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D'esservi creatrix"ontologica" là"ontologiadell'esserEventontology Oltre la verità della veritàMetafisica. Diopan è la Verità senzaperché è in Sé essereventitàdell'essere sEnzaperché. Essereventod'essereventontology dellA verità dell'essere senzaPerché in sé. ONTology creativa creatrix è senzaperché creativa oltremetafisica kreatrix eventONTOloGy È senzaPEhé già crea iN sé poetanteveNtontology“pensiero abissale”senzaperché È l’eventontology dà: «Giacché!»già essereventontology“oltre”«La metafisica abissontology dell’esserevento»dà senzaperché“l씓là”diradanza oltre la metafisica–Paneraclitontology. «Giacché senzaperché nient’altro»’essere dell’eventontology panullasenzaperché. L’eventontologia Senzaperché«abissaleventontology»crea vi crea”crea»creatrix crea senzaperché diradanza in sé È paradossontology iN sé là essere-nel- deserto»ultimo diopaneVento già creatrix crea crearevento crea creatrix crea’creativeventò crea: «crea:crearsi crea»creativontology. «Crearsi in sé“dà”»È creatriceventontology crea senzaPerché Eraclitontology”È EraclitoNtologia crea in sé È crea senzaperché crearevento senzaperché evento crea“senzaperché”È in«sé diradanza»creatricevento creatrice È EraclitoNtològy oltre Il pensiero metafisico crea. La creatrice creatrix creatriceveNtontologia crea la morte di diopan È raduraLì crea È“senzaperché” È la morte di Diopan’al di là’al di là’al di là morte di Diopan creatrix creatio ex nihilx già crea. CreatrIx in sé da sé senzaperché in sé crea essernevento. Crea crea-evento. 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È già esserevento crea stringravità stringholexgravità stingravità’infinità dello spaziotempo stringravità-metafisica in sé abissalevento!–«abissaleventontology»stringravità Eventontologico dell’eterno ritorno. Seguiamo punto per punto i passi di questa visione: «Garda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine»[87]. La porta carraia, per sua natura, è un punto di sutura, unisce due vie. Le due vie simbolizzano le due estasi del tempo, il passato e il futuro; entrambe infinite, e quindi impercorribili fino in fondo. «Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E questa lunga via fuori della porta e in avanti – è un’altra eternità»[88]. Ma proprio nel punto di sutura esse certamente convergono, ma allo stesso tempo divergono, l’una si contrappone all’altra: «Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convergono. In alto sta scritto il nome della porta “attimo”»[89]. Il tempo se visto come un flusso continuo, si presenta come una linea continua ed infinita; se visto invece a partire dell’“attimo”, le due infinità del tempo sono tra loro sia convergenti sia divergenti. L’attimo cioè è il punto a partire dal quale le due infinità si approssimano, ma anche si allontanano. L’attimo crea quindi una estrema tensione tra le due infinità; «ma chi ne percorresse uno dei due – sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?»[90]. Il punto essenziale è quindi capire se questa tensione nell’eternità del tempo venga risolta, oppure no. Bisogna subito ribadire che l’eterno ritorno non è la semplice affermazione che il tempo è in verità circolare. Infatti, il nano semplifica la descrizione di Zarathustra: «Tutte le cose dritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è circolo»[91]. Il nano risolve l’enigma in modo sprezzante, non rilevando nessuna difficoltà. Commenta in tal senso Heidegger: «La difficoltà non è per lui tale che valga la pena di parlarne; infatti, se le due vie scorrono nell’eternità, vanno verso la stessa cosa, quindi vi convergono e si conchiudono in un tragitto ininterrotto. Quelle che a noi sembrano due vie diritte che si dipartono l’una dall’altra, non sono in verità che la parte per ora visibile di un grande circolo che ritorna continuamente su se stesso. Le cose diritte sono una parvenza. In verità il loro scorrere è un circolo, cioè la verità stessa – l’ente, così come esso in verità scorre – è ricurvo. Il ruotare-in-circolo-su-se-stesso del tempo e quindi il continuo ritornare dell’uguale, di tutti gli enti, nel tempo, è il modo in cui l’ente nel suo insieme è. Esso è il modo dell’eterno ritorno. Così il nano è giunto a indovinare l’enigma»[92]. Ma Zarathustra rimprovera il nano, accusandolo di prendere questo enigma troppo alla leggera: «Tu, spirito di gravità! dissi io incollerito, non prendere la cosa troppo alla leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi, sciancato – e sono io che ti ho portato in alto!»