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“è”’essere e?´??? “è” senzaperché l’evento l’event’essere nel nulla dell’evento eventux dell’evento’eventux. L’evento senzaperché l’esserne nihilx. Il nihilx “è evento” è esserne È L’eventol’essenza del nichilismo: essa non sta nella testimonianza dell’estrema contrapposizione dell’ente e del niente, ma nel non tenersi fermo ad essa, dissolvendo tale contrapposizione nel proprio inconscio[15]. La contrapposizione autentica dell’ente e del niente è possibile solo se l’ente viene considerato come una totalità, e, a sua volta, tale totalità appare solo se in tale apparire non vi è nulla al di fuori di essa, solo se tutto l’ente è eternamente separato dal niente. Solo quando il niente è inteso come contrapposizione ad una “certa parte” dell’ente, e non come nulla assoluto, il nulla si pone come un t?, appartenendo esso stesso alla totalità dell’ente. Ponendo la possibilità di un niente relativo che non è l’opposto dell’ente, ma l’altro dell’ente, anch’esso quindi un ente, Platone fonda i presupposti del pensiero nichilistico. Infatti, da Plotino ad Heidegger l’Occidente userà il concetto di nulla relativo per individuare la differenza tra essere ed ente: l’essere è il nulla, perché è l’altro dell’ente. NIHIL POiESIx SENTIERO Nihilpoíesis POESIAdell’essere nihildell’essere col nulla. Il pensiero occidentale, prima che raggiunga la sua piena trasparenza nel pensiero di Leopardi, non affermerà mai direttamente l’identificazione dell’essere con il suo opposto, eppure questa identificazione scorre sotterraneamente lungo tutta la storia dell’Occidente. Concetti quali divenire, nichilismo, tecnica, poíesis, volontà di potenza, hýbris, arte, poesia, sono l’inconscia espressione di questa folle identità. La storia dell’Occidente è la storia dell’inoltrarsi del pensiero lungo il sentiero della notte, indicato per la prima volta da Parmenide, e che egli stesso mostrava come impossibile ed impraticabile. Eppure, è proprio questo sentiero della notte l’unico sentiero che l’Occidente ha percorso. Il culmine di questo sentiero è la nostra epoca, quella che vede nella tecnica la nuova matrice dell’esistenza dell’uomo. Se in tutta la storia dell’Occidente il divenire annientante delle cose è stato sempre contrapposto all’epistéme dell’essere eterno e trascendente, che come tale sta al di là del divenire, con il compimento della storia dell’Occidente, l’eterno deve inesorabilmente tramontare, in quanto rende impossibile l’evidenza del divenire nichilistico, quell’evidenza che è già presente quando l’Occidente fonda l’epistéme dell’eterno, ma, appunto, in lotta con quest’ultimo. La storia dell’Occidente è dunque la storia della dialettica tra l’eterno e il divenire, dialettica che, però, deve tramontare, perché il divenire sia l’unica verità. La tecnica compie questo tramonto, perché aderisce completamente alla tendenza annientante del divenire nichilistico, è esso stesso divenire. La sua struttura è ipotetica in quanto tale, ed è solo per questa sua capacità di non radicarsi su un fondamento stabile, che permette alla tecnica di dominare tutto l’essente. Sciolto da qualsiasi legame la tecnica diventa la struttura che più si può adattare ai continui mutamenti del divenire, di quel divenire che per tutta la storia dell’Occidente rimane l’evidenza assoluta della realtà. Ma perché la tecnica diventi l’espressione più coerente del divenire, gli immutabili della metafisica debbono tramontare, Dio stesso deve morire. Questa continua ed inesorabile purificazione del divenire dall’eterno trascendente la troviamo compiutamente espressa nella storia del concetto della poíesis, quale fondamento stesso dell’arte. La poíesis indica il produrre in quanto tale, il portare fuori qualcosa nell’apparire. All’inizio della storia dell’Occidente la poíesis è possibile solo perché si fonda su un sapere mimetico, che ha il suo fondamento nella verità immutabile dell’essere, come le idee platoniche. Lungo