adrianomaini

Un altro blog di Adriano Maini

Un americano a Bordighera

Giorni fa F. mi raccontava vicende quasi picaresche legate a uomini attivi prima della guerra nella filiale locale dell'ex Banca Berry di Bordighera (IM).

In qualche modo la discussione finiva sul transatlantico Rex.

F. mi parlava allora del signore statunitense, proprietario di Villa Garnier (sempre in Bordighera), in cui onore, in quanto passeggero diretto verso le lande native – e perché i paesani del centro storico della città delle palme si sentissero salutati e ben ricordati – il comandante di quella bella nave, quando questa passava davanti a Capo Ampelio, punto geografico incontrovertibile, la faceva condurre, tutta impavesata e con grande accompagnamento di suono di sirena, sin troppo vicina alla costa. Terminato l'immane conflitto, il nostro eccentrico personaggio era tornato ad abitare dalle nostre parti: solo che andò a risiedere in un'altra bella magione, situata un po' più in alto rispetto alla precedente.

E F. da adolescente fu diverse volte a casa di quell'“americano”, come in tanti lo chiamavano, grazie al nonno materno, che ben lo conosceva.

Mi aggiungeva, poi, F. un'altra singolarità: le assicurazioni (o gran parte di queste) del Rex erano state stipulate nella sede di Bordighera della Banca Berry, va da sé con l'assenso della casa madre di Londra.

Un tardo pomeriggio di qualche anno fa a Roquebrune

Ero salito a Roquebrune qualche anno fa in un tardo pomeriggio di metà agosto con il compianto N. A volte si preferisce chiamarla in italiano, memori del Corsaro Nero di Salgàri, Roccabruna, specie riguardo al castello che là sorge.

In ogni caso facevamo i turisti quasi per caso a Roquebrune, nel Comune di Roquebrune Cap-Martin, Alpi Marittime, Costa Azzurra, Francia.

A vent'anni eravamo più interessati, ad usare un eufemismo, alla storia del mondo contemporaneo, piuttosto che a quella remota dei luoghi a noi circostanti. Tra parentesi, N. mi aveva nell'occasione richiamato alla memoria che l'abitudine di discutere con accanimento di massimi sistemi a quei tempi veniva da noi esercitata con altre persone anche in viaggi in automobile verso il capoluogo francese delle Alpi Marittime, per cui spesso la sera si andava non solo a Montecarlo, ma pure a... Nizza (espressione alquanto contorta che fa riferimento a certi miei vecchi post). Del resto quella fortezza, sinché non venne usuale recarsi in Costa Azzurra per autostrada, dalla quale non si scorge, era una visione obbligata, in particolare al ritorno in Italia.

Ho scritto questa discretamente lunga premessa (una divagazione tra le tante!) per arrivare al punto di alcune domande rivoltemi quella volta da N. Mi chiedeva, insomma, qualcosa sulla storia del castello e del borgo, il mio amico N. Qualcosa... improvvisai. Senonché, entrati in un vicolo per iniziare un giro del paese, fermati da una domanda di una gentile signora anziana in vena di socializzare, venivamo intrattenuti da un sopraggiunto artista del legno (bravo, in verità), il quale sciorinava a modo suo le vicende del villaggio, ma senza sbagliare nulla – come poi ho verificato –, anzi, aggiungendo che Roquebrune era stata venduta ai Grimaldi direttamente dal Conte di Provenza. Particolare, quest'ultimo, non riportato neppure da un foglietto turistico ufficiale. Il brav'uomo in questione ci aveva prima proclamato che i suoi nonni erano arrivati in zona da Umbertide, Umbria; al che mi ero sentito in obbligo morale di esternare a tutti che sapevo di una vecchia, forte emigrazione (che in qualche misura avevo frequentato) da Città di Castello (sempre in Umbria, beninteso!) nel locale dipartimento.

