Architetti

Francesca Scianna e Andrea Palmieri – Milano

“A quesito stupido risposta stupida: il cubo di plexiglass. 'Inventati qualcosa, fai un disegnino' non è la domanda giusta.” “Non c'è una proposta degli architetti che mi sia piaciuta dall'inizio della pandemia. Sono sconfortato.”

Riapertura18maggio Foto di Angelo Fausto Lo Buglio

Che lavoro fate? F.S. Faccio l'architetto. Può voler dire molte cose, nel mio caso significa che mi occupo di progettazione architettonica e di molti dei servizi tecnici che servono a portare a termine la realizzazione di una costruzione, che si tratti di un nuovo edificio o di una ristrutturazione d'interni. Fra i vari servizi mi occupo anche di sicurezza sui cantieri.

A.P. Idem, tranne alcuni dei servizi tecnici a cui Francesca è abilitata. Lavoro prevalentemente in ambito residenziale e terziario.

Francesca si occupa anche di sicurezza sui cantieri e Andrea no? F. Esatto. Mi sto rendendo conto che spesso mi chiedono di cosa mi occupo e per molti una cosa esclude l'altra e nel nostro campo non è molto vero, anzi, di base dobbiamo essere un po' tuttologi, una certa competenza in molti ambiti anche quelli che non risolvi direttamente devi averla (per esempio il risparmio energetico), se non altro per interagire con gli altri professionisti e non subirli.

Domanda per Andrea: come mai non ti occupi di sicurezza? O meglio: come fai a occuparti della costruzione di un edificio senza occuparti della sicurezza? Chi se ne occupa in quel caso? A. Me ne occupo e spesso assumo le responsabilità che graverebbero sul committente, ma devo essere affiancato da un coordinatore che ha una formazione e una abilitazione specifica, come Francesca. Diciamo che devo sapere anche di sicurezza, ma da un lato non voglio, non mi piace, prendermi quel tipo di responsabilità e di controllo; dall'altro quando vado in cantiere per controllare la qualità dei lavori sarei distratto dall'operaio con scarpe inadeguate o dal ponteggio traballante.

F. Io collaboro con molti colleghi che non lo fanno. È un incarico a parte e spesso in conflitto con la Direzione lavori quindi è anche un bene sia disgiunto per garantire il cliente e arrivare a un equilibrio. La mia esperienza: nel periodo Coronavirus sono diventata da “la palla al piede che devo anche pagare (per il committente) e mi frena e crea problemi (per il direttore dei lavori)” a “la reginetta del ballo”. Tutti volevano risposte soluzioni geniali e la quadratura del cerchio da me. Una popolarità che mi sarei volentieri risparmiata eh, nessuna soddisfazione; però è stato anche un periodo molto stimolante, paradossalmente.

Raccontatemi che impatto ha avuto la pandemia sul vostro lavoro. Partiamo dall'inizio. Siamo a fine febbraio. Che succede? F. A fine febbraio avevo 6 cantieri aperti (con incarichi o solo sicurezza o pacchetto completo); ho iniziato a studiare intensamente, l'obiettivo sembrava essere trovare le migliori soluzioni per non chiudere i cantieri, i committenti e le imprese premevano molto su questo e sul piano della comunicazione ATS non dava indicazioni o protocolli. Qui devo dire una cosa: certo non immediatamente, ma l'ordine professionale ha tentato di colmare un vuoto, hanno iniziato a pubblicare linee guida, indicazioni, link ai vari documenti ufficiali. Parliamo sempre male del nostro ordine ma in questa occasione (e negli ultimi anni) ha fatto molto. I direttori dei lavori erano molto disorientati, normalmente sono loro a avere il rapporto diretto e continuo con i committenti quindi sentono la pressione, mi tempestavano tutti di domande e volevano una sola risposta: teniamo aperto e non avrete responsabilità.

A. A fine febbraio il pericolo del contagio era già sentito e ben presente, lo era dai primi del mese, quando ancora non incombeva. Magari si è trattato di una condizione personale. L'attenzione era alta, le domande pressanti. Se la chiusura è stata ufficializzata l'8 marzo, i cantieri erano già chiusi il venerdì precedente, perché non era possibile corrispondere alle prescrizioni e all'utilizzo dei dispositivi di protezione.

