i francesi – è stato sollevato, si è imposto all’opinione pubblica attraverso fasi alterne, ma con una risonanza che non è mai venuta meno e che, anzi, si è estesa e intensificata negli ultimi tempi.3 La notizia delle recenti rivelazioni è rimbalzata sui giornali e i media di tutto il mondo. E ha trovato spazio perfino nel “New York Times”.4 Il pensiero più elevato si è prestato all’orrore più abissale. Non è difficile comprendere lo scandalo. La grandezza del filosofo e la meschinità del nazista costituiscono un’antinomia stravagante, un paradosso inaccettabile. Heidegger è come un Giano bifronte che esibisce inquietantemente i due volti, quello encomiabile e quello ignobile. Per sottrarsi a questa visione dissociante e angosciosa, l’alternativa, suggerita anche dall’urgenza della pressione mediatica, sembra chiara e netta: se è stato un grande filosofo, allora non è stato nazista; se è stato nazista, allora non è stato un grande filosofo. Mentre richiedono una risposta sommaria e definitiva, una chiusura del caso, sono, però, proprio i media a riaprirlo ogni volta, rendendolo sensazionale attraverso il potere di pubblicare quel che era nascosto e ignorato. Nel corso degli anni il caso filosofico è divenuto così un affare mediatico. Attento al tema complesso del giornalismo, Heidegger ha riflettuto sulla «risonanza». Quanto più l’informazione si cela dietro l’apparente obiettività, semplifica eliminando difficoltà e problemi, rende superflua e innocua la domanda, tanto più aumenta il bisogno dell’esperienza vissuta, il desiderio spasmodico di accedere a quel che, rimasto misterioso sullo sfondo, eccita, emoziona, inebria, fa sensazione.5 Come questo desiderio non conosce imbarazzo o pudore, così non conosce limite il dispositivo che rende pubblico l’accesso, in una vertigine senza fine. Heidegger avvertiva che il suo pensiero era minacciato da quella incapacità di preservare la domanda. In una lettera indirizzata a Hannah Arendt il 12 aprile 1950 scriveva: Forse il giornalismo planetario è il primo spasimo di questa desertificazione incipiente di tutti gli inizi e della loro trasmissione. Allora pessimismo? Allora disperazione? No! Piuttosto dobbiamo meditare in che senso la storia, rappresentata solo in forma storiografica, non determini necessariamente l’essenza dell’essere umano, dobbiamo pensare che durata e lunghezza non sono misure essenziali, che un mezzo istante può essere più “essente” della repentinità, che l’uomo deve prepararsi a questo “Essere” e apprendere un’altra memoria, che con tutto ciò ha davanti a sé qualcosa di supremo, che il destino degli ebrei e dei tedeschi ha la sua verità a cui il nostro calcolo storiografico non giunge.6 Non era certo il giornalismo a essere per Heidegger una minaccia. Più volte ha lodato la stampa che sa «porsi in ascolto» di quel che va oltre la mera attualità.7 Non ha forse affidato allo «Spiegel» la sua ultima intervista, quasi un testamento filosofico? Piuttosto intuiva che il suo caso sarebbe divenuto un affare del «giornalismo planetario » e temeva che l’urgenza mediatica ne avrebbe precipitato la chiusura, rimuovendo l’urgenza del pensiero, cancellando ogni domanda ulteriore. 4 capitolo primo 2. Nazista per caso… Malgrado il susseguirsi di nuove rivelazioni, la scoperta di lettere e documenti, il lento riemergere, dal lascito di Heidegger, di testi inediti e corsi universitari, malgrado il lavoro pionieristico di Hugo Ott e i libri provocatori di Victor Farías, nel 1987, e di Emmanuel Faye, nel 2005, si è mantenuta negli anni una versione ufficiale che, solo di tanto in tanto, ha subito qualche ritocco.8 Vale la pena riassumerla brevemente. In una vita senza biografia, come dovrebbe essere quella di ogni filosofo, secondo la formula ideale «nacque, lavorò e morì», con cui Heidegger, nel 1924, aveva suggellato