Non resisto al gusto della celia. Nella fantasia di Salgàri, come è noto e come accennai (sic!) in altri post (forse da riprendere in qualche maniera !?!), il Corsaro Nero era Conte di Ventimiglia, di Roccabruna e di Roccasparviera: ma, mentre nella mia natale città [Ventimiglia (IM)] di confine si abbonda di riferimenti, anche in chiave turistica, all'avventuroso personaggio, a Roquebrune pensano a tenere lindo ed ordinato il centro storico, tanto, come sosteneva sempre il vecchio artigiano, sono già fin troppi i visitatori indotti dalla vicina Montecarlo...

120, rue de la Gare

Prendo a prestito il titolo di questo trafiletto, 120, rue de la Gare, da un omonimo romanzo uscito miracolosamente (rispetto alla censura militare, e quale censura!) nella Francia occupata dai nazisti, benché trattasse e dei campi di prigionia dei soldati francesi e delle costrizioni di guerra a carico dei civili, per tentare di stendere qualche appunto sull'autore di quel libro, Léo Malet, che anche nella vita reale ebbe traversie non indifferenti.

Mi affido casualmente alla memoria, perché non intendo giocare allo specialista: le recensioni ci sono ormai anche per questo genere, “giallo”, poliziesco, di investigazione, lo si chiami come si vuole, senza fare troppe sottili distinzioni, che lasciano il tempo che trovano, in quanto finalmente ne é stata riconosciuta la dignità letteraria, che da sempre in ogni campo riposa sulla grandezza dei singoli autori. Ma sto divagando e per tornare al tema che mi sono prefissato aggiungerò solo che cercherò di tornare in altre occasioni non solo sul “polar” transalpino ed altre opere similari, ma anche su quelle di altri paesi.

Devo compiere di passaggio un omaggio, ma non di rito, come spero si capirà, al Maigret (troppo noto, perché io aggiunga ancora qualcosa) del grande Simenon (comunque, un belga, che ha vissuto molta parte della sua vita in Svizzera).

Léo Malet, allora. Fu per l'epoca in cui presentò per la prima volta il suo investigatore privato uno che seppe rompere decisamente gli schemi. Già chiamarlo Nestor Burma (il cognome pescato a caso da un atlante in lingua inglese: si tratta della Birmania, oggi Myanmar!) comporta, pur nel realismo di fondo in cui sono collocate le sue avventure, una garbata ironia nei confronti dei già allora imperanti private-eyes statunitensi, ironia che viene prolungata nei comportamenti del personaggio, il quale con tipica verve, direi parigina più che francese, dà dei punti pur all'ottimo Philip Marlowe di Raymond Chandler. Si aggiunga il nome della sua Agenzia, “Fiat Lux”, collocata in pieno centro di Parigi ed il quadro di riferimento inizia a farsi più preciso.

Una affollata galleria di comprimari, presi dalla vita vera, ci accompagna mentre seguiamo i casi affrontati da Burma, casi le cui radici affondano spesso prima della seconda guerra mondiale: tanti personaggi simpatici, uomini della strada e uomini importanti, civili e militari, perdenti come erano (con almeno un po' di dignità!) quelli di una volta, giornalisti (tra cui indimenticabile l'alcoolizzato e bisbetico Marc Covet, sempre informatissimo), ma soprattutto figure di delinquenti presi pari pari (così la intendo io!) dalle cronache dei giornali e non inventati di sana pianta, trafficanti e falsari d'arte, ricconi d'antan, poliziotti ottusi, ma trattati quasi con affetto dall'anarchico Malet, e le ragazze, le donne, ah, le donne!

Raramente ho rinvenuto ritratti più precisi, ma soprattutto affettuosi del nostro immaginario femminino, di quelli dipinti da Malet: ragazze quasi perdute che si riscattano; fanciulle innocenti di tutto ma sempre sul ciglio del burrone; una procace segretaria anch'ella dotata di grande senso dell'umorismo ed acuta osservatrice, ma destinata al nubilato casto, benché platonicamente innamorata del Nostro; anche belle ragazze per qualche flirt di Nestor, che vive, se ricordo bene, almeno una drammatica storia d'amore; cocottes, d'alto e basso bordo, e vere e proprie dark ladies, perché certo non potevano mancare; vecchie streghe e vecchine adorabili; e così via.