la storia dell’Occidente la poíesis ha dunque un referente ultimo che è la verità immutabile, ma questa verità deve al termine di questo sentiero tramontare. Ma con questo tramonto la poíesis, perdendo il suo referente ultimo, deve aderire esclusivamente al divenire nichilistico, diventare essa stessa divenire nichilistico “senza perché” e senza una meta ultima. Ed è solo per questa sua completa aderenza al divenire nichilistico che si è reso possibile qualcosa come l’arte contemporanea, che appunto ha sgretolato i principi millenari dell’arte. L’hegeliana «morte dell’arte» può essere intesa come lo scioglimento del produrre artistico dal referente eterno ed immutabile su cui tale produrre si era sempre fondato. La grandezza dell’arte sta nella sua capacità di cogliere la tendenza fondamentale delle epoche e di mostrarla nella sua opera. Al di là di qualsiasi riduzione dell’arte a qualcosa di meramente ludico e frivolo, essa è uno degli occhi privilegianti dove l’essenziale viene colto e mostrato. In particolare, Severino mostra come l’opera poetica di Eschilo e Leopardi non si riduce ad opera prettamente letteraria, ma in essa si esprime la profondità di tutto il pensiero occidentale, dal suo inizio fino al suo compimento. L’opera di Eschilo e Leopardi è opera eminentemente pensante, il suo essere poetante è un tutt’uno col suo essere pensante. L’intento dell’interpretazione di Severino è quella di far emergere dall’opera poetica di questi due autori la profondità filosofica del loro pensiero. Ebbene, questa interpretazione mostra che il pensiero-poetante di Eschilo e Leopardi stanno rispettivamente all’inizio e al termine di tutta la storia del pensiero nichilista dell’Occidente. Ma non nel senso che ne sono i “cantori”. Nella loro opera pensante cioè non è semplicemente mostrato quello che è già “semplicemente presente”, e che viene ridetto nel linguaggio della poesia, bensì la loro opera anticipa ciò che sarà la storia dell’Occidente, guardano e mostrano sino in fondo il sentiero della notte che l’Occidente è destinato a percorrere fino al suo compimento. Anticipando il senso di questo sentiero che l’Occidente è destinato a percorrere, essi in un certo qual modo fondano il senso di questo percorso. In particolare: da una parte, Eschilo mostra il senso che l’epistéme ha per tutta la storia dell’Occidente; dall’altra, Leopardi mostra che la stessa epistéme è destinata a tramontare, anticipando il significato essenziale della tecnica della nostra epoca. Eschilo per primo mostra il senso dell’epistéme, perché coglie il rapporto essenziale che lega originariamente il senso dell’eterno con il senso del divenire. Quindi, Eschilo mostra il significato essenziale che l’epistéme e il divenire avranno per tutto l’Occidente. A partire dal pensiero greco il divenire è inteso come annientamento, distruzione non reversibile dell’essente, ma anche la stessa provenienza dell’essente viene pensata come nulla, come novità assoluta. Partendo da questa evidenza, Eschilo per primo pensa l’ epistéme come “rimedio” contro la “malattia” annientante del divenire. Con Eschilo sorge la dialettica tra divenire ed eterno, intesa nella sua essenza come dialettica tra malattia e rimedio. Infatti, nell’opera di Eschilo l’evidenza dell’annientamento dell’essente nella sua unicità viene contrapposta al sapere epistemico del principio del Tutto (Zeus) che è «sempre salvo», e che solo può liberare il mortale dal dolore dell’annientamento. Questa liberazione, però, non significa il toglimento del senso nichilistico del divenire, che rimane l’evidenza suprema dell’Occidente, ma significa che solo sapendo che l’essenza di ogni cosa è «sempre salva» nel principio del Tutto, il mortale può liberarsi con verità dal dolore. Sapendo che la propria essenza è sempre salva nel principio del Tutto, il mortale può scacciare con verità il dolore del divenire, ma l’essenza sempre salva non è per Eschilo l’interezza dell’uomo, bensì solo quella parte che appunto