l’esemplare vita di Aristotele, la sua innegabile adesione al nazismo non fu altro che un «intermezzo politico ».9 Spinto dalle circostanze, più che da una convinzione profonda, Heidegger assunse la carica di rettore il 21 aprile del 1933, e il primo maggio si iscrisse all’nsdap, il partito nazista, con l’intento preciso di salvaguardare la libertà accademica dalle intrusioni politiche. Il suo impegno non sortì alcun effetto, sia per le divergenze, sempre più stridenti, con i vertici del partito, sia per quella ingenuità con cui il filosofo aveva preteso di divenire la guida spirituale del movimento, di guidare lo stesso Führer.10 La sconfitta fu clamorosa e il «fallimento» – come Heidegger ricorda in una lettera a Karl Jaspers del 1935 – dovette pesare a lungo sul suo stato d’animo.11 Di quell’errore politico non gli restò che prendere atto; le sue dimissioni furono accolte il 27 aprile 1934. Nel complesso si trattò solo di un anno – un periodo circoscritto, una parentesi scabrosa della sua vita, un incidente di percorso, un nazismo accidentale. E dopo? L’immagine di Heidegger, che la versione ufficiale ha diffuso, è quella del filosofo in esilio, isolato a Todtnauberg, nel suo rifugio della Foresta Nera, chino tra politica e filosofia 5 sui manoscritti delle sue lezioni, immerso nel silenzio suggestivo del bosco, lontano dai clamori della scena politica, alla ricerca, lungo i fiumi di Hölderlin, di un altro destino per la Germania. Il tempo della Kehre, della «svolta», avrebbe coinciso con una distanza sempre più marcata dal nazismo e dalle sue tragiche vicende. Al punto da far parlare di opposizione intellettuale o di resistenza interna. Sospetto ai nazisti prima, inviso alle forze di occupazione poi, Heidegger dovette subire ostilità e umiliazioni pagando così a caro prezzo quel suo errore fatale. Sottoposto, nel 1945, al giudizio della Commissione di epurazione, fu interdetto dall’insegnamento nel 1946. Decisivo fu il parere di Jaspers.12 Nell’inverno del 1945-1946 Heidegger precipitò in una profonda crisi e venne ricoverato in una clinica a Badenweiler; si riprese grazie al lavoro e ai nuovi progetti. Qualche anno dopo, il 26 settembre 1951, fu reintegrato nell’università, senza che gli venisse, però, restituita la cattedra. Con tale atto di riabilitazione si chiuse formalmente il capitolo “Heidegger e il nazismo”. Questa versione lascia aperti molti interrogativi. Perché Heidegger restò iscritto al partito nazista fino al 1945? Perché non condannò mai quell’errore, se un errore era stato? Perché non prese mai distanza dal passato? E che dire poi del suo ostentato silenzio, un silenzio muto e impenetrabile, contro cui si sono infrante domande e congetture di poeti e filosofi, da Paul Celan a Jacques Derrida? 3. Dettaglio biografico o nodo filosofico Se il nazismo di Heidegger è stato un errore, limitato alla politica, contenuto entro un periodo molto breve, allora può essere facilmente derubricato a vicenda storica di poco rilievo. Non sarebbe, anzi, che un dettaglio 6 capitolo primo biografico. Ecco perché di solito, se non passa sotto silenzio, viene trattato in modo sbrigativo nelle pagine dedicate alla vita. Il dettaglio non riguarda la filosofia. Che cosa c’entra il rettorato con il superamento della metafisica? Di qui il fastidio dei filosofi, non tanto per il clamore che il caso ha suscitato nei media, quanto per l’enorme quantità di pamphlet e scritti polemici che, accanendosi su quel particolare, hanno dato luogo a un dibattito acceso, talvolta virulento, eppure quasi sempre piatto e superficiale. L’affastellamento di dati e documenti, fatti e misfatti, piuttosto che chiarire il caso, lo ha semmai reso ancor più oscuro. La discussione, nella sua evidente mediocrità, si è prolungata, tra fasi alterne, restando quasi immutata. Perché anche gli