[93]. La questione dell’eterno ritorno posta come semplice circolarità del tempo, è per Zarathustra estremamente semplificante, non coglie, cioè, il punto essenziale di questa dottrina. Vediamo come invece Zarathustra pone l’essenza dell’eterno ritorno: «Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all’indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un’eternità. Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta?»[94]. Zarathustra pone il problema dell’eterno ritorno, in primo luogo partendo dall’attimo, e poi problematizzando l’infinità del passato, la cui questione sembra qui essenziale per cogliere l’eterno ritorno. Se cioè il passato è una via infinita, allora qualsiasi nostra possibilità, qualsiasi accadimento, qualsiasi configurazione di questo accadimento, deve essere già sempre accaduto; semplicemente perché l’infinità eterna del passato include, per sua essenza, qualsiasi configurazione del presente: «E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia – esserci già stata?»[95]. Non semplicemente “questo attimo”, ma anche tutto ciò che ad esso è connesso: «E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra, in modo tale che l’attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque – – anche se stesso?»[96]. Se tutte le configurazioni dell’accadimento sono già accadute, anche il loro legame con ciò che sta per accadere, deve essere già accaduto, il futuro accadimento, che si approssima a quello presente, proprio così come si schiude nel presente, deve essere già accaduto: «Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori – deve camminare ancora una volta!»[97]. Se pensato secondo la prospettiva dell’eterno ritorno il passato ed il futuro nell’attimo presente non si contraddicono più, anzi essi si richiamano vicendevolmente, proprio perché se il passato eternamente non è altro che la ripetizione di ciò che accadrà, dall’altra il futuro eternamente non ripete che le infinite configurazioni già presenti nel passato; ecco perché in precedenza Zarathustra domandava se questi sentieri si contraddicono in eterno. Bisogna insistere sul fatto che Zarathustra non parla semplicemente di circolarità del tempo, come «sprezzante» fa il nano, egli parla delle due eternità del tempo passato e futuro, partendo dall’attimo, dalla «porta carraia», ed è solo partendo da questa constatazione, quella appunto dell’eternità che implica la ripetizione, che rende necessaria la dottrina dell’eterno ritorno: «E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti – non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta? – e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno?»[98]. Ma questi pensieri sono per Zarathustra estremamente inquietanti: «avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi»[99]. Ma perché Zarathustra ha così tanto timore di questi pensieri? In fin dei conti il pensiero dell’eterno ritorno non dovrebbe portare sulla vetta più alta l’intera sua dottrina? Non dovrebbe cioè egli esultare di questo “abissale pensiero”? E invece no, dette queste ultime parole, ecco che la visione di Zarathustra si fa ancora più cupa; all’improvviso egli sente l’ululare di un cane, e si ricorda di un altro passato episodio in cui vi era il medesimo terrificante ululare. Lo scenario precedente svanisce, il nano, il ragno, la porta carraia; d’un tratto Zarathustra si trova «in mezzo a orridi macigni, solo, desolato, al più desolato dei chiari di luna»[100]. E nelle prossimità del cane che ululava, vide una scena agghiacciante: «Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca»[101]. Cosa simbolizza il giovane pastore e il serpente? Il giovane pastore è Zarathustra stesso, mentre il serpente simbolizza la circolarità dell’eterno ritorno. Ma allora perché Zarathustra è drammaticamente aggiogato dal pensiero che più di tutti dovrebbe invece affrancarlo? In effetti, l’eterno ritorno ha due differenti letture, l’una delle quali atterrisce Zarathustra. Se infatti l’eterno ritorno mostra che tutti gli accadimenti dovranno in eterno ripetersi, allora la