appartiene al principio del Tutto: quell’essenza che l’Occidente chiamerà con la parola “anima”. Ma al di là di quest’essenza Eschilo sa che tutte le cose sono destinate ad essere annientate. Sa che il principio del Tutto non può salvare il mortale nella sua interezza dall’annientamento del divenire, ma solo quella parte che proviene e ritorna nel principio eterno del Tutto. Ma se Eschilo inaugura la dialettica tra malattia e rimedio, Leopardi fa un passo ulteriore, mostrando il carattere illusorio dell’epistéme, mostrando in sostanza che anche l’essenza di ogni cosa è destinata ad essere annientata. Con Leopardi il divenire annientante diventa l’unica verità eterna dell’essente nella sua totalità. Ogni cosa proviene e ritorna nel nulla. Nessun principio regola il divenire dell’essente. Con Leopardi l’Occidente raggiunge il suo compimento, che si mostra come il tramonto degli immutabili della metafisica e della corrispondente dialettica tra l’eterno e il divenire nichilistico, il quale permane come unica verità dell’essente nella sua totalità. La tecnica che nel pensiero di Eschilo è più debole della Necessità del Tutto, con il compimento della storia dell’Occidente, diventa la struttura più potente, in quanto l’unica che riesce ad essere veramente coerente con il divenire nichilistico. Leopardi, cogliendo l’essenza nichilistica di tutto l’essente, diventa, oltre al primo vero nichilista dell’Occidente, ancor prima del pensiero di Nietzsche, anche il primo pensatore della tecnica odierna. Con Leopardi l’unico rimedio che può contrapporsi al nulla non può essere più la verità eterna del Tutto, ma l’illusione della poesia: il profumo della ginestra. Le illusioni della poesia, dell’opera del genio, non appartengono alla struttura immutabile della verità epistemica, esse sono equiparabili al profumo certamente vivificante della ginestra, che si diffonde sul deserto del divenire annientante, ma allo stesso modo appartengono al deserto, alla mortalità di tutte le cose. Nella dimensione piena del nichilismo non vi è più salvezza, ogni cosa è destinata inesorabilmente ad essere annientata. Ma quando il pensiero Occidentale con Leopardi raggiunge la sua più piena trasparenza, nel senso appunto che per la prima volta viene affermato ciò che l’Occidente custodisce nel proprio inconscio, ossia l’essere nulla da parte dell’essente, si mostra la follia di questo pensiero, quello appunto che sta nell’identificare gli assolutamente opposti: l’essere e il nulla. Se però questa identità tra l’essere e il nulla, che lungo tutta la storia del pensiero occidentale rimane il fondamento mai mostrato pienamente prima di Leopardi, d’altra parte, l’Occidente e con esso lo stesso Leopardi non coglie la follia insita in questa identità e nel conseguente divenire nichilistico. Nel senso che la follia dell’Occidente non viene pensata come follia, ma come la verità evidente dell’essente diveniente. Ma una volta colta pienamente la follia del pensiero occidentale che si è inoltrato già dalla sua origine lungo il sentiero della notte, è possibile ritornare al bivio indicato da Parmenide e inoltrarsi lungo il sentiero del giorno, il sentiero che dice che l’essere è e non è il non essere? Per Severino questo sentiero è l’unico che in verità può essere percorso, in quanto, appunto, il sentiero della notte è il sentiero della follia, di ciò che non può essere in alcun modo, il sentiero in cui il nulla può essere predicato solo del nulla. Questo significa che il sentiero della notte è in verità l’errata interpretazione del sentiero del giorno: questa interpretazione è lo stesso Occidente. Se, dunque, l’unico sentiero che da sempre l’uomo necessariamente percorre è quello del giorno, allora al di sotto dell’inconscio dell’Occidente, si scorge la verità eterna dell’essere: l’inconscio di questo inconscio. Nel sentiero del giorno indicato da Parmenide l’essere è eternamente identico a se stesso, solo perché si oppone eternamente al nulla. Ma, il