esperti accusatori, spesso inconsapevolmente, riducono il nazismo di Heidegger a un vissuto storico. Così finiscono per avvalorare la versione ufficiale. Non è un caso che i loro contributi siano in genere privi di spessore filosofico. Ma chi è concentrato sulla storia dell’essere, sul linguaggio poetico, sul nuovo inizio, non è interessato – perché dovrebbe? – a difetti, bassezze, contraddizioni, meschinità del personaggio. La miseria del filosofo non è la miseria della filosofia. Verrebbe da dire che hanno ragione gli analitici quando, non senza sforzo, tengono separate vita e filosofia. Il problema si è posto di recente con la pubblicazione di lettere, diari e testi inediti di Ludwig Wittgenstein. Che uso è lecito farne? In che modo la biografia di un filosofo può essere importante per il suo pensiero? In nessun modo – rispondono gli analitici.13 Eppure è lo stesso Wittgenstein a scrivere: «Il lavoro filosofico è […] un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere le cose».14 Questa domanda, per i continentali già molto antica, è emersa nel delicato caso di Gottlob Frege, il fondatore della filosofia analitica. Simpatizzante dell’estrema destra, Frege auspicava un «Terzo Regno» della logica.15 Il 30 tra politica e filosofia 7 aprile 1924 annotava nel suo diario: «si potrà riconoscere che ci sono ebrei rispettabili e nondimeno si dovrà considerare una sciagura che ci siano così tanti ebrei in Germania e che abbiano gli stessi diritti dei cittadini di origine ariana».16 Qualche giorno prima, il 22 aprile, confessava: «solo negli ultimi tempi ho compreso l’importanza dell’antisemitismo »; apprezzando l’eventualità di tempestive «leggi contro gli ebrei», ammoniva a non dimenticare l’imposizione di un «segno» grazie a cui «poter riconoscere un ebreo». Vedeva, anzi, qui una «difficoltà» effettiva.17 I curatori delle sue opere hanno provveduto a escludere il diario con l’intento, se non di occultarlo, almeno di ridimensionarne la portata. Certo, per leggere un trattato di logica non è necessario occuparsi dell’antisemitismo dell’autore, sebbene in Frege sussista più di un nesso tra il Reich logico, quello teologico e quello politico. Ma la filosofia non si riduce alla logica né si identifica con la scienza; una separazione tra vita e pensiero è perciò astratta e artificiale. Questo vale tanto più per Heidegger, vicino al modello di Friedrich Nietzsche, il quale, com’è noto, rivendicava la filosofia come espressione della propria individualità. Nel sottolineare la differenza tra filosofia e scienza, Heidegger osserva: «il punto di partenza della via che porta alla filosofia è l’esperienza effettiva della vita»; ma «la filosofia conduce a sua volta oltre» ripercuotendosi sulla vita.18 Se è così, se una scelta compiuta nella vita è al contempo anche un atto filosofico, l’impegno politico non è un incidente riducibile al vissuto storico e, dietro al dettaglio apparente, si cela forse un nodo filosofico. 4. Heidegger antisemita? Qualsiasi cosa si pretenda di dire sul nazismo di Heidegger – così si legge in una pubblicazione recente – non 8 capitolo primo si troverà in tutta la sua opera «una sola frase antisemita ».19 L’assenza di prove al riguardo ha contribuito a rafforzare la versione ufficiale. Se non è stato antisemita, difficilmente Heidegger sarà stato nazista. L’errore politico appare ridotto, l’adesione scivola in secondo piano. Heidegger antisemita? No, non lo era. Questa è stata a lungo la risposta prevalente. È vero che l’odio per gli ebrei, che i nazionalsocialisti non tardarono a manifestare, non lo indusse a prendere le distanze da quel movimento; tuttavia la sua posizione non può essere paragonata a quella degli ideologi della razza. Ne sono stati convinti studiosi autorevoli come Bernd Martin e Rüdiger Safranski. 