F. Sì è vero ma fra fine febbraio e 8 marzo abbiamo considerato tutte le ipotesi possibili, velocemente, un giorno con l'altro modificavo i protocolli. Ad ogni modo la mancanza di mezzi di protezione ha configurato una situazione senza soluzione e fino all'ultimo ho scritto a tutti che ritenevo necessaria la chiusura.

E quindi la chiusura chi l'ha decisa? Il DPCM nazionale, la regione o è stata una decisione dei singoli committenti? Sto anche pensando che alcuni cantieri sono rimasti aperti, per esempio il ponte a Genova hanno continuato a costruirlo. Come è andata? Hanno operato una distinzione tra cantieri “essenziali” e altri? E su che base? F. Io ho chiuso molto prima che chiudessero a livello istituzionale, almeno 3 settimane prima. I cantieri pubblici e essenziali potevano continuare, io parlo di cantieri privati.

A. I lavori pubblici di carattere eccezionale non dovevano seguire il DPCM.

F. Sì, questa è una cosa importante, l'edilizia è rimasta aperta fino a tardissimo, nonostante gli appelli delle associazioni di categoria.

Appelli a chiudere? F. Sì, ANCE ha scritto diversi appelli per chiedere di chiudere (che voleva dire cassa integrazione e ammortizzatori).

Le varie persone coinvolte come l'hanno presa? F. C'è stato di tutto, dai lavoratori che iniziavano già a disertare i cantieri da fine febbraio a quelli che non ne volevano sapere di smettere, era molto legato alla dimensione d'impresa. Una cosa che ha influito molto è stato il mezzo di trasporto con cui arrivavano: chi arrivava in treno ha iniziato a sentirsi in pericolo.

Ancora sul tema della “sicurezza sul lavoro”: ora che i cantieri riaprono, che succede? A. Al momento della riapertura – la fine del lockdown – le prescrizioni di sicurezza erano le stesse di inizio marzo con alcune indicazioni più stringenti, altre ambigue (temperatura, sanificazioni per dire le più ambigue). C'era anche più consapevolezza. In ogni caso era difficile rispondere alla domanda: se prima avete chiuso perché non riuscivate a rispettare le norme di sicurezza, adesso come pensate di riuscirci? In questi casi invoco la santità di Sua Mascherina.

F. Io invece ho visto un abisso fra prima e dopo. A parte le mascherine tutti quelli che lavorano in cantiere hanno: 1. assimilato comportamenti individuali per più di due mesi, nel fare una formazione a tema covid a maggio nessuno rideva più. 2. c'è un'urgenza economica: se voglio riprendere a lavorare dovrò adattarmi; ho visto carpentieri bresciani diventare bravissimi e scrupolosi a fare la fila, misurare la febbre e compilare scartoffie pur di riprendere. Mi hanno seguita molto bene tutti, devo dire che mi aspettavo molta più reticenza.

A. Divaghiamo? ho letto l'intervista all'ottico toscano e mi ha colpito una delle ultime frasi: “la gente non vuole vedere bene”. Ho ricordato l'ottico da cui son tornato ripetutamente perché insoddisfatto dell'ultimo paio di occhiali, dice che non posso lamentarmi, il difetto è di un ottavo di grado e le lenti vanno solo di quarto in quarto e lui sostiene che – vista l'età – è meglio chiedere all'occhio un po' di sforzo piuttosto che impigrirlo. Non riesco a farmene una ragione. Potrei avere la super-vista, magari i raggi X, ma per lui è meglio di no. Com'è possibile? Ecco, penso che un architetto voglia vedere bene, ne ha bisogno per lavoro, per individuare un errore in un grande disegno, o per cogliere un difetto lassù.

