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Hai mai scelto di sanguinare?

Le comunità non appartengono al nostro tempo e ai nostri luoghi. Le masse sono scomparse quando abbiamo distrutto la realtà. L'illusione dell'individuo domina il presente ma è chiaramente un'illusione insostenibile, bombardata dal cataclisma in cui siamo immersi.

Il futuro appartiene alle squad ma per costruire questo futuro, dobbiamo prima imparare a sanguinare.

Oggi la prospettiva di ricostruire le comunità sembra una impresa titanica. Chi ci prova pensa che il suo nemico principale sia il Capitalismo. Si appiattisce su un’idea di comunità moderna, magari legata esclusivamente dalla vicinanza geografica o dall’interesse per un determinato tema. Pallida parodia di ciò che sono state. Spesso un eufemismo usato per ragioni commerciali e politiche.

La realtà è che quasi nessuno di noi è veramente pronto a partecipare a una comunità perché in una comunità non ci siamo nati, non ci abbiamo vissuto. Le comunità simboleggiano una via di fuga, il conforto, la deresponsabilizzazione, la certezza che qualunque cosa succeda, avremo qualcuno dalla nostra parte.

L’esperienza spesso però disattende queste promesse. Mettete insieme un gruppo di iper-individui, cresciuti in una famiglia nucleare, socio- e psico-traumatizzati dal lavoro, dai media, dall'arte, dal mercato, dalle macchine. Gente socializzata alla privatezza borghese, alla distanza. Chiedetegli di mediare, di fare compromessi, di rinunciare, di sanguinare. Chiedetegli di rinunciare ad un pezzo di sé e metterlo in comune. Cosa potrebbe mai andare storto?

La maggior parte di noi non è pronta. Sicuramente non io. Dobbiamo prima disindividuarci. Nei secoli scorsi abbiamo trasformato la società per permettere a chiunque di diventare individuo, al suo massimo. Ci sono state date sempre più spinte, sempre più pressioni, facendo diventare il processo di individuazione una fonte di sofferenza invece che una fonte di libertà.

Mao durante la Rivoluzione Culturale chiese dall'oggi al domani a tutti di diventare individui responsabili di portare la rivoluzione in ogni angolo della Cina, partendo dalle loro immediate vicinanze. Chiese al tempo stesso di farlo in ottemperanza alla deliberazione collettiva, alla direzione data dal Partito. Le persone furono così schiacciate e straziate dall'imperativo di essere sia individui che collettività, al massimo delle loro possibilità. Il trauma profondo di questa richiesta riecheggia ancora oggi nella politica cinese e nei ricordi di chi partecipò a quello scellerato esperimento psicosociale.

Essere individuo e collettivo allo stesso tempo è faticoso, destabilizzante. Non possiamo più permetterci di essere individui ma non abbiamo più una collettività affidabile in cui disindividuarci. Il conflitto classico tra individuazione e collettivizzazione deve trovare nuove strade, nuovi modelli, nuove forme.

Come si fa oggi, 25 Agosto 2022, a smettere di essere individui? Rinunciare al proprio nome, al proprio genere, alla propria identità pubblica, alle proprie presenze social, alle proprie ambizioni, al proprio interesse economico? Come si fa ad essere meno nodo (V) e più segmento (E)? Come si fa a far scorrere il proprio sangue non per sé stessi ma per qualcosa di più grande di sé? Come si fa ad abbandonare il sé?

I buddisti qualche risposta se l'erano data ma erano risposte che funzionavano in un mondo in cui l'ecosistema non stava per collassare e avevi una processione di vecchiette che ti portavano da mangiare mentre tu stavi a trastullarti l'ombelico mentre distruggevi il tuo senso del sé.

Anche gli psiconauti qualche risposta se l'erano data, ma poi hanno capito che se dai un acido a uno startupparo californiano questo crederà di essere Dio e costruirà dei gadget sempre più distopici invece che decostruirsi l'ego.

Sicuramente in tanti si sono dati una risposta. Nessuna ha funzionato particolarmente bene visto l'ethos dei tempi correnti.

Oggi la società è pensata per individui. Il lavoro è pensato per individui. Il consumo è pensato per individui. L'arte è pensata per individui.

Tutto intorno a noi ci vincola ad essere individui, nonostante sia chiaro il desiderio diffuso di essere meno di un individuo. Ogni occasione è buona per indulgere in quel senso di appartenenza che sfugge alla retorica dell'iper-individuazione. Appartenenza surrogata, surgelata e consumata senza mettere in dubbio l'imperativo di essere individui. Aggregazione la chiamano a volte. Come se gli essere umani potessero starsi vicini senza sacrificare qualcosa, senza sanguinare. Non siamo container su un molo.

Le forme si sprecano: l'azienda, la setta, il fandom, l'hashtag, Che Guevara, il brand, l'autore, il leader politico, la scena, il canale di meme, l'istanza, i gruppi facebook “sei di X se…”.