Con Malet ho respirato e respiro la cosiddetta storia materiale, la storia minuta, descritta, lo ripeto, con molta grazia, perché, scrivendo in tempo reale, da osservatore attento ha lasciato anche una documentazione, per così dire, imponente per gli anni '40 e '50 (per lo meno fin dove sono arrivate le mie letture). Proverò a spiegarmi con alcuni esempi, non senza prima aggiungere che sempre, con il giusto distacco dell'artista, Léo ha graffiato con gli artigli della denuncia sociale e politica.

Evidenzio solo ora che l'autore con la serie di Burma ha scritto almeno un romanzo ambientato in ognuno degli arrondissements di Parigi. Così la zona della Bastiglia e lì vicino un grande luna-park; vicoli stretti e solite brasseries vicino alle Halles, oggi Centro Pompidour; nei pressi l'ambientazione di un fatto per me molto curioso: come si essiccavano nei primi anni '50 prima di essere messe in vendita le banane, arrivate acerbe da paesi allora esotici; locali poveri e un po' malfamati un po' ovunque, specie a Saint Germain e Montparnasse; ma anche quelli “come si deve”, soprattutto in centro; il Marais, la porta Saint-Denis ed altri siti storici; com'era Lione durante la guerra; e la Germania nazista dei lager; un gigantesco serbatoio dell'acqua potabile a Montsouris; la Port d'Italie, ben prima degli sventramenti che l'hanno trasformata in snodo viario imponente e sede di centri direzionali; belle ville di una volta con grandi giardini nella periferia nord e appena fuori Parigi, con una campagna che sembrava entrare in città; scali merci e linee ferroviarie dappertutto, quasi dentro la Ville Lumiere, ma non mi sembra si parli quasi mai del Metrò, che sappiamo tutti essere da tempo colà una cosa imponente e pressoché obbligata: Burma, tutto elegante (altro particolare che avevo scordato prima), con uno chic più anni '40 che '50 che se ne va sempre in automobile, una bella automobile diciamo “intonata”, o in taxi; ed anche abitazioni povere di operai e tuguri di sottoproletari, questi ultimi non solo in sottotetti di case malandate con scale esterne ancora più traballanti, ma talora sotto forma di un solo piano con quattro assi messe in croce in qualche cortiletto polveroso, comunque, più o meno malamente recintato; e potrei continuare, pur nel limite delle mie letture non complete. Dopo di che ognuno può farsi i confronti che vuole con la Parigi che conosce personalmente.

In Francia del personaggio Burma vennero, mi pare, fatti anche dei film; di sicuro dei fumetti molto belli, di cui alcune immagini scelte fanno da copertina a certe ristampe in corso in Italia. E di Malet la critica si é soprattutto occupata della sua trilogia noir, vraiment noir.

Imprimatur ed altro ancora

Con il post precedente, Imprimatur, mi sono venuti in mente ulteriori elementi.

Il tema ha indubbiamente a che fare con i dettami sui “Libri proibiti” sanciti dal Concilio di Trento. In materia un fatto tragicamente emblematico fu quello di Ferrante Pallavicino, la cui vicenda (in odore di lesa maestà e apostasia fu strenuamente perseguitato sino ad esecuzione avvenuta in Avignone), pur antecedente a quella di Imprimatur, si ascrive perfettamente se non in un giallo, di sicuro in un noir, che del resto qualcuno di recente ha ripercorso in un agile romanzo, collocandovi in qualche modo un grande intemelio del passato, anzi, nel Seicento il “Ventimiglia” per antonomasia, Angelico Aprosio, fondatore dell'omonima Biblioteca nella sua città natale, la “Libraria”: nella realtà, si conobbero e furono corrispondenti letterari. Stava per aprirsi la stagione dei “Fogli volanti”, veri e propri giornali dell'epoca, diffusi in tutta Europa, sostanzialmente cronache di storie giudiziarie, che unitamente ad altre opere a stampa anche antecedenti, specie se “Libri proibiti”, costituiscono una ricca miniera di vicende incredibili, quasi tutte atroci e crudeli, ridondanti, tra altri efferati aspetti, di torture, roghi, decapitazioni, caccia alle streghe, persecuzioni degli ebrei, lupi mannari, mummie, vampiri veri e presunti. Da molti dei libri in questione, rari esemplari dei quali sono custoditi nella Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia, successivamente attinsero in larga misura gli autori del gotico, dell'horror, del terrore, del fantasy, compresi nomi illustri come Stocker, Melville, Hawthorne, Poe, Maria Shelley, Herbert George Wells.