F. Sì, ho fatto gli occhiali e le lenti a contatto nuovi e graduati giusti anche io quest'anno dopo un decennio, non escludo che la mia grande energia del periodo sia molto legata al vederci di nuovo bene! Invece io divago e passo dal “trovare soluzioni” nello specifico quasi paramedico in cui si era trasformato il cantiere a “trovare soluzioni” architettoniche e di città per la ripresa oltre l'emergenza.

Ecco, siate architetti: divagate.

F. dico una cosa provocatoria soprattutto ad Andrea: non è sembrato anche a te che gli architetti si siano subito messi a discutere di queste cose – non ultima la maratona di Architetti per il futuro – con proposte, idee un po' improvvisate quando nei fatti nessuno li ha veramente interpellati? Una task forse di non so quanta gente a livello nazionale e se non mi sbaglio nessun architetto.

A. Sì, e tocchi due questioni: 1) l'evidenza che gli architetti non se li fili nessuno e il loro carattere di non-necessità; 2) nelle idee improvvisate, o il riferirsi all'esperienza storica (vedi Hollein), o i container ever-green (vedi Ratti), non ho trovato nulla di interessante. Chiaramente è presto per farsi un'idea della direzione e dell'entità che prenderà il cambiamento imposto dalla pandemia, ma certo non stiamo dando dimostrazione né di buone capacità intellettuali, né di far parte dell'intellighenzia (se vi è un'intellighenzia).

F. Il tema è sempre il nostro ruolo sociale: dov'è? Perché, se anche gli architetti rinunciassero al loro proverbiale individualismo e lavorassero in squadra come ambisce Architetti per il futuro, non può essere ancora una volta una relazione a senso unico, dall'altra parte qualcuno che ci consideri un interlocutore ci vuole. D'altro canto l'emergenza può costruire un nuovo rapporto con le istituzioni, ma solo su una base di necessità.

architettiperilfuturo_maratona

In questo periodo dopo il lockdown e prima del vaccino, una delle principali questioni è la gestione dello spazio. Visto dall'esterno, il ripensamento degli spazi è una questione prettamente da architetti. Come li vedete questi tentativi di risistemare le strade, le spiagge, i ristoranti?

A. Ripensare gli spazi è una figata. Ripensarli in tempo di pandemia, no, purtroppo. Ma bisogna ripensarli, se non per la pandemia per il cambiamento climatico. Il mestiere dell'architetto è di guardare le cose attraverso il progetto. Ahimè “progetto” è la parola meno compresa dal committente e quella per cui, di conseguenza, è meno disposto a spendere. I tentativi di riorganizzazione a cui stiamo assistendo sono, appunto, tentativi e la frase che uso più spesso ultimamente è: brancoliamo nel buio. I committenti soffrono – come tutti – il bias di non vedere, non subito almeno, le cose che non gli piacciono o non convengono. Faccio un esempio: mio cugino si sta occupando di un cantiere di uffici che ospita qualche centinaio di persone nel centro di una grande città. L'azienda committente: – prima ha sofferto lo stop, giungendo tardiva ma ragionevolmente a comprenderne le ragioni; – durante, fremeva per il riavvio dei lavori; – al momento del riavvio ha cominciato a piangere miseria perché la crisi, e una trattativa durissima per la gestione dei costi della sicurezza, quindi il cantiere è stato riaperto; – una settimana dopo il committente va in crisi esistenziale e dice Possiamo fermare tutto? Da un mesetto circa mio cugino stava mettendo sul tavolo questioni sulla riconsiderazione degli spazi, tanto stava disoccupato e poteva pensarci. Eggià, forse è meglio pensarci bene. Il committente avrà visto in TV quel servizio con l'arredatore famosetto che parla dell'ufficio di domani come EXPERIENCE CENTER, ove fare BRANDING and POSITIONING. Perché come faranno i suoi dipendenti? Sono in gran parte pendolari e devono prendere i mezzi pubblici. E cosa se ne fa di quel contratto di affitto appena rinnovato per millemila metri con una persona ogni stanza?

F. Ecco questo è molto interessante.

Okay, non vi considerano dall'alto. Ma dal basso? Ristoratori, balneatori, etc, vi stanno interpellando? È quello dell'architetto un mestiere per il quale è in atto (o almeno in vista) una crescita della domanda?