20 Ma la convinzione era diffusa persino fra i suoi allievi ebrei, i «figli di Heidegger», come li ha chiamati Richard Wolin con un certo sarcasmo.21 Karl Löwith, Hans Jonas, Hannah Arendt, Herbert Marcuse: nessuna insinuazione contro il maestro da parte loro, che altrimenti non gli hanno lesinato critiche e rimproveri. Eppure la loro testimonianza avrebbe potuto essere determinante. Rispetto all’accusa più grave, quella di antisemitismo, che renderebbe ben più motivato l’entusiasmo per il movimento nazionalsocialista, rischiando però di mettere a repentaglio la sua opera, vengono fatti valere due argomenti. Il primo è di ordine biografico, e fa leva sui rapporti personali, le amicizie, le relazioni d’amore. Come spiegare l’attrazione magnetica che Heidegger esercitava a Marburgo prima, e a Friburgo poi, su tanti giovani ebrei? E l’aiuto prestato ai colleghi? Viene di solito ricordato il nome di Werner Brock che, grazie al suo intervento, riuscì a ottenere una borsa di studio per Cambridge. Per non parlare delle relazioni d’amore: con Hannah Arendt, Elisabeth Blochmann, Mascha Laléko. Come andrebbero insieme odio e amore? E Jonas conferma: «No – sul piano personale Heidegger non era un antisemita», Nein – Heidegger war kein persönlicher Antisemit.22 tra politica e filosofia 9 Il secondo argomento sottolinea la lontananza di Heidegger dal «folle sistema ideologico» dei razzisti. Il suo nazionalsocialismo era «decisionista» – scrive Safranski. «Per Heidegger non era determinante la provenienza, quanto la decisione. Nella sua terminologia questo vuol dire che l’uomo non deve essere giudicato sulla base della “gettatezza”, ma del suo “progetto”».23 Nella costruzione di un «nuovo mondo spirituale» non intendeva «escludere» gli altri. Nessuna contiguità, dunque, con l’antisemitismo rozzo e grossolano. E tanto meno con l’antisemitismo «spirituale», che credeva di scorgere uno «spirito ebraico» da cui occorreva difendersi.24 Tutt’al più una certa propensione, solo accademica, a condividere l’«antisemitismo concorrenziale» di coloro che guardavano con preoccupazione al peso schiacciante degli ebrei nelle università e parlavano del pericolo di una Verjüdung, di una giudaizzazione.25 Queste due strategie difensive vengono perseguite anche da Holger Zaborowski in un saggio che, se per un verso ricostruisce l’intero dibattito, per l’altro prende in considerazione i nuovi materiali venuti alla luce. Attraverso un’indagine storica, incentrata su documenti, lettere, testimonianze, Zaborowski mira sia a riabilitare il comportamento di Heidegger verso gli ebrei sia, soprattutto, a tutelarne il pensiero da ogni imputazione. Ammette una certa ambivalenza. Ma precisa che nelle sue opere filosofiche non vi è traccia di «un antisemitismo sistematico».26 Né si può parlare di «momenti» o fasi. Non senza forzature e ardui equilibrismi, vengono smantellate le poche prove a carico, tacitate le dicerie, dissipati i sospetti e i dubbi. Nessun antisemitismo, dunque, né aperto né latente, né personale né filosofico. Solo un paio di osservazioni, contenute nella corrispondenza con la moglie Elfride, riconducibili a quell’«antiebraismo universitario» che faceva parte dello spirito del tempo.27 In mancanza di altri testi, la tesi conclusiva è che l’antisemitismo resti lontano dal suo pensiero. 