punto essenziale del pensiero di Severino che va oltre Parmenide, è che l’essere eternamente se stesso non è l’essere svuotato della molteplicità diveniente, ma è la totalità dell’essere: tutte le positività che come tali si oppongono al nulla. Dunque, l’essere eterno ed eternamente se stesso è la totalità dell’essente, dall’infimo granello di sabbia alla volta celeste, tutto è eterno, ed eternamente identico a se stesso: questo è per Severino l’autentico contenuto dell’epistéme. Se questo è il punto di partenza del pensiero dell’essere di Severino, l’ultima sezione di questo lavoro propone in via del tutto “ipotetica” una possibile interpretazione dell’arte mediante il pensiero dell’essere eterno di Severino. È questo un tentativo, in quanto Severino non ha esposto nel suo pensiero quale significato l’opera d’arte debba avere nel sentiero del giorno, in cui la totalità dell’essere è eternamente se stessa. I. IL SENTIERO DELLA NOTTE 1.1 Nichilismo come pensiero dominante dell’Occidente: il sentiero della notte. ??´st? ?a`? e?~?a?, µ?de`? d’???? e?´st?? (Parmenide fr. 6, vv. 1-2): l’essere infatti è, mentre il nulla non è. Per Severino[1] tutta la storia della filosofia occidentale può essere interpretata come l’alterazione e la conseguente dimenticanza del senso dell’essere, intravista inizialmente dal più antico pensiero greco[2]. Le parole che indicano originariamente l’annuncio della verità dell’essere sono i primi due versi del frammento 6 del poema di Parmenide «e?´st? ?a`? e?~?a?, µ?de`? d’???? e?´st??». Eppure sono proprio queste parole ad essere state dimenticate, portando alla struttura odierna dell’Occidente. Le parole di Parmenide non indicano una proprietà dell’essere, ma mostrano il senso dell’essere: «l’essere è appunto ciò che si oppone al nulla, è appunto questo opporsi»[3]. Proprio nell’opposizione tra il positivo e il negativo sta il grande tema della metafisica. Eppure dopo Parmenide (ma dovremmo dire già con lui) l’opposizione tra l’essere e il nulla resta nell’ambiguità. Resta nell’ambiguità, perché con il progressivo sviluppo della tesi dell’essere grazie a Platone ed Aristotele: l’essere si oppone al nulla sin tanto che esso è[4]. Con queste ultime parole l’ambiguità è già divenuta fatale e con ciò il senso dell’essere è tramontato. In sostanza, con questa caratterizzazione temporale - sin tanto che esso è – si ha il tramonto della verità dell’essere, ossia della sua necessità (a-temporale): l’essere è certamente, ma solo quando è; il nulla non è, ma solo quando non è. Tutto questo lo troviamo esplicitato in modo rigoroso nel Liber de Interpretatione di Aristotele (19a 23-27). La differenza che si manifesta sta tra la necessità che l’essere sia, quando è, e la necessità simpliciter che l’essere sia. Il passaggio dalla seconda necessità alla prima comporta che: «”l’essere che non è” quando non è, non è altro che l’essere fatto identico al nulla, “l’essere che è nulla”, il positivo che è negativo. “L’essere non è” significa precisamente che “l’essere è il nulla”, che “il positivo è il negativo”»[5]. Con questo pensare il tempo in cui l’essere è il nulla significa negare simpliciter la verità dell’essere, che appunto nega che vi sia un tempo in cui l’essere sia il nulla, il positivo sia il negativo. Ma la verità dell’essere, e?´st? ?a`? e?~?a?, l’essere è, dice che l’essere che è non è il nulla, in quel “è” è già incluso il suo non essere il suo opposto, il suo non essere il negativo. Il travisamento del senso dell’essere sta tutto in questo credere che vi sia un tempo in cui il positivo sia il negativo: questa la follia dell’Occidente. L’errore sta nell’acconsentimento che l’essere sia nel tempo: divenga[6]. Dei due sentieri indicati da Parmenide, quello in cui l’essere è ed è impossibile che l’essere sia il non essere (il sentiero del giorno) e quello in cui l’essere è il non essere (il sentiero della notte), ebbene di questi due sentieri l’occidente ha percorso quello della notte, ponendo