Un altro erudito ventimigliese, Domenico Antonio Gandolfo, continuatore per diversi aspetti, non solo come successore quale Bibliotecario dell'Aprosiana, dell'opera dell'Aprosio, aveva dovuto indagare in precedenza in Roma sulla morte per certi versi tragica e misteriosa della Regina Cristina di Svezia, probabilmente dovuta ad un attacco d'ira per non essere riuscita a fare assassinare tale abate Vaini, che aveva violentato una sua ancella. E pensare che questa donna famosa, che nella Città Eterna fece notevoli cose dal punto di vista culturale sino ad avere esercitato influenza con una sua Accademia sulla successiva costituzione dell'Arcadia, aveva una folla paura di invecchiare, al punto da voler prestare orecchio non solo all'alchimia, ma pure a vari imbroglioni.

Erano tempi così!

Imprimatur

Quando qualche anno fa ho visto su di un quotidiano la notizia del boicottaggio in Italia di “Imprimatur” e di altre successive opere della coppia dei suoi autori, quel romanzo me lo ero quasi dimenticato, di sicuro non ne ricordavo il titolo, pur avendolo letto con grande attenzione ed entusiasmo.

Si tratta di un giallo storico ambientato a fine '600 a Roma, in piena età Barocca, dunque, intessuto con vera ispirazione dei giusti ingredienti dei due generi di riferimento, denso, considerato il periodo in esame, di personaggi, riferimenti e particolari interessanti, con poche concessioni – ma una molto significativa – alla fantasia: un bel libro, insomma, a mio modesto giudizio.

Non mancano, dirette o sottese, ma mai pedanti, riflessioni amare sul potere e sulla società, soprattutto in ordine alla Francia del Re Sole e al Papato: in riferimento a quest'ultimo una chiave di lettura in termini di attualizzazione spiegherebbe, a detta degli autori e di altri loro commentatori, la mancata ristampa e il subitaneo ritiro delle copie ancora in circolazione di quel volume e l'assoluta carenza di editori nazionali per i romanzi che ne sono seguiti. Riprendo ora un sunto della vicenda dal Web: “Imprimatur è un romanzo storico ambientato nella Roma del 1683, nella settimana di settembre che coincise con la battaglia di Vienna tra le truppe cristiane e quelle turche. Rita Monaldi e Francesco Sorti, gli autori, sono all'esordio letterario. L'editore Mondadori, acquisisce il manoscritto e lo pubblica nel marzo del 2002. All'inizio il libro scala le classifiche ma a un certo punto l'editore sembra non crederci più. Il libro non viene più ristampato. Imprimatur sparisce dai cataloghi e dai siti di vendita usuali. Gli autori ottengono nuovamente i diritti. Vanno all'estero e cominciano a contattare gli editori più importanti. Il risultato è che ad oggi Imprimatur è stato stampato in almeno quarantacinque paesi e ha venduto più di un milione di copie nel mondo. Ma perché il romanzo era sparito dal novero delle “creature del creato”? Come mai non veniva più recensito? Come mai era sparito dai motori di ricerca librari su internet? Le risposte arrivano a fatica, tra silenzi e “no comment” d'ordinanza.”