10 capitolo primo Se questa tesi ha prevalso finora è per la difficoltà di tenere insieme l’immagine del filosofo, che guarda alla questione dell’essere aspirando all’autenticità, e l’immagine del comune antisemita che con il suo gesto politico rientra nell’anonimo man, nella medietà del «si», tanto deprecato in Essere e tempo, quel man nazista a cui in milioni andavano conformandosi.28 Tra le voci dissonanti si distingue quella di Jeanne Hersch che, in un saggio del 1988, ricordando fra l’altro il periodo di studio trascorso a Friburgo negli anni trenta, scrive: «Heidegger non è stato antisemita, come non lo sono di solito molti non-ebrei che, tuttavia, non sono neppure anti-antisemiti». E, a proposito della impossibilità di ridurre il filosofo al man nazista, si chiede se non esistano «nella filosofia di Heidegger o, se si preferisce, nello Heidegger filosofo, dei punti a cui ancorare la sua adesione al nazionalsocialismo, tali da compensare, ai suoi occhi, certi disaccordi, certe ripugnanze e, soprattutto, da infondergli la speranza in un avvenire profetico ».29 5. Il non-detto della questione ebraica Un nuovo capitolo si è aperto di recente nel “caso Heidegger”. Difficilmente si potrà dire «nulla di nuovo». Si tratta infatti del capitolo decisivo, sia perché dovrebbe decidere una controversia aperta da tempo, sia perché riguarda il carattere della decisione assunta da Heidegger negli anni trenta. Gli Schwarze Hefte, i Quaderni neri curati da Peter Trawny e pubblicati dall’editore Klostermann nel 2014, contengono quel non-detto che molti supponevano, o speravano, fosse anche un non-pensato. Nell’ultima pagina del quaderno intitolato Riflessioni XIV, all’indomani dell’offensiva tedesca a est, annunciata da Hitler il 22 giugno 1941, Heidegger annota: tra politica e filosofia 11 La questione riguardante il ruolo dell’ebraismo mondiale [Weltjudentum] non è una questione razziale [rassisch], bensì è la questione metafisica [metaphysisch] su quella specie di umanità che, essendo per eccellenza svincolata, potrà fare dello sradicamento di ogni ente dall’essere il proprio “compito” nella storia del mondo.30 Più volte, e in diversi contesti, Heidegger parla nei Quaderni neri degli ebrei, dell’ebraismo e della “questione ebraica”. A chiare lettere scrive che è una questione non «razziale», bensì «metafisica». Contro ogni possibile fraintendimento avverte che il tema dell’ebraismo va affrontato entro la storia dell’Essere. Qual è il rapporto tra l’Essere e gli ebrei? In che modo gli ebrei minano l’Essere e la sua storia? Che nesso sussiste tra la Seinsfrage, la questione per eccellenza della filosofia, e Judenfrage, la questione ebraica? Ecco dunque la novità dei Quaderni neri. L’antisemitismo ha un rilievo filosofico e si inscrive nella storia dell’Essere. Non è un dettaglio biografico, che possa essere messo da parte, accantonato, dimenticato; perché ne va dell’oblio dell’Essere. Il lavoro d’archivio lascia il posto alla testimonianza, la ricerca meticolosa delle prove, piccole o grandi, del coinvolgimento, la ricostruzione dell’epoca, l’indagine sull’università tedesca, passano in secondo piano, perdendo gran parte del loro significato, di fronte alle riflessioni del filosofo che parla in prima persona. Il “caso Heidegger” non può più essere considerato una vecchia diatriba storica. Si impone, invece, come questione filosofica che chiama direttamente in causa i filosofi e la filosofia. L’adesione di Heidegger al nazionalsocialismo assume contorni ben più netti, perché si fonda su un antisemitismo metafisico. La radicalità di questo antisemitismo getta nuova luce sull’impegno del 1933 che non è stato né un incidente né un errore. Piuttosto è stato l’esito di una scelta politica coerente con il suo pensiero. E di una coerenza esemplare appare anche il suo silenzio successivo. 12 capitolo primo L’antisemitismo non è infatti un di più ideologico, ma è il cardine del nazionalsocialismo. Cade così anche quella differenza che segnava ancora per molti la distanza di Heidegger ad esempio da Carl Schmitt o da Ernst Jünger. Si volta pagina e si apre un nuovo capitolo in cui devono essere sollevate domande che fin qui sono state in gran parte aggirate. La prima, la più urgente, è la domanda sulla Shoah nella storia della metafisica occidentale. 