volontà che crea, in verità, non crea nulla di nuovo, perché appunto ciò che di nuovo crea è già stato creato, e non una volta, ma infinite volte. Da questo punto di vista l’eterno ritorno porta all’estremo la sofferenza della verità metafisica; in quanto appunto, come la verità trascendente, l’eterno ritorno, aggioga l’uomo ad una legge eterna. Ma esiste anche un’altra lettura dell’eterno ritorno, quella per cui ogni nostro decidere, ogni nostra scelta, è una novità assoluta che si eternizza; nel senso che ogni nostro superamento non si esaurisce nel tempo della vita attuale, come vorrebbe lo spirito di gravità, ma eternamente ritorna. Eterno è ogni nostro attimo, e quindi eterna è ogni nostra opera, ogni nostro creare; non perché già da sempre ritornante, ma perché il nostro creare crea un frammento dell’eternità. Il tutto insomma si gioca su come intendiamo l’“attimo”, se l’interpretiamo mediante il primo senso negativo dell’eterno ritorno, allora l’attimo non è altro che il ripetersi eternamente di qualcosa di già deciso, e di cui la nostra volontà non può far nulla; se invece interpretiamo l’attimo mediante il secondo senso positivo dell’eterno ritorno, allora esso è veramente un atto creativo “nuovo” che ritornerà in eterno, o anche qualcosa che io già da sempre ho creato e per sempre ritornerà. Ed infatti, nella visione Zarathustra prova all’inizio a strappare il serpente dalle fauci del giovane pastore, ma non riuscendoci, grida «Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!»[102]. Il morso non è altro che l’attimo de-ciso dall’uomo che si eternizza per sempre. Infatti, il pastore che mordendo stacca la testa del serpente si trasforma: «Non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!»[103]. È il riso del fanciullo eracliteo che in un attimo crea una nuova eterna configurazione del mondo. La metafisica ha sempre separato la dimensione dell’essere da quella del divenire, anzi possiamo certamente affermare che la metafisica è l’inizio di questa separazione. Ora, Nietzsche tenta un qualcosa di estremo: ricongiungere il mondo dell’essere con quello del divenire. E questo viene compiuto, o per lo meno tentato, proprio con l’eterno ritorno dell’uguale: «Che tutto ritorni, è l’estrema approssimazione di un mondo del divenire al mondo dell’essere»[104]. Questa approssimazione accade proprio nell’attimo, è in esso che l’essere e il divenire si compenetrano. Questo perché nell’attimo non si ha il semplice presentarsi di un essente, che poi diverrà passato, per poi ritornare dopo una sorta di anno cosmico. No, qui l’attimo è il convergere in uno delle tre estasi del tempo e che costituisce, per ciò stesso, l’essente che eternamente ritorna; non quindi l’eterno ritorno di un essente nell’involucro circolare del tempo, ma l’eterno ritorno della sintesi delle tre estasi del tempo nell’attimo dell’essente. Illuminante è in tal senso la proposta interpretativa di Deleuze: «Il rapporto sintetico che l’attimo ha con sé in quanto presente, passato e futuro fonda il rapporto con gli altri attimi. L’eterno ritorno è così la risposta al problema del passare; esso perciò non va interpretato come ritorno di un qualcosa, di un uno o di un medesimo. Intendere l’espressione “eterno ritorno” come ritorno del medesimo è un errore, perché il ritornare non appartiene all’essere ma, al contrario, lo costituisce in quanto affermazione del divenire e di ciò che passa, così come non appartiene all’uno ma lo costituisce in quanto affermazione del diverso o del molteplice. In altre parole, nell’eterno ritorno l’identità non indica la natura di ciò che ritorna, ma, al contrario, il ritornare del differente; perciò l’eterno ritorno dev’essere pensato come sintesi: sintesi del tempo e delle sue dimensioni, sintesi del diverso e della sua riproduzione, sintesi del divenire e dell’essere che si afferma dal divenire, sintesi della doppia affermazione. L’eterno ritorno, allora, non dipende da un principio di identità ma da un principio che, per tutti questi aspetti, deve soddisfare le esigenze di una vera ragione sufficiente»[105]. La sintesi delle tre estasi ha qui un valore ontologico – «imprimere al divenire il carattere dell’essere» –, e quindi l’eterno ritorno è l’eterno costituirsi dell’essere nel differente. Dove per differente Deleuze