F. Qualcuno sì ma alla fine, facendo l'esempio delle spiagge, la soluzione migliore non è forse quella dei paletti e delle corde che si è vista in questi giorni in Francia? C'è bisogno di più per queste cose?

spiagge francesi

In quei due o tre giorni di follia in cui hanno iniziato a proporre il plexiglass come soluzione universale a tutti i problemi dell'umanità io stavo inorridendo.

F. Forse perché sono costretta a leggere e interpretare tanto le regole, alla fine se traduci in qualcosa di fattibile e non complicato la gente le seguirà; più è articolato il protocollo meno avrà successo e in più ti sei preso la responsabilità di quello che hai scritto/ideato. Ovviamente è un estremo per dire che talvolta il buon senso... che non esclude 1000 idee architettoniche geniali per gli uffici.

Ma a parte questo, a me sembravano proprio delle idee demenziali. Ma chi mai potrebbe voler andare al mare in un cubo di plexiglass?

F. Si vede che non hai mai seguito un corso di composizione in una qualunque scuola di architettura in Europa (tranne appunto in Italia, forse). Progettare è un processo che interpreta molti elementi. Fare “1 2 3 via!” è impossibile, sarà sempre una risposta aneddotica come appunto il cubo di plexiglass.

A. Non c'è una proposta degli architetti che mi sia piaciuta dall'inizio della pandemia. Sono sconfortato. Durante il confinamento oltre che laurearmi in virologia ho cercato quello che dicevano gli architetti e trovato sconfortante l'assenza di contenuti, pochi e triti, a cominciare dall'ospedale-container.

Questo articolo che hai linkato l'ho trovato una lagna pazzesca.

F. Da un lato gli intellettuali con i loro esercizi di progettazione fine a sé stessi, dall'altra il desolante parterre di piccoli professionisti che tentava di vendere la consulenza online, devo dire che non ne siamo usciti bene. Adesso però mi sembra di vedere una reazione più trasversale in cui si fa appello a varie professionalità, anche quelle che sembrano scomparse come l'urbanista.

Butto lì un altro tema sul pensare il futuro: secondo voi si assisterà a uno spostamento, almeno parziale, dalla città alla campagna? Da un certo punto di vista la campagna sembra un luogo più sicuro. Però poi se lavoro, studio, ospedali continuano a rimanere accentrati nelle città come si fa? Andare al lavoro in treno, come diceva Francesca prima, mi sembra più pericoloso che andare al lavoro a piedi o in bici.

F. È il tema che stavo toccando: più che gli architetti costruttori ora dovrebbero essere gli urbanisti i protagonisti, per questioni di sostenibilità, perché ripensare il lavoro significa ripensare a vivere anche la stessa città (senza pensare necessariamente alle campagne) come luogo diffuso di lavoro.

A. No dai, l'urbanistica non esiste. Non parliamone. Già facciamo fatica a dimostrare l'esistenza dell'architettura.

F. URBANISTI E SOCIOLOGI IN CHIAVE NEOMARXISTA (rido molto, scambio 3 designer per un urbanista). Ovviamente nel “boschetto della mia fantasia”, avevo fatto il corso della professoressa Farè che ripensava l'uso della città scaglionando gli orari di lavoro in funzione di mezzi pubblici, lavoro femminile e dotazioni di quartiere; una cosa attualissima, a ripensarci.

Bello.

F. Anni 90 e si parlava di resilienza dei quartieri periferici.

A. L'ha ritirato fuori anche la sindaca di Parigi, la “ville du quart d’heure”. A me vien da ridere per la disperazione a pensarci.

F. La Farè era una cosa così ma molto più complicata, con orari di ingresso e uscita dagli uffici scaglionati, pensa ora che c'è lo smart working a facilitare la questione (il quart d'heure l'ha adottato anche Sala, ma in italiano fa meno figo).

Ah pensa, la “ville du quart d'heure” l'avevo teorizzata anche io, senza nemmeno saperlo. Io però pensavo alla mezz'ora, arrivo anche ai tre quarti d'ora (in pratica si ricollega alla mia fissa per la Provincia come dimensione ideale dell'aggregazione pubblica).