Il grande rimosso, l'orrore che non siamo pronti ad affrontare è che non si può avere il caldo abbraccio dell'appartenenza senza rinunciare a ciò che ci hanno insegnato essere sacro: la libertà di scelta, la narrativa personale, l'identità, la determinazione di sé stessi nei confronti degli altri, la proprietà privata. Ci hanno insegnato che la libertà è nell'assenza di vincoli. Ce lo hanno insegnato crescendoci in un mondo pieno di vincoli: la gravità, la morte, la terra, il cielo, la A, la Z. La libertà sta nello sceglierci i vincoli, nello scegliere a cosa rinunciare. La libertà sta nel poter scegliere come sanguinare.

Ci è stato chiesto di sanguinare tante volte: per un Dio Padre, per un Dio figlio, fattosi carne per sanguinare al posto nostro, per un Duca, un Re, un Imperatore, per una Nazione, per un’Ideologia, per un’Idea, per un Mercato e per l’Austerità.

L'orrore sta nell'apprendere che per cambiare a volte serve che quello che dovrebbe stare dentro, come il sangue, debba per una volta stare fuori. Una contaminazione impura, una visione disgustosa, spaventosa, oscena che ci getta nel panico, perlomeno finché non impariamo ad accettarla, ad osservare il rosso fluire dei liquidi interni, nostri e altrui.

PRO HO META CHI ZIN MIN

PRO HO META CHI ZIN MIN

PRO HO META CHI ZIN MIN

cantavano gli Eiffel 65 durante i fantastici anni '90, quando il presente sembrava eterno e con 43.000 lire ti compravi un appartamento in centro a Milano. Questo ritornello cattura un desiderio tanto specifico quanto comune, anche se in tanti non hanno il vocabolario per verbalizzarlo: assumere una sostanza magica, addormentarsi profondamente e l'indomani risvegliarsi vincitori, con una direzione in fronte a sé, con un futuro da costruire insieme. Un futuro rifulgente di benessere, rivalsa, stabilità. Forse rappresenta solo in parte il Vietnam di oggi ma sicuramente rappresenta il Vietnam del 2022 che ci si immaginava 40 anni fa.

Serve trovare un compromesso tra la necessità di sanguinare e la continua pressione ad essere individui. Non ci si può disindividuare da soli, perché chi sta intorno a noi deve cambiare con noi. Non si può essere troppo in anticipo sui tempi, come il muschio artico: pochi millimetri di crescita più rapida dei tuoi pari e il vento gelido ti condannerà a morte certa. La disindividuazione è uno sforzo concertato, in cui si smontano armonicamente le configurazioni mentali, sociali e materiali che ci impediscono di essere meno individui. Lavorare esclusivamente sull'interiore non è sufficiente. Lavorare solo sul sociale nemmeno. Non parliamo poi del piano materiale: conosco un sacco di gente che riuscirebbe ad instaurare il socialismo senza nemmeno provare ad abolire la slam poetry.

Per distruggere l'oggetto complesso e complicato che ci tiene imbrigliati serve uno strumento capace di tenergli testa per complessità, rapidità, adattabilità. Un'identità collettiva destrutturante che protegga al suo interno e smantelli al suo esterno. Un'ecologia di squadre (squad) in cui ognuno/a di noi può temporaneamente supplire a una funzione diversa, appartenere a una collettività parziale, trovare uno spazio di dissoluzione dell'ego più adatto al momento, negoziare la propria appartenenza in maniera fluida come una comunità non permette di fare. Un sanguinamento controllato, flessibile.

Legami forti tanto quanto quelli di una famiglia o di una comunità ma contestualizzati nel tempo e nello spazio, reificati per il conseguimento di determinati obiettivi o per la creazione di situazioni fertili per la crescita personale, la cura, la condivisione. Oggi faccio un volantino con la mia squad sindacale, domani cucino con la squad di scopamici, dopodomani offro rifugio a un ucraino della mia squad di meme. La mia squad di poeti odia la mia squad di pittori, ma è ok.

Le squad esistono da millenni. Dobbiamo solo imparare a riconoscerle e stimolarle. Agglomerati di relazioni forti in cui interpretare ruoli diversi. Nuclei di relazioni forti connessi tra loro da relazioni deboli. Configurazioni sociali estremamente comuni in alcune culture, tra cui quelle mediterranee, ma sparate al massimo volume e interpretate con consapevolezza liberante. Non molteplici personalità da interpretare in sistemi di relazioni diverse, ma diversi collettivi in cui dissolvere la propria individualità.

La squadra moltiplica le energie, crea reti di supporto, opera sul piano psicologico, economico, sociale, linguistico, artistico. Lo fa lasciando spazio al disingaggio che spesso non è possibile in organizzazioni più strutturate come il Partito o l'Azienda, in cui o sei dentro o sei fuori. Ambigue abbastanza da non sentirti in catene, certe abbastanza da darti sicurezza, appartenenza, stabilità. Più di una cerchia, meno di un villaggio.