Aggiungo ancora, ma su Internet di sicuro c'é ancora di più: “A causa della valanga di ordinazioni effettuate dopo la trasmissione televisiva “Complotti” (su la7 – n.dr.) l´edizione italiana di “Imprimatur” è andata esaurita. L´editore olandese l´ha ristampata e anche la seconda edizione è terminata dopo pochi giorni. La terza edizione è in vendita non solo presso la libreria online olandese e belga Proxis , ma anche presso la libreria on line Hoepli, che nel frattempo ha richiesto all´editore olandese di poter vendere in Italia IMPRIMATUR. Una vera novità, dato che finora tutte le librerie on line italiane si erano rifiutate di accettare il libro…” Insomma, la notizia giornalistica da cui sono partito non era del tutto uno scoop, ma se non altro ha l'indubbio pregio di tenere desto il dibattito.

Tra l'altro Wikipedia sostiene: “Imprimatur è il primo romanzo di una serie che dovrebbe essere formata da sette thriller storici, ognuno il seguito dell'altro. I titoli dei romanzi compongono una frase latina che racchiude in sé il senso dell'intera saga: “IMPRIMATUR SECRETUM VERITAS MISTERIUM UNICUM ... ...”. “Si pubblichino tutti i segreti del mondo, ma la verità è sempre un mistero. Alla fine rimane solo...”. I due titoli mancanti sono tenuti segreti dagli autori e verranno rivelati solo al momento della pubblicazione ... Poco dopo la pubblicazione il libro, edito da Mondadori, gli autori denunciarono un boicottaggio dalle case editrici italiane le quali, su presunta pressione vaticana, che non avrebbe gradito la pubblicazione di fatti storici riguardanti le trame di papa Innocenzo XI, ne evitarono la ri-pubblicazione nonostante il successo conseguito.”

Ora di questo Papa qualcuno sostiene che avesse finanziato (o la sua famiglia di banchieri) l'insediamento degli Orange, protestanti, sul trono inglese: il che – pare! – non faccia onore ad un beato, proclamato tale solo nel 1956, anche se fu determinante per mandare soccorsi a quella capitale austriaca assediata dagli “infedeli”.

Insomma, tutte queste cronache hanno la cadenza di un giallo con tutte le credenziali a posto.

Il nostro Ponente di Liguria affacciato sul mare

Ritrovandomi qualche anno fa casualmente in intenso pertinente conversare con alcuni amici, emergeva dalle parole di una gentile signora la sottolineatura che non tutte le vicende degne delle nostre terre hanno ottenuto adeguato risalto. Solo lo schizzo rapido del contributo arrecato dai civili alla Resistenza riempirebbe pagine e pagine di volumi. Situazione, purtroppo, credo, omogenea in tutta la Nazione, con l'aggravante, rimarcata in quel nostro piccolo dibattito, di un progressivo generale disinteresse verso la storia, quelle vicende in particolare. Si tratta di una zona non solo di paesaggi minacciati dal cemento, ma anche di fulgide intelligenze, il nostro Ponente di Liguria affacciato sul mare: una stridente contraddizione, dunque, con la situazione reale. Oggi, per lo meno, mi rimane la consolazione di avere ricavato da quel nostro dialogo un'ulteriore conferma della notevole sensibilità umana di quel nostro grande scrittore, Francesco Biamonti, prematuramente scomparso circa vent'anni orsono, che con la sua arte maestra aveva anche saputo, come ha evinto più di un illustre commentatore, anticipare molte delle nuvole scure sul nostro orizzonte.