F. Considera che Milano è una città che attraversi in mezz'ora e raggiungi anche comuni dell'hinterland da parte a parte in quei tempi, il “policentrismo urbano” che la caratterizza coinvolge anche terrori più lontani ma organici. Il punto è che prima si pensava “Che bello guarda quanta gente gravita su Milano”, ora “Aiuto guarda quanta gente gravita su Milano”.

A. Mo' fa pure l'urbanista.

F. Mi fa sentire giovane alle feste di nerd che frequentavo io in cui non si ballava e si parlava di massimi sistemi :D

Però questo gravitare su Milano non è la “città del quarto d'ora”, ma il suo contrario, o capisco male? L'ideale sarebbero delle città senza più un centro, ma con tanti centri, con tutti i servizi essenziali che puoi raggiungere nel giro di poco, no? Ogni quartiere una città in miniatura.

A. Se devo stare in una città ridotta torno a Rimini. Voglio la metropoli. Stare sul divano e pensare che fuori brulica la metropoli. Questo voglio.

F. Secondo me però Leo intende dire quartieri vivibili e non più dormitori.

Sì, esatto.

A. Sì, è così, per quello dicevo che mi vien dal ridere dalla disperazione. E il tornare in provincia sarebbe la resa.

F. Io sono quella che deve vivere in città PER FORZA, poi ne uso un millesimo ma in provincia soffocherei; non è snobismo, mi prendo anche il brutto, per stare in città vivo sulla circonvallazione dei viali delle regioni vista “berlino est anni 80”.

Quartieri in cui hai “tutto”: la scuola, la sanità, il cibo, il cinema, etc, per molti anche il lavoro. Una città non più “1 centro e il resto periferia” ma tanti centri all'incirca di pari dignità tra loro. Forse sto delirando.

F. Diciamo che è un modello già visto la cui realizzazione però finora è stata abbastanza squallida. Senza pensare a città satelliti, i nostri stessi quartieri (che non sono centrali) avrebbero mille possibilità di miglioramento e avrebbero più dignità. Tornando all'ufficione che rischia di rimanere vuoto, se l'azienda pensasse a una rotazione periodica del personale e all'utilizzo di alcuni spazi con uso diverso dall'open space o uffici tradizionali quello sarebbe un bel tema di progetto. Ma non è l'architetto che deve inventare un nuovo uso, quello è l'imprenditore; l'architetto deve materializzare quell'idea di azienda. Quindi secondo me prima deve esserci un'idea politica e la capacità istituzionale di portarla avanti; a quel punto i professionisti trovano le soluzioni, così come nel privato la trasformazione, l'idea, il tema parte dall'imprenditore, dal committente. Gli architetti più di altri dipendono dal committente non solo economicamente, per fare un progetto ci deve essere un incarico con delle idee chiare di base, una direzione. Per questo motivo a quesito stupido risposta stupida: il cubo di plexiglass. “Inventati qualcosa, fai un disegnino” non è la domanda giusta.

Ma forse “realizzazione squallida” è perché i vari centri non hanno davvero pari dignità, proprio a partire dalla grande architettura. Se da un lato (parlo dei posti miei) hai Strada Nuova e dall'altro la Diga di Begato, hai voglia a riempire la seconda di servizi (cosa che comunque non hanno fatto, per non sbagliarsi), non arriverà mai ad avere la dignità di un centro storico.

A. Ti faccio io una domanda: quale città contemporanea, esistente, pensi somigli di più alla città futura che immagini si realizzerà? Intendo il modello che pensi sia la più naturale evoluzione dell'umanità. Puoi dire anche la città di Blade Runner o Salem o la città di “Player one”].

Una città non so, ci penso. Però non so se hai visto il progetto di Boeri per il quartiere sotto al nuovo ponte? Ecco, quello sulla carta si avvicina molto al mio ideale: una fetta enorme di Genova (ci vive circa ¼ della popolazione), che fino ad oggi è stata periferia pura, potrebbe trasformarsi in una delle zone più vivibili della città. Potrebbe diventare essa stessa una zona in cui gli altri genovesi vanno, e non più solo un posto da dove spostarsi per andare altrove quando c'è da fare qualcosa di interessante.