Le squadre vanno organizzate. Non sono un artefatto della libera aggregazione di persone. Vanno organizzate in uno specifico senso del termine: organizzazione come somma di attività necessarie a configurare le relazioni di modo che questa aumenti la capacità delle persone che vi partecipano ad agire sul mondo e trasformarlo. Al tempo stesso le squad non possono ridursi a un obiettivo funzionale: devono necessariamente avere coesione, affinità, amore, amicizia, empatia, solidarietà.

L’affinità è importante in una squad: una squad non deve essere inclusiva, non deve essere generica, non deve venirti incontro. All’interno della squad non serve la diplomazia, non serve il dialogo. La squad ti protegge dall’Altro e dallo stress di dovertici confrontare, cosa che una comunità non potrà fare. Ci sono altri tempi, altri spazi, altri modi per trovare un minimo comune denominatore, per sviluppare costumi che accolgano persone diverse, per contaminarsi. Se a qualcuno questo può dare energia, a molti altri la drena irrimediabilmente. Se è sbagliato non confrontarsi mai con il diverso, anche per diventare il diverso, è anche sbagliato doverlo fare in continuazione, senza schermature, senza uno spazio in cui non esiste un corrispettivo in cui individuare similitudini e differenze.

Senza l’affinità, l’uniformità, l’allineamento umorale automatico, le squad sarebbero solo la riproduzione di un'azienda, di un partito o di un collettivo politico. Il flusso del sangue deve andare da persona a persona. Sgorgare da un'arteria per convergere in quella di qualcun altro. Senza l'affinità, la squadra sarebbe solamente una macchina senza vitalità, un martello idraulico che squassa l'esistente con la pressione generata dal vigore pompato dai cuori dei suoi membri.

La squad è la gateway drug sociale alla comunità. Al contrario delle comunità stimolate politicamente che esistono oggi, non è una realtà pre-figurativa. Non si preoccupa di creare nel presente una bolla di futuro utopico. L’interno della squad è arredato dai membri come più gli aggrada e come più rispecchia l’energia della squad. Non è importante che vada bene per tutti, è uno spazio occulto e caldo, adatto per chi vi partecipa, fatto su misura.

La squad è resiliente, come il PNRR, più del PNRR. Non ha paura della disgregazione sociale, del prezzo dell’energia, delle alluvioni, della fragilità della supply chain intercontinentale che ti porta lo yogurt di soia al supermercato che poi ci metti le noci, le gocce di cioccolato, un filo di sciroppo d’acero, l’avena per dargli un po’ di consistenta e se gira bene anche un cucchiaio di burro d’arachidi per le proteine. Una squad che oggi si mette moddare le Apecar per fare le corse, domani si adatterà a cacciare mecha-cinghiali nelle praterie urbane.

La squad è un fatto da sempre ma che una ecologia di squad sia capace di sostenere l’urto del collasso è un’ipotesi da verificare e solo il tempo potrà farlo. Al crescere della pressione ecosistemica, il processo di selezione sarà sempre più brutale. Gli individui isolati verranno spazzati via, a partire dai più vulnerabili, economicamente, psicologicamente e socialmente.

La sera si avvicina lentamente e noi stiamo ancora facendo aperitivo. Arriveremo a casa prima che inizi a far freddo? O rimarremo a bere e mangiare discutendo di massimi sistemi?

Muore una società e al funerale uno dice: “e allora niente aperitivo?”. No, niente aperitivo. È reale, niente aperitivo, ma dà fastidio se lo dici. E però quando muore una civiltà io vado lì dai parenti e dico: “salve, mi scusi se glielo chiedo. Ma quindi… niente aperitivo?”

Non ci si può preparare al collasso. È già tanto che ce ne siamo accorti, se ce ne siamo accorti. Un popolo dovrebbe capire quando è sconfitto. Tu lo capiresti, Quinto? Io lo capirei?

Eppure è inevitabile ora che lo sappiamo, nutrire la speranza di essere tra quelli che non verranno travolti dal cambiamento. Dennett diceva che il nostro libero arbitrio risiede nella nostra capacità di preservarci da minacce sempre più complesse. Il collasso ci mette di fronte ai limiti della nostra libertà. Non siamo pronti.

Arrendersi però è da cordardi. Perseverare è l’unica opzione. Bisogna costruire oggi il mondo del post-collasso, portandosi dietro quei frammenti di presente che ha senso salvare. “Freedom must be won by blood” cantavano i Sabaton, intessendo nel loro pezzo “Blood of Bannockburn” una raffinata allegoria del collasso dell’Occidente in cui gli scozzesi simboleggiano un’umanità irrimediabilmente condannata alla sottomissione e gli inglesi invasori rappresentano l’acidificazione degli oceani.

E allora scegliamo di sanguinare. Sanguiniamo insieme. Lecchiamoci i tagli, baciamoci col sapore di ferro sulle labbra, guardandoci negli occhi. Diventiamo osceni.

NASTY ICKY FILTHY AND STICKY

FUCK IT I LOVE IT

(Questo pezzo si è scritto da solo. Noi siamo stati solo un mezzo. Se incontri l'autore per la strada, uccidilo.)