l’essere nel tempo, in cui a volte è e a volte non è. Se però andiamo più in profondità notiamo che Parmenide è sia il primo ad annunciare la verità intramontabile dell’essere sia il primo responsabile del tramonto dell’essere. Infatti per Parmenide l’essere non è le differenze che si presentano nell’apparire del mondo, le molteplici determinazioni che si manifestano sono soltanto dei nomi, e quindi non sono l’essere: il rosso, la casa, l’albero poiché non significano “essere”, in base alla opposizione tra il positivo e il negativo, queste determinazioni sono “nulla”. L’essere parmenideo per Severino è l’essere trascendente[7], che nega la molteplicità reale, la quale soggetta al divenire è nulla. Successivamente l’elaborazione platonica della differenza tra il non-essere come contrario (e??a?t???) e il non-essere come altro (e?´te???) dall’essere è stata per il pensiero occidentale tanto più fatale quanto essenziale. Perché essa porta le differenze nell’essere, ma continua a lasciarle nel tempo, da cui prende inizio la ricerca di quell’essere che è fuori del tempo: gli immutabili della metafisica. Con Platone le differenze vengono ricondotte nell’essere, perché se le singole determinazioni (rosso, casa, albero ecc.) non significano essere, dall’altra non significano neanche nulla; se quindi non significano nulla, allora di esse si deve predicare l’essere, il quale è un respinger via il nulla. In tal modo l’essere diventa predicato di ciò che gli è diverso (e?´te???), non di ciò che gli è opposto (e??a?t???). Perciò con Platone dire che il “non-essere è” non significa più che il negativo è il positivo. L’essere parmenideo diventa il predicato di tutte le determinazioni[8]. Ma riconducendo le differenze (determinazioni) nell’essere, l’essere viene interpretato come ciò che può, anzi deve, a volte non essere. L’irruzione delle differenze del molteplice nell’area dell’essere porta ad interpretare l’intero del positivo sulla traccia del positivo empirico, in conseguenza dell’idea che l’essere è quando è e non è quando non è, vede l’essere come un oscillare tra la positività e la negatività: il divenire. Sono quindi le determinazioni molteplici che indicano adesso il senso dell’essere. Da ciò segue che dopo Parmenide tutta la metafisica occidentale diventerà una fisica[9]. Il nichilismo è il tratto essenziale della storia dell’Occidente[10]. È certamente un tratto nascosto, nel senso che il pensiero occidentale apertamente non ammette il suo essere nichilistico, ma solo a livello inconscio. Eppure se ci inoltriamo nelle trame del suo pensiero cogliamo tale carattere. Non a caso l’essenza della libertà, di quel concetto così caratterizzante l’Occidente appartiene all’essenza del nichilismo[11]. Ma quando si manifestano i tratti essenziali del nichilismo? Come abbiamo già accennato essi si manifestano nella metafisica greca, e in particolare quando il concetto di cosa si identifica con quello di ente. Il pensiero greco in particolare identifica il t? t? con t?` ??´?; con il primo termine il pensiero greco nomina il qualcosa (aliquid), con il secondo nomina l’ente. La cosa più interessante è che il qualcosa viene identificato con l’ente quando è sia inteso come soggetto della contrapposizione tra l’essere e il niente, diventando l’opposto del niente, sia come ciò che si mantiene legato sia all’essere che al niente. Insomma, da una parte l’ente è pensato come ciò che si oppone al niente, dall’altra come ciò che è insieme non-niente e niente. Mentre nel linguaggio premetafisico tale contrapposizione rimane celata, con la metafisica tale contrapposizione è perfettamente delineata, e diventa lo sfondo dell’Occidente. Nella dimensione mitica infatti tale contrapposizione non è presente, esiste certamente la differenza tra mondo dei vivi e quello dei morti, ma quest’ultimo non è inteso come dimensione del niente, del totale congedo, anzi le cose di tale mondo sono estremamente incombenti e richiedono un’estrema cura. Con la metafisica di Platone si ha l’equiparazione della cosa all’ente, perché si ha la contrapposizione della cosa al niente, al µ?