intende l’essenza stessa della volontà di potenza: «La volontà di potenza è l’elemento dal quale derivano sia la differenza di quantità di forze che siano tra loro in rapporto, sia la qualità che, in questo rapporto, è propria a ciascuna forza»[106]. In tal senso l’eterno ritorno non è altro che la sintesi delle forze, della loro differenza e della loro riproduzione. Con l’eterno ritorno tutto il pensiero di Nietzsche trova un minimo comun denominatore. Se infatti l’essente è per Nietzsche volontà di potenza, l’eterno ritorno non è altro che il modo in cui la volontà di potenza esiste, come si configura nel divenire. Come si è detto, tutta la terza parte dello Zarathustra ha come tema dominante l’eterno ritorno, anche se esplicitamente questo pensiero viene nominato solo in due brani, quello testé analizzato e Il convalescente. Tuttavia questo pensiero aleggia su tutti i brani della terza parte, in cui i temi principali delle sezioni precedenti, quali il superuomo, la morte di dio, la volontà di potenza, vengono ripresi e ripensati dal punto di vista dell’eterno ritorno, collocati quindi nella dimensione cosmica della vita. La contemplazione di Zarathustra si immerge sempre più nell’eternità del cosmo, della sua vastità: «Oh, cielo su di me, puro! fondo! baratro di luce! Nel contemplarti fremo di desideri divini! Gettarmi nella tua altezza – questa è la mia profondità! Calarmi nella tua purezza – questa è la mia innocenza!»[107]. Come il fanciullo i suoi pensieri sono sempre più protesi verso l’immensità che l’eterno ritorno gli apre, che simile al cielo benedice tutte le cose: «su tutte quante le cose sta il cielo caso, il cielo innocenza, il cielo tracotanza»[108]. E tutte le cose sgorgano da questa tracotanza: «L’origine di tutte le cose buone ha mille forme, - tutte le buone cose proterve balzano con voluttà nell’esistenza: come potrebbero far ciò sempre e soltanto – una volta!»[109]. Come si è detto, anche la parte decostruente del pensiero di Zarathustra assume nuova linfa con l’annuncio dell’eterno ritorno. Nel brano Del passare oltre Zarathustra critica la «grande città», simbolo della modernità. Essa indica l’abbandono da parte dell’uomo della vastità del mondo, perché tutto essa rimpicciolisce e smembra: «qui marciscono tutti i grandi sentimenti: qui soltanto sentimentucci scheletriti possono far rumore coi loro ossicini!»[110]. A questa miseria umana Zarathustra propone di passare oltre, e di immergersi nella propria solitudine, per godere della vastità del mondo. La solitudine dei monti è la patria di Zarathustra. È questo un nuovo modo di intendere la patria. Considerarla cioè come il nostro semplice cerchio è per Zarathustra troppo ristretto; per lui la patria è lì dove il mondo è più vasto, dove la terra con le sue radici vive nella più piene apertura del mondo. La solitudine, da questo punto di vista, non è assolutamente chiusura nel puro solipsismo di un uomo che rifiuta la vita, ma, al contrario, completa apertura nei confronti dell’eternità ritornante della vita. Ma questa apertura accade solo quando tocca la nostra più intima essenza, è per questo che bisogna passar oltre il chiasso della città. Questa contrapposizione tra il rimpicciolimento della dimensione cosmica da parte della tradizione e l’apertura che Zarathustra invece propone, è straordinariamente presente nel brano Delle tre cose malvagie. Quali sono le cose che la tradizione occidentale reputa massimamente malvagie? Esse sono la voluttà, la sete di dominio e l’egoismo. Ma anche qui la tradizione, come massimamente fa l’ultimo uomo, tutto rimpicciolisce, e non coglie la portata cosmica di queste cose. Se viste cioè al di là della dimensione mondana in cui sono state sempre collocate, si scorge una straordinaria ricchezza. La voluttà è «per i cuori liberi innocente e libera, la gioia del giardino terrestre, il traboccante ringraziamento del futuro per il presente»[111]. La volontà affrancata vede nella voluttà la sollevazione dell’esistenza individuale al di sopra di sé nell’infinita catena delle generazioni, vede cioè la propria finitezza anelare l’infinità del tempo, e quindi della sua eterna ripetizione. La sete di dominio apre la storia verso una dimensione sempre più vasta, spinge ogni epoca oltre se stessa in sempre più estesi futuri; la sua sete