Cartoline dalla Norvegia

Qualche anno fa, incontrato (o, meglio, ripresentato) mentre era con un comune amico di Ventimiglia (IM) alla ormai scomparsa, causa spostamento a monte della linea ferrata, stazione di Oneglia, Aldo mi disse che ci eravamo conosciuti da giovani a Cipressa (IM): il sottoscritto, solito smemorato, non l'aveva in quel momento ancora messo a fuoco. Forse il primo impatto lo avevamo avuto a San Lorenzo al Mare, paese a levante, ai piedi della collina della Cipressa. Suonava, infatti, da giovane in un'orchestrina. Probabile che ci vedessimo e frequentassimo in quel periodo in entrambe le località. In occasione, di sicuro, di Feste de l'Unità. Ho visto spesso in seguito Aldo, uomo di grande simpatia, anche perché lavorava dalle mie parti. Mi aveva pure procurato cartine della Norvegia. Per dire della sua gentilezza. Ed almeno in un'occasione mi diede un passaggio in auto per attraversare Imperia: quando si dice il caso! Io, invece, una volta lo portai sotto una pioggia torrenziale da Bordighera al capoluogo, dove mi stavo recando per motivi familiari. Aldo avrebbe preferito tornarsene in treno. La mia guida in autostrada sotto quelle intemperie lo fece vieppù rimpiangere (credo!) di avere accettato il mio invito. Io, però, lo accompagnai quasi sin sotto casa. Gli accennai due o tre volte all'episodio, ma fu così gentile da darmi sempre risposte evasive e sfumate. Poi ci perdemmo di vista, perché cambiò lavoro o andò anche lui in pensione. Non avevamo mai pensato di scambiarci i numeri di telefono. Tanto ci si vedeva quasi tutti i giorni, mentre arrancava a piedi da Vallecrosia, dove aveva sede professionale, a Bordighera, o viceversa. Il mattino lo trascorreva in uffici ad Imperia. Mi mancano alquanto i suoi comici indovinelli, di cui avrà di sicuro ancora un'inesauribile scorta.

Bevera

Qualche anno fa, una volta letto l’articolo molto bello, che riporto qui di seguito, non avevo resistito, visto che sono di quella zona, alla tentazione di dire, su un mio blog che a quel tempo non era solo di fotografie come adesso, la mia. Ed oggi mi appresto a riprodurre sia quei bei pensieri che le mie considerazioni di allora. Ancora un aspetto: la località qui richiamata é, con certi suoi dintorni, Bevera, frazione di Ventimiglia (IM), nell’estremo ponente di Liguria.

Era così, mezzo secolo fa, la campagna intorno a casa, con la linea ferroviaria dismessa, che prima della guerra collegava la riviera con la Val Roja e Cuneo, dove ho vissuto i primi anni della mia infanzia. Era il nostro territorio di gioco, quando non esistevano la televisione, i videogiochi, i monopattini e avevamo a disposizione quei lunghi pomeriggi estivi, assolati cieli alti e striduli dal frinire assordante delle cicale che vegliavano su di noi appollaiate sui rami dei ciliegi. Oltre alle cicale non si sentiva altro, forse ogni tanto il latrato di un cane. Né aerei, né automobili, né motopompe, né motozappe. Il lavoro in campagna si svolgeva a mano e in silenzio. La terra si arava e dissodava col magaglio, l’erba falciata con la “serra” a schiena curva, lavoro da donne, il verderame alle viti veniva irrorato con una pompa di stagno, fissata sulle spalle e azionata dalla mano dell’uomo. Anche la gente allora era più silenziosa. Poche chiacchiere e a bassa voce. Strano come nella mia infanzia non abbia mai udito urlare nessuno. Anche i gesti erano misurati, dalla stanchezza che non concedeva sprechi. Per noi bambini c’era la terra, l’acqua, il cielo, le piante, gli animali selvatici, gli odori e la ferrovia abbandonata, col cancello che chiudeva il passaggio a livello ancora cigolante sui cardini che spingevano con tutta la forza delle nostre braccia per poi saltarci sopra appena presa la rincorsa. Gli odori. Lungo la massicciata cresceva rigogliosa una pianta infestante dal fusto poco più grande di un pollice con le foglie lanceolate, non ricordo il suo nome, ma l’ho sempre visto prosperare sui bordi delle ferrovie. Ne spezzavamo i rami più teneri per costruirci la capanna, il nostro rifugio segreto, imbrattandoci le mani del lattice bianco e appiccicoso che sgorgava dalle ferite della pianta e ci impregnava di un odore forte e nauseante che non ho mai dimenticato. Oggi la ferrovia è stata ripristinata, ma la casa e la campagna non ci sono più. Una ligure