` ??´?: dire che il qualcosa, t? t?, si contrappone al niente, µ?` ??´?, per Platone è lo stesso dell’ente, t?` ??´?, che si contrappone al ni-ente, µ?` ??´?. Se poi verifichiamo cosa è per Platone l’ente troviamo lo stretto rapporto tra ente e cosa: l’ente è “ciò” che non è un niente, il “ciò” è il t?, il qualcosa. Ora, nel pensiero di Platone la cosa è certamente legata all’essere, ossia la cosa “è”, ma tale legame non è eterno, non è quindi necessario. La cosa si trova fra l’essere e il niente, contesa da entrambi. La contesa in greco si dice e?´???, mentre ????e?? è il contendere dei contendenti, il dibattersi del conteso tra i contendenti. Platone può allora dire che la cosa è e?paµf?te???e??, il dibattersi tra l’uno e l’altro, tra l’essere e il niente[12]. Ma la sfera di questo dibattersi per Platone non è oggetto dell’e?p?st?µ?, la quale ha come oggetto l’ente eterno ed immutabile, l’ente che sempre “è” senza alcuna contesa; la dimensione della contesa tra essere e niente appartiene alla d??a, all’opinione, la quale non si basa su una verità ferma e necessaria, ma sulla contingenza, sull’indecisione tra essere e niente, anzi proprio perché l’ente contingente è indeciso, è compagno di entrambi[13]. La sfera dell’opinione è il divenire, in cui l’ente nasce (entra nell’essere) e perisce (ritorna nel nulla). Da ciò si deduce che con l’e?paµf?te???e?? non si apre la sfera dell’ente in quanto ente, ma dell’ente in quanto diveniente[14]. Ma, a sua volta, questo comporta che quando Platone parla dell’ente immutabile, egli non lo intende tale in quanto ente, ma in quanto un certo ente, l’idea; la quale in primo luogo non è un ente sensibile, ossia soggetto al processo del divenire. L’ente in quanto ente non è immutabile per definizione, perché altrimenti ogni ente sarebbe immutabile ed eterno. Il che ci fa dire che l’ente in quanto ente è indeciso tra l’essere e il niente, la sua dimensione è l’e?paµf?te???e??, conteso tra l’uno e l’altro. Se da una parte per Platone la cosa non è un niente, dall’altra può non essere, ossia essere un niente. Grazie a Platone la metafisica si fonda inconsciamente sul nichilismo, su quel pensiero che consciamente nega che la cosa sia niente, ma inconsciamente identifica la cosa col niente. Il carattere inconscio del nichilismo si evidenzia dal fatto che, per Platone, se da una parte una cosa che “è niente” è inconoscibile, si pone comunque che una cosa possa non essere, in sostanza non avverte la necessità che l’impossibilità di conoscere una cosa nientificata sia innanzitutto dovuta all’impossibilità che una cosa (un non-niente) non sia. È proprio nel non cogliere questa necessità che il pensiero occidentale si erige nella sua essenza. L’ente si trova in una dimensione indecisa, tra l’essere e il niente, in un’oscillazione che non ha fine. Non a caso per Platone l’ente è immutabile non in quanto ente, ma in quanto idea; ciò vuol dire che l’ente in quanto ente (non semplicemente l’ente diveniente) è indeciso (e?paµf?te???e??) tra l’essere e il niente. Se però ci chiediamo cosa intenda Platone come anche Aristotele per divenire, constatiamo che esso non è interpretato come passaggio dal puro essere al puro niente, al niente assoluto. Ad esempio, nella costruzione di una casa, l’ente particolare che sarà quella casa così fatta non è ancora, ma i materiali che la compongono erano prima che la casa venisse costruita. Ciò che esce e ritorna nel nulla non è tutto l’ente ma la sua unità, il suo essere un unicum. Questo è certamente in contrasto con il principio della sostanza di Aristotele, per cui è la sostanza, appunto l’unità di ogni ente ad essere immutabile, mentre sono i suoi attributi a mutare. Eppure l’unità della casa, di una casa, prima che venga costruita non è. Se andiamo più in profondità si constata che anche i materiali di un’unità sono a loro volta prodotti