non si ferma in ciò che è vicino o raggiunto, anzi essa non si ferma mai, perché anela verso la più estrema lontananza. L’egoismo, visto sempre con gli occhi innocenti di Zarathustra, e come già visto in precedenza, non è l’egoismo di una vita meschina, ma la virtù donatrice che si prodiga per la sua sovrabbondanza. Il suo egoismo è in verità il suo estremo sacrificio, che preda le più grandi ricchezze trasmutandole, per poi donarle all’uomo. Ma questo capovolgimento di tutti i valori della tradizione deve fare i conti con quello che per Zarathustra è il suo più acerrimo nemico: lo spirito di gravità. Con il pensiero dell’eterno ritorno si comprende ancora meglio cosa questo spirito significa: la chiusura cosmica dell’esistenza. Zarathustra contrappone alla pesantezza dello spirito di gravità la leggerezza dello spirito uccello, proprio della sua specie, «sempre pronto e impaziente di volare, di volar via – questa è la mia specie: come potrebbe non esservi qualcosa degli uccelli!»[112]. Il volo dell’uccello mostra la volontà che superando se stessa anela all’eternità del cosmo. Zarathustra è allora colui che insegna agli uomini il volo dell’uccello, solo con esso l’uomo più affrancarsi dallo spirito di gravità, diventando creatore del suo mondo: «Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini, avrà spostato tutte le pietre di confine; esse tutte voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola – “la leggera”»[113]. Ma l’uomo non è ancora capace del volo, egli sa certamente correre velocemente, ma, come lo struzzo, è ancora aggiogato allo spirito di gravità: «Lo struzzo corre più veloce del più veloce dei cavalli, ma anche lui ficca ancora pesantemente la testa nella terra pesante: così pure l’uomo, che ancora non sa volare. Pesante è per lui la terra e la vita; e così vuole che sia lo spirito di gravità»[114]. Perché l’uomo impari la leggerezza dell’eternità cosmica, deve, prima di tutto, imparare ad amare se stesso, ma «di amore sano e salutare: tanto da sopportare di rimanere presso se stessi e non andare vagando in giro»[115]. L’autentico amore verso se stessi esige la propria solitudine, una solitudine che, come si è visto, è, in verità, apertura cosmica. Questo amore è un tutt’uno con quelle virtù che in precedenza abbiamo nominate: la voluttà, la sete di dominio e l’egoismo. Tutte e tre queste virtù, se viste nella prospettiva cosmica, anelano alla leggerezza, allo slancio creativo, a tutto ciò di cui lo spirito di gravità si oppone. Infatti, esso aggioga l’uomo alla pesantezza del trascendente, e per questo lo aliena. A questa alienazione Zarathustra appunto contrappone l’amore verso se stessi. Insegnare il volo non significa però per Zarathustra allontanarsi dalla finitezza delle cose. Ma, anzi, proprio mediante questa dottrina Zarathustra vuole portare ad un nuovo significato la finezza dell’uomo e delle cose, quello in cui la finitezza, anelando l’infinità, l’abbraccia, e trova in essa la sua propria patria. Solo che qui non si intende l’infinito che la metafisica pone al di là del mondo diveniente che, appunto, è la negazione del finito. Il finito abbraccia l’infinito, proprio perché questo non sta al di là di quello, ma è in esso e attorno ad esso. La dottrina dell’eterno ritorno afferma che la finitezza, in quanto finitezza, eternamente ritorna, e quindi si trasfigura in in-finitezza. Questo contrasto tra la leggerezza della finitezza che si inanella con l’infinitezza, e la pesantezza del finito separato e schiacciato dall’infinito del trascendente è pienamente svolto nel brano Di antiche tavole e nuove. In esso Zarathustra contrappone due sistemi di valori partendo sempre dal rapporto cosmico dell’esistenza. Se le vecchie tavole sono tutte dedicate allo spirito di gravità, a quelle categorie – del bene e del male – che aggiogano l’uomo impedendogli veramente di creare nella pura innocenza il proprio mondo; le nuove tavole parlano dell’amore per la dimensione eterna del mondo, e del conseguente anelito creatore del superuomo. È un inno all’elevatezza dell’anima, alla sua capacità di salire le vette più alte, ma anche le più profonde, diventando la misura cosmica di tutto l’ente: «l’anima, infatti, che ha la scala più lunga e può giungere alla maggiore profondità… l’anima dall’estensione più