Mi ha colpito il testo in questione, perché nel luogo descritto passavo talora anch’io all’epoca: tutto corrisponde! Aggiungo il fascino per me bambino dei segnali ferroviari (antiquati) abbandonati, le spiegazioni di mio padre su alberi (“L’acacia é pericolosa! Tua bisnonna per la puntura di una spina d’acacia nel piede ha dovuto subire l’amputazione dell’arto!”) e su piante, le discese al fiume per bere in foglie verdi e fresche l’acqua sgorgante da polle litoranee. Qualche anno più tardi si andava da quelle parti a tirare quattro calci al pallone: la zona era ancora perfettamente fascinosa e si andava e tornava rasente il corso del Roia per sentirci in piena natura.

Il bel racconto allegato mi restituisce intatta la meraviglia che quei siti in me suscitavano ancor prima della gentile autrice. Solo non ricordo come facesse mio padre a portare sulla canna di una bicicletta da bersagliere me e mio fratello (sì che eravamo piccolini!) sino a bere dalle allora pulitissime acque del Roia, quelle che sgorgavano, come già accennato, tra le erbe profumate di una riva!

Da Saluzzo a Fontane

Tra le carte di famiglia ho di recente trovato una fotografia di un gruppo di persone davanti al Monumento ai Caduti della Grande Guerra di Cuneo, là in trasferta nel 1931 da Alassio, fotografia inviata da un partecipante con tutta probabilità a mio nonno materno.

Cuneo, per noi della Riviera dei Fiori, si può dire molto vicina, sì da sembrare banale diffondersi su memorie personali.

Rinvengo anche una cartolina, da me spedita all’epoca a qualche mio caro, dunque risalente a metà anni ’70, della vicina Boves. Da Wikipedia: “La città di Boves è tra le istituzioni decorate al valor militare per la guerra di Liberazione insignita il 22 luglio 1963 della medaglia d’oro al valor militare e il 16 gennaio 1961 della medaglia d’oro al merito civile per la sua attività nella lotta partigiana durante la seconda guerra mondiale“.

Anche da Boves, non solo da Limone Piemonte, rigorosamente di settembre – prima non avrei potuto fare ferie (ed allora le potevo ancora usufruire non spezzate!) –, sono partito per girovagare per valli, borghi e case isolate, non escluse rapide puntate da amici a Torino. E mi sovviene un certo viaggio in autostop, compiuto ai primi di agosto del 1968, iniziato proprio attraverso località di cui qui sto dicendo!

Uno dei miei primi sconfinamenti nel Cuneese avvenne con una gita scolastica ai tempi delle medie inferiori, quindi, nei primi anni 1960, quando si arrivò sino a Saluzzo per ricalcare qualche orma di Silvio Pellico.

Non vale, certo, il concetto di prossimità per tutte le località della Provincia Granda.

Non ho mai viaggiato molto, per lungo tempo perché bloccato dagli impegni professionali. Oggi mi muovo poco, soprattutto perché miro a soddisfare la mia congenita pigrizia.

Rivedere e ripensare anche ad un passato non lontano geograficamente, come quello rappresentato da località della provincia di Cuneo, mi aiuta a misurare non solo spezzoni di vita, ma anche tanti aspetti di vita sociale e del costume.

Sono tanti ormai, ad esempio, abitanti di quelle zone ad avere casa, in genere seconda casa, su questo lembo occidentale di Liguria. Io stesso sono stato in affitto da persona di Boves, con la quale si finì per diventare amici. E fu emozionante ritrovarsi senza preavviso ad almeno una manifestazione di Partigiani.