6. I «Quaderni neri» A metà degli anni settanta sono stati depositati nel Deutsches Literaturarchiv di Marbach am Neckar 34 quaderni, rilegati con una tela cerata nera. In quell’occasione Heidegger ha espresso il desiderio che i quaderni fossero pubblicati al termine delle sue opere complete. Fino a quel momento – come riferisce il figlio Hermann – avrebbero dovuto restare segreti, «chiusi a doppia mandata». Nessuno avrebbe dovuto né leggerli né, anzi, averne cognizione. La volontà di Heidegger è stata solo in parte disattesa. Il prolungarsi dell’edizione delle altre opere ha spinto l’amministratore del suo lascito ad anticipare l’uscita degli Schwarze Hefte. I quaderni comprendono un periodo di quasi quarant’anni che va, all’incirca, dal 1930 al 1970. Sono divisi così: quattordici quaderni si intitolano Überlegungen (Riflessioni), nove Anmerkungen (Note), due Vier Hefte (Quattro quaderni), due Vigiliae, uno Notturno, due Winke (Cenni), quattro Vorläufiges (Provvisorio). Sono stati inoltre trovati altri due quaderni, Megiston e Grundworte (Parole fondamentali) dei quali non è certa l’appartenenza all’opera complessiva. Tutti i quaderni sono classificati con numeri romani. Manca a tutt’oggi il primo quaderno Überlegungen I, che risale al 1930. Non è tra politica e filosofia 13 detto, però, che non siano andate perdute anche altre parti. Le Überlegungen XV, scritte nel 1941, si interrompono bruscamente e non sono corredate di un indice analitico, che Heidegger ha invece inserito alla fine di ogni quaderno. Nei prossimi anni è prevista, dunque, l’uscita di tutti gli Schwarze Hefte che, all’interno delle opere complete, comprenderanno i volumi dal 94 al 102. Nella primavera del 2014 è già stata portata a termine la pubblicazione delle Überlegungen (II-XV), i tre volumi 94-96, a cui dovrà seguire il volume 97 per concludere la parte che giunge fino al 1945. Sulla prima pagina delle Überlegungen II compare la data «ottobre 1931». Nel Vorläufiges III Heidegger ha annotato «Le Thor 1969». Questo vuol dire – osserva Trawny – che il Vorläufiges IV deve essere stato scritto all’inizio degli anni settanta.31 Tuttavia la scansione numerica non indica necessariamente una linearità. Si deve presumere che, in alcuni periodi, Heidegger abbia lavorato contemporaneamente a più quaderni. Dato che le correzioni sono poche, e che talvolta le note sono molto lunghe, è probabile che esistessero dei lavori preliminari di cui, però, non resta traccia. Gli Schwarze Hefte non sono né annotazioni private né, tanto meno, diari; sia per lo stile, sia per i contenuti, sia, infine, nell’intenzione dell’autore, sono scritti filosofici. Ma perché Heidegger ha voluto pubblicarli al termine dell’edizione delle opere? I Quaderni neri sono il suo testamento filosofico? Che ruolo rivestono nella sua produzione? Perché ne aveva previsto l’uscita dopo quei trattati inediti sulla storia dell’Essere, testi già così esoterici? Un alone di mistero avvolge i Quaderni neri. Avrebbero dovuto essere la parola dell’éschaton, non l’ultima, ma quella estrema, pronunciata al bordo finale, sull’abisso del silenzio. Di qui la posizione singolare di questo manoscritto a cui i trattati inediti rinviano ma che, per il suo 14 capitolo primo carattere, non può né deve essere centrale. La peculiare eccentricità si manifesta nello stile personale, che porta l’impronta dell’autore. Heidegger parla in prima persona, senza troppe reticenze, con una cruda libertà, l’occhio teso al futuro. Come se si rivolgesse a nuovi interlocutori che, grazie alla distanza della storia, potrebbero forse intendere in modo differente quell’epoca buia dell’Europa. Quanto a lui, non si limita a testimoniare, ma scruta e decifra dal suo «avamposto» che è insieme anche un «posto di retroguardia».32 Come non pensare a Nietzsche? Ma è lo stesso Heidegger ad avvertire che le sue riflessioni non sono aforismi o massime