ampia, che dentro di sé può correre ed errare e vagare nelle più vaste lontananze; la più necessaria, che per suo piacere si precipita nella casualità… l’anima che è, e che si immerge nel divenire; l’anima che ha, e che vuole gettarsi nel volere e nel desiderio… che fugge se stessa, raggiungendosi nell’orbita più vasta; l’anima più saggia, cui la follia parla più suadente di tutto… la più capace di amare se stessa, in cui tutte le cose hanno il loro corso e ricorso, flusso e riflusso»[116]. L’anima più elevata è quella che anela l’eterno ritorno, il «flusso e riflusso» di tutte le cose, e per questo si «immerge nel divenire» cosmico, e trova nella casualità del caos cosmico il suo principio motore. In tutti i brani brevemente accennati aleggia come un vento poderoso la dottrina dell’eterno ritorno, senza la quale il superuomo, la morte di dio, e la volontà di potenza non potrebbero essere un vero nuovo inizio rispetto alla metafisica occidentale. Vi è un secondo brano in cui questa dottrina viene esplicitamente enunciata, Il convalescente. In essa però questa dottrina non viene esposta direttamente da Zarathustra, ma dai suoi animali, l’aquila e il serpente. Egli infatti evoca il suo pensiero abissale: «vieni su, pensiero abissale, dalla mia profondità! Io sono il tuo gallo nel grigiore dell’alba… La mia voce dovrà pure svegliarti col suo canto del gallo!»[117]. Ma questo canto non trova risposta, anzi, immerso in questo pensiero Zarathustra si trova soffocato dalla nausea, e sviene, rimando al suolo per sette giorni. Nietzsche con questo episodio ci vuole mostrare la grande difficoltà di esprimere questo pensiero con parole adeguate, manca forse il linguaggio che possa veramente esprimerlo. Al suo risveglio il mondo gli appare come un giardino, ed infatti gli animali di Zarathustra lo incitano ad uscire dalla sua caverna: «come un giardino, il mondo ti attende. Il vento giuoca con densi aromi, che vogliono raggiungerti; e tutti i ruscelli vorrebbero correrti dietro»[118]. Zarathustra è adesso un convalescente, una nuova trasformazione è avvenuta in lui, e gode con occhio innocente lo schiudersi del mondo. Ma pur avendo raggiunto una nuova consapevolezza dell’eterno ritorno, la sua individualità non si spezza nella pienezza eterna del tutto, ma anzi è proprio nella sua profonda solitudine che può godere dell’eterno ritorno: «ad ogni anima appartiene un mondo diverso; per ogni anima, ogni altra anima è un mondo dietro il mondo»[119]. Ed infatti il modo in cui l’eterno ritorno viene esposto dagli animali di Zarathustra, non può essere il modo con cui l’uomo vive questo pensiero. Gli animali sono parte dell’ente che vive il mutamento senza opporsi; essi sono nel gioco dell’essere, e non suoi antagonisti come l’uomo. In tal senso il modo con cui gli animali espongono l’eterno ritorno è quello vissuto dalla natura: «tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell’essere. Tutto muore, tutto torna a fiorire, eternamente corre l’anno dell’essere. Tutto crolla, tutto viene di nuovo connesso; eternamente l’essere si costruisce la medesima abitazione. Tutto si diparte, tutto torna a salutarsi; eternamente fedele a se stesso rimane l’anello dell’essere. In ogni attimo comincia l’essere; attorno ad ogni “qui” ruota la sfera “là”. Il centro è dappertutto. Ricurvo è il sentiero dell’eternità»[120]. Gli animali espongono l’eterno ritorno non dal punto di vista del tempo in sé, ma del suo «sentiero». Nel senso che l’ente finito viene visto nel tempo eterno. Infatti, tutto ciò che va e torna, che muore e poi fiorisce, viene pensato come finito. È cioè certamente immerso nell’infinità del tempo, ma non è per ciò stesso infinito. Se quindi il tempo è infinito, allora tutte le configurazioni dell’ente finito devono essere già esistite, ma non una volta, bensì infinite volte, ed infinite altre volte debbono ritornare. Ora proprio l’infinità del tempo impone che ogni vita, ogni ente, non abbia un’origine, un momento in cui abbia avuto inizio; è per questo che gli animali di Zarathustra dicono: «il centro è dappertutto». Questo comporta che il tempo e l’eternità non sono più separate, come invece fa la metafisica, ponendo un al di qua e un al di là. Qui infatti « attorno ad ogni “qui” ruota la sfera “là”», l’eternità del tempo che si mostra come