Boeri_Polcevera

Ah, però no, ho capito male la domanda. Ho risposto a cosa vorrei, non a cosa penso che si realizzerà.

A. Scusami. Per altro è meglio pensare a cosa vorremmo.

Il modello futuro invece penso che continuerà a essere la megalopoli, a meno che altre pandemie (almeno altre due) di questo livello non ci costringano a cambiamenti radicali. Dico così perché in giro mi sembra di vedere tutto un affannarsi a ritornare il più possibile alla stessa identica vita di prima, cambiando il minimissimo indispensabile.

F. Il cambiamento può arrivare ora solo da una cosa: dalla spinta alla sostenibilità ambientale. Ma solo perché ora è cavalcato dalla finanza quindi qualcosa in quel senso si farà. Quanto organico? Sono pessimista.

A. Riconosco che Boeri è capace immaginare nuove forme (vedi il Bosco verticale) e sfidare la consuetudine.

F. Sì piace anche a me. Deve molto a certi progetti spagnoli inizio 2000, non nega la viabilità primaria, la esalta e la integra e c'è il disegno del verde molto forte.

Riprendo con le domande. Milano in questi anni è in grande spolvero, dal punto di vista della grande architettura (grande anche in termini di volumi, intendo). Questo si riflette anche sul lavoro degli architetti “normali”? Sia per quanto riguarda quantità di lavoro che vi viene commissionato, sia per quanto riguarda il vostro status? Essere un architetto di Milano fa figo? F. Aspetta che mi riprendo, sono caduta dalla sedia dal ridere.

A. Sembra quando la città si preparava all'Expo. Mi facevano la stessa domanda.

Quindi è no? F. Dunque, da un lato sì perché in qualche modo partecipo, sono stata continuativamente consulente anche se in modo laterale in molti dei grandi cantieri ed è un modo per sentirsi parte di queste fabbriche (City life, Garibaldi, la Stazione centrale, prima il Teatro alla Scala, adesso il Campus Bocconi). Sul piano degli incarichi le briciole a cascata dell'impulso economico arrivano.

A. Ci sono la Milano che casca a pezzi, letteralmente, costruita (male) durante il boom, e quella dei grattacieli e delle multinazionali.

Beh ma la milano che casca a pezzi mica è colpa vostra e anzi sarà un'ulteriore occasione di lavoro, no? F. Poi Milano è una città che investe a livello privato sulla sua immagine, quando è uscito il bonus facciate a noi sono arrivati diversi lavori a cavallo fra la ristrutturazione e il restauro (che dovrebbero ripartire con l'anno prossimo). E quella è una conseguenza del boom Milano turistica. Poi non ti senti mai figo perché arrivi in cantiere con la bici scassata e il titolare dell'impresa con una macchina da 40.000 euro, ma quella è la liberalizzazione delle tariffe e il fatto che siamo 350.000 fra architetti ingegneri e geometri in Italia sullo stesso pezzo di pane, la concorrenza ammazza.

A. La risposta è che Milano è una città che dà lavoro agli architetti, come in provincia non capita, e infatti ce ne sono tantissimi. Ma la metropoli da copertina dei grattacieli dà lavoro a grandi società molto strutturate, che forse prevarranno ancor più dopo la pandemia. Io e Francesca siamo artigiani. Se dovessi dire con due analogie qual è il mio lavoro: quando sono fiero ti direi che sono un geriatra degli edifici; quando sono giù il calzolaio; con tutto il rispetto per i molti amici calzolai.

F. Ecco, Andrea l'ha detto bene. Comunque a Milano di studi anche medi senza essere grosse società ce ne sono eh.

Ditemi un aspetto del vostro lavoro che le persone conoscono poco, che desta sorpresa quando lo raccontate. F. Essendo una donna pensano mi occupi di arredamento d'interni, quando dico che la mattina salgo sui ponteggi o sono consulente nei grandi cantieri spesso sono sorpresi.

