Ho un problema con l'esistenza. Oppure ce l'ha lei con me, perché finora me l'ha fatte ricacare sempre tutte. Gli sto sui coglioni all'esistenza, e la cosa è reciproca. Io manco la volevo, l'esistenza. Me l'hanno affibbiata senza chiedermi se fossi d'accordo, non mi hanno nemmeno fatto scegliere il come, il quando, il DOVE soprattutto. Ce l'ho tutte: bruttezza (il mio tormento), famiglia difficile, infanzia di merda, solitudine, gente che mi bullizzava, autostima e fiducia in me mai viste nemmeno in cartolina, insofferenza verso gli esseri umani, antipatia, grettezza, piccolezza...

La vita è sofferenza, la mia è troppo difficile per me. Tiro avanti per inerzia, sopportando (?) e incassando, facendomi il sangue amaro per tutto e con la consapevolezza di non essere adatt* all'esistenza. “Ero inetto a tutto” (cit.)

Mi sento inferiore, costantemente fuori luogo. Non c'è un campo in cui mi senta un minimo a mio agio. Costantemente in tensione e incapace di rilassamento, riesco a stare male anche quando dormo.

Non mi diverto. Mai. Che vuol dire divertirsi? Come si fa? Ho imparato nella prima infanzia, forse non intenzionalmente, che divertirsi distraeva (e infatti etimologicamente dovrebbe essere quello) dal costante stato di allerta in cui, per sopravvivere, dovevo trovarmi costantemente. Secondo voi, un cucciolo che si trovi abbandonato dai genitori, e quindi senza difese, che deve fare per sopravvivere? Deve stare sul chi vive, nascondersi il più possibile, cercare di non farsi mangiare. Non ha gli strumenti e non ha l'affettività. È un peso per gli altri. O si sente tale. I danni sono grandi, anche se tendenzialmente ci se ne sbatte i coglioni perché c'è la speranza che il bambino, un bel giorno, si svegli e per illuminazione divina si guarisca da sé. Ah, che bello sarebbe!