eterna ripetizione, salda la ripetizione presente con quelle infinite ripetizioni che si sono già avute e con quelle che infinite volte dovranno accadere. Per l’ente di natura l’originalità di un evento è solo apparente, perché ciò che appare come avvenimento singolare, è già apparso infinite volte, ed infinite altre volte dovrà apparire. Essi esprimono il gioco dionisiaco del mondo di infinite creazioni e distruzioni dell’ente. Eppure Zarathustra ascoltate queste parole, si rivolge ai suoi animali dicendo: «O voi, maliziosi burloni e organetti da cantastorie…come sapete bene ciò che ha dovuto adempirsi in sette giorni»[121]. Vi è quindi un’essenziale differenza tra Zarathustra e i suoi animali. Se questi sono trascinati nella corrente eterna del tempo, privi di una meta; per l’uomo la questione è differente: se pur si trova immerso nel tempo, egli allo stesso tempo è compartecipe del tempo, nel senso che ha mete, progetti, scopi. Lo scopo dell’uomo per Zarathustra è il super-uomo. Questo significa che l’inquietudine che attanaglia l’uomo nel pensare l’eterno ritorno, sta nel fatto che tutto ciò che egli supera, eternamente dovrà ritornare. Il destino dell’uomo, se visto in questa prospettiva, si presenta come il mito di Sisifo, che eternamente dovrà ripetere la salita con il suo macigno. Noi abbiamo già accennato ad una possibile soluzione del rapporto tra l’esistenza e il pensiero dell’eterno ritorno, parlando della differenza come risultato della volontà di potenza, e che nell’eterno ritorno viene eternamente ripetuto. Eppure nello Zarathustra questo sentimento di inquietudine permane, e permane anche l’ambiguità dei concetti connessi con l’eterno ritorno. Quando noi infatti pensiamo al concetto di ripetizione, partiamo dal presupposto che vi sia un evento originario che poi viene ripetuto. Solo che se il passato è un tempo eterno, l’evento non ha mai avuto origine, e quindi l’idea stessa di ripetizione non ha un “senso”, non vi è cioè un punto “fisso” a partire dal quale la sua ripetizione ha un “senso”. Nell’infinità del tempo l’origine di un evento non ha più significato e con esso anche la sua eterna ripetizione. D’altra parte, per Nietzsche tutto ciò che può accadere è finito, e il grande anno cosmico non è altro che la somma finita di tutti gli avvenimenti. Questo implica che una serie finita più stare in un tempo infinito solo come ripetizione, come la sabbia che nella clessidra può scorrere eternamente soltanto se viene eternamente capovolta. Ed infatti sempre nel Il convalescente zarathustra dice: «le anime sono mortali come i corpi. Ma il nodo di cause, nel quale io sono intrecciato, torna di nuovo, – esso mi creerà di nuovo! Io stesso appartengo alle cause dell’eterno ritorno. Io torno di nuovo, con questo sole, con questa terra, con quest’aquila, con questo serpente – non a una nuova vita o a vita migliore e a una vita simile: – io torno eternamente a questa stessa identica vita, nelle cose più grandi e anche nelle più piccole, affinché io insegni di nuovo l’eterno ritorno di tutte le cose»[122]. Qui Zarathustra è esplicito, ciò che eternamente ritorna non è un’approssimazione di quell’evento finito che egli vive con i suoi animali, ma è proprio questa unicità nella sua interezza finita e che noi consideriamo irripetibile, che ritorna eternamente, che eternamente si ripete. Questo pensiero pensa perciò la perpetuazione di ciò che è transitorio. E questo perché l’eternità non sta dietro o davanti al tempo, ma l’eternità stessa è il tempo, che implica pensare il transitorio come costante, l’Unico come ripetuto[123]. Qui sta la paradossalità della dottrina dell’eterno ritorno, per il quale la ripetizione non deve opporsi all’unicità, ma, anzi, la deve perpetuare. L’apice di questo pensiero paradossale noi lo troviamo nel brano Del grande anelito, che rappresenta forse la vetta del pensiero poetante di Nietzsche. In questo brano Zarathustra si trova a colloquiare con la propria anima. Il titolo però parla del grande anelito, bisogna, quindi, capire cosa Nietzsche intende per anelito. Il sentimento dell’anelito è certamente sinonimo di desiderio, noi aneliamo qualcosa perché la desideriamo, ma, a sua volta, noi desideriamo qualcosa perché non ce l’abbiamo. È quindi la mancanza a sprigionare il sentimento dell’anelito. S