di saggezza. Piuttosto sono Versuche – è la parola che compare in una nota degli anni settanta, scelta dal curatore come esergo – tentativi di «nominare», né enunciati né appunti per un sistema.33 Seguono il filo della domanda, si dispiegano assecondando quell’interrogare che è insieme contenuto e forma, tema e stile dei quaderni. Sotto questo aspetto non trovano un termine di paragone nell’opera di Heidegger e rappresentano un unicum nella letteratura filosofica del Novecento. I Quaderni neri assomigliano al diario di bordo di un naufrago che attraversa la notte del mondo. A guidarlo è la luce lontana di un nuovo inizio. Il paesaggio, oscuro e tragico, è rischiarato da profondi sguardi filosofici e potenti visioni escatologiche. 7. «Reductio ad Hitlerum». Sul processo postumo Ben poche domande, ma molti giudizi sommari, verdetti apodittici, asserzioni lapidarie fomentano il processo postumo a Heidegger che, tra sentenze di primo grado, appelli e revisioni, è entrato prepotentemente nel ventunesimo secolo. La pubblicazione dei Quaderni neri ha riaperto, soprattutto in Francia, un’accesa controversia che, a ben guartra politica e filosofia 15 dare, non era mai stata chiusa. Lo scenario ha tratti imbarazzanti e caricaturali. Da un canto si ergono i difensori a oltranza che, installati nel culto della personalità, respingono, come François Fédier, ogni accusa e negano ogni prova; dall’altro si accaniscono gli strenui e implacabili procuratori, primo in assoluto Emmanuel Faye, che di questa accusa sembra aver fatto la sua missione di vita. Allievo di Jean Beaufret – che dal 1946 era stato l’interlocutore privilegiato di Heidegger e ne aveva promosso il pensiero nel contesto francese – Fédier aveva già replicato al libro di Farías con un pamphlet, uscito nel 1987, che originariamente avrebbe voluto intitolare Apologia di Heidegger.34 Qualche tempo dopo, per respingere la violenta requisitoria di Faye, che nel 2005 ha accusato Heidegger di aver introdotto il nazismo nella filosofia, Fédier ha riunito intorno a sé un gruppo di studiosi pubblicando, nel 2007, la miscellanea Heidegger, à plus forte raison.35 Non presso i filosofi, ma nella stampa, nei media e nel grande pubblico, la voluminosa opera di Faye ha avuto un successo strepitoso ed è stata salutata come la nuova e definitiva vittoria dei lumi sulle tenebre. Il refrain «Heidegger è nazista» viene ripetuto con solerte costanza quasi a ogni pagina. Prove, testimonianze, documenti vengono presentati, in un intreccio più asfissiante che stringente, per supportare l’accusa e chiedere l’incriminazione; il dossier appare completo e il filosofo, «contaminato » dal nazismo, non sembra sfuggire più alla meritata condanna. Quale? La proscrizione perpetua: la sua opera «non può continuare a figurare nelle biblioteche di filosofia ».36 D’altronde, Heidegger non è neppure un «filosofo », e l’autore confessa di essere stato guidato dalla «necessità vitale di veder la filosofia liberarsi della sua opera».37 L’improvvisato inquisitore propone, dunque, che la filosofia proceda al contempo a una scomunica – esiste una scomunica filosofica? – e ammetta la sua definitiva débacle. 16 capitolo primo Le semplificazioni di Faye, che talvolta sfiorano l’assurdo – ad esempio quando crede di scorgere una svastica nella figura heideggeriana del Geviert, il “quadruplice” – possono apparire a un primo sguardo convincenti. Ma problematica è proprio l’argomentazione semplificativa che, con una nota formula, introdotta da Leo Strauss all’inizio degli anni cinquanta, si può chiamare una reductio ad Hitlerum. Si tratta di un «procedimento erroneo», una fallacy, e cioè una variante della reductio ad absurdum: si riconduce e si riduce la tesi dell’avversario alla posizione di Hitler, metonimia del male.38 È in relazione a Heidegger, e al suo pens