A. Il PROGETTO! Una volta sono uscito con una tizia che mi piaceva molto, chiede che lavoro faccio, che bello, fai l'architetto che mestiere creativo, mica come me che sono impiegata in una redazione. Le faccio notare che nel mio mestiere la parte creativa però è il 5% di tutto. Non l'ho più vista. A parte questo: le persone ristrutturano gli appartamenti e pensano: Faccio da solo, cosa mi serve l'architetto? Mi ha chiamato una tizia disperata col cantiere del suo appartamentino a metà, dice che non ha tempo per star dietro a: muratore, cugino elettricista, zio idraulico, pittore, piastrellista, parquettista, resinatore, falegname, fabbro, fornitore della cucina, condizionatorista (lo chiamo così), vicini rompicoglioni e l'amministratore condominiale.

F. Hai scordato il serramentista.

Qual è, attualmente, IL progetto milanese del prossimo futuro? (che so, un nuovo quartiere fichissimo, l'alberizzazione a tappeto della città, basta pavé W le ciclabili...). F. spero tanto sia Porta Vittoria visto che ci abito anche vicino con un grande rimpianto per la BEIC ( la mega biblioteca che ci doveva essere ma per la quale non ci sono mai stati davvero i fondi). Comunque sarà, spero, un parco sportivo enorme, ma prima di ogni cosa gli scali ferroviari (che non si fermano, sarà la nuova grande tappa per Milano).

A. Il recupero degli scali ferroviari è un'opportunità enorme.

Domanda non ai due architetti ma ai due milanesi: questa fase 2 come sta andando? State andando a fare gli aperitivi sui navigli? La guerra è finita? F. Aperitivi manco un po'.

A. Sono le 18h30 di una soleggiata domenica pomeriggio. Ti pare avrei accettato l'intervista in questo momento se avessi una vita sociale? Sono tra i pessimisti che guardano i dati per vedere se (o quando) la curva si rialza. Alle uscite consentite dal lockdown ho aggiunto solo delle lunghe passeggiate solitarie. Che mestizia.

Perché non cova un sentimento di rivolta contro gli amministratori della regione? A. Siamo sgomenti.

F. Incredibile, davvero non sappiamo più cosa dire. Se fosse per me andrei a manifestare subito, non esiste parola per descrivere la mia indignazione.

Ciò nonostante, ditemi una cosa buffa o curiosa che vi è successa in questi tre mesi. A. Non ho fatto nemmeno il pane.

F. Ieri era il compleanno di un caro amico, non potendo fare una festa ed essendo un appassionato di bicicletta sua moglie (che è medico) ha organizzato un evento senza contagi possibili. Ha chiamato tutti gli amici e ha organizzato un itinerario, ha fatto tutta Milano a tappe, a ogni tappa con un indovinello l'amico inforcava la bici e lo portava alla prossima, hanno iniziato alle 8 del mattino, ha pedalato 60 km anche sotto l'acqua, noi abbiamo fatto da casa fino a Cadorna; è stato insolito e bellissimo. Rivederci così è stato commovente e sicuramente sarà un ricordo speciale.

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[Preludio. Prima dell'intervista] A. Domanda mia per Francesca: cosa inquieta di più i tuoi pensieri? a) l'attuale pandemia; b) il cambiamento climatico; c) la sovrappopolazione globale; d) la condizione femminile in un ambito professionale bigotto e maschilista; e) il necessario cazziare un figlio adolescente mentre ti senti in colpa per il mondo che gli stiamo lasciando.

F. f) il futuro più immediato.

HansHollein

A. Domani parliamo anche di uffici e chiederò a Francesca se lei pensa che l'ufficio di domani sarà come quello sopra di Hans Hollein del 1969, oppure degli experience center. Spero saremo radicalissimi. Mi basterebbe anche radicali liberissimi.

F. Forse avrò Judo...

Ora screenshotto tutto e lo posto nella chat degli ingegneri, come prova definitiva del fatto che avevamo ragione.


#intervistepandemiche #edilizia #Lombardia

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