Per associazione di idee di Fontane, Frazione di Frabosa Soprana (CN), per via di una ricorrenza, effettuata il 21 ottobre 2013, della guerra partigiana di Liberazione, il cui rilievo morale, civile, storico ritengo fuori discussione, ho un ricordo molto intenso, non solo per il valore morale e storico dell’avvenimento, ma anche per il ritrovarmi tra tante care persone. Un appuntamento preparato con cura e dedizione dall’amico Dantilio Bruno, tuttora Presidente della Sezione A.N.P.I. di Ventimiglia (IM), nato in quei pressi, come racconta in alcuni suoi libri (ed almeno la prefazione di uno di questi l'ho pubblicata anch'io).

Anche quelle volte di Cosio d’Arroscia, ancora in provincia di Imperia, ma in prossimità della parte centro-meridionale della Granda e, quindi, di Frabosa Soprana, volte connotate da quei miei qui preannunciati brevi soggiorni, comportarono, più per le visite che spesso ci venivano fatte che per altro, rapide escursioni ad Ormea, Garessio. Mondovì…

Per non dire della linea ferroviaria Ventimiglia-Cuneo, ripristinata nel 1979, di cui alcuni dei ponti distrutti dai nazisti alla fine della guerra vidi già da bambino.

Forse avrei ancora tanti singoli aspetti, legati in qualche modo a quella provincia, da illustrare prima o poi...

Cabane

Si passava più o meno davanti ad una vecchia casa in pietra per andare da S., un bambino della mia età. Non molto lontando da dove abitava il ramo materno della mia famiglia, come ho già raccontato. A Bordighera (IM), certo. Se d'estate stavo da lei, la nonna, che là per qualche anno (ed ecco forse spiegata la lunga “latitanza” di cui in seguito a questo post) andava a cucire, mi ci portava nella zona richiamata, dove i genitori del mio amico gestivano un'azienda floricola. Ed i fiori, sessant'anni fa, venivano ancora coltivati alla grande dalle nostre parti.

Una cosa singolare, che mi era già capitata poco tempo prima con una cara compagna di scuola delle elementari, é che passarono decenni prima che ci si ritrovasse. E, come nell'altro caso, non sono stato io a riconoscere l'interlocutore, ma il contrario.

Eravamo stati, per così dire, paggetti nel gennaio 1956 al matrimonio di una mia zia materna. Ed ho penato alquanto a ritrovare la foto che documenta questo piccolo, grande avvenimento, ma alla fine ce l'ho fatta e gliel'ho mandata.

In quei lontani ed assolati pomeriggi era una grande avventura scorrazzare con S. in quella campagna. Oggi scomparsa, come sono scomparsi – come mi ha sottolineato in seguito suo cugino – due casolari di antica bellezza, per fare posto in terreni che quella famiglia aveva in affitto a nuove costruzioni.

Un aspetto di cui mi ricordo ora all'improvviso e che mi intrigava molto era contribuire, spostando piccoli arnesi di chiusura, al passaggio dell'acqua irrigua nelle canalette di derivazione al servizio della parte orticola della struttura. E intanto mangiare, crude, gustosissime (allora!) carote novelle!

L'acqua, certo. Il primo aneddoto che ho inteso sottolineare a S. – e lui non se lo ricordava – quando ci siamo rivisti concerne quella volta che ci avventurammo – nessuno dei due sapeva ancora nuotare! – nella grande vasca di raccolta dell'acqua piovana: anche per trovare frescura, ma soprattutto per compiere un'azione proibita, tanto é vero che la nostra prodezza venne individuata e redarguita in seguito al rinvenimento delle nostre mutande bagnate.

Da S. sentii in quei tempi suonare per la seconda volta in vita mia dei dischi, in questo caso a 78 giri, e mi imbattei nel marchio del cane davanti ad un grammofono. Giocai in prima assoluta a Monopoli, il cui esemplare S. conserva ancora.

Singolare ancora che S., mentre io – ripeto – lo avevo perso di vista, negli anni abbia frequentato i miei fratelli...

Non ho perso, invece, il ricordo di com'era la zona qui citata. Là, alle Cabane!