o per natura o grazie all’operato dell’uomo, il che ci porta a dire che anche la materia esce e ritorna nel nulla. In sostanza Aristotele, pur ammettendo che ogni cosa è un non-niente, asserisce anche che ogni cosa oscilla tra l’essere e il niente; se quindi ammette che la cosa “è”, è inseparabile dal suo essere, dall’altra uscendo e ritornando nel niente, ciò che in realtà subisce tale processo è il suo essere, il suo non essere un niente: il fondamento inconscio dell’Occidente è quello di identificare il non-niente col niente, il positivo col negativo. È questa la follia che l’Occidente non vede, ma ha sempre perseguito: dire che la cosa è un ente, ossia è legata all’essere e che la cosa come tale esce e torna nel niente, significa dire che l’essere è niente, appunto il positivo è il negativo, che è di per se stesso impossibile, perché identifica gli opposti, ciò che per essenza non possono mai identificarsi. Ecco l’essenza del nichilismo: essa non sta nella testimonianza dell’estrema contrapposizione dell’ente e del niente, ma nel non tenersi fermo ad essa, dissolvendo tale contrapposizione nel proprio inconscio[15]. La contrapposizione autentica dell’ente e del niente è possibile solo se l’ente viene considerato come una totalità, e, a sua volta, tale totalità appare solo se in tale apparire non vi è nulla al di fuori di essa, solo se tutto l’ente è eternamente separato dal niente. Solo quando il niente è inteso come contrapposizione ad una “certa parte” dell’ente, e non come nulla assoluto, il nulla si pone come un t?, appartenendo esso stesso alla totalità dell’ente. Ponendo la possibilità di un niente relativo che non è l’opposto dell’ente, ma l’altro dell’ente, anch’esso quindi un ente, Platone fonda i presupposti del pensiero nichilistico. Infatti, da Plotino ad Heidegger l’Occidente userà il concetto di nulla relativo per individuare la differenza tra essere ed ente: l’essere è il nulla, perché è l’altro dell’ente. Da questi risultati si ottiene che l’ente pensato nel suo essere frapposto tra l’essere e il niente (e?paµf?te???e??) è il presupposto della libertà. In greco libertà si dice e??e??e??a, composto dalla parola ???, che significa sciolgo, libero. La parola libertà originariamente non è semplicemente la libertà del mortale o degli dei, ma la libertà dell’ente in quanto ente, il suo essere sciolto dai legami, il suo essere appunto libero[16]. Ora il concetto di libertà presuppone l’assenza di qualsiasi necessità, che come tale vincola l’ente; in sostanza la libertà presuppone la contingenza dell’ente. Ma proprio l’ e?paµf?te???e?? dell’ente mostra nel modo più netto questo essere liberi da qualsiasi legame: in quanto conteso dall’essere e dal nulla, l’ente è libero da qualsiasi legame: l’ente può essere come anche non essere. Sarebbe interessante evidenziare come questo concetto di libertà quale ciò che si oppone alla necessità, si sia sviluppato in tutti gli ambiti della storia dell’Occidente, pensiamo solo alla sfida del mortale contro i lacci degli dei, alla trasgressione di Adamo al divieto divino. Certamente questa tendenza a liberarsi della dimensione soprasensibile per il mortale è destinata al fallimento. Eppure se pensiamo alla dimensione dell’ente lo scioglimento è possibile, perché, come si è visto, l’ente in quanto ente si fonda sul concetto di libertà (e?paµf?te???e??). «Ci si libera da qualcosa perché la cosa stessa, innanzitutto, è un liberarsi»[17]. Tale libertà è libertà infinita, perché percorre la distanza tra gli estremamente opposti (essere e nulla), liberandosi in modo estremo dall’uno e dall’altro. È con l’instaurarsi di questo frammezzo che inizia la storia dell’Occidente come storia della libertà. In questa dimensione la schiavitù è interpretata come il legame che trattiene l’ente nell’essere o nel niente, ma è un legame provvisorio. La schiavitù trova quindi fondamento nella libertà, poiché è l’indugiare dell’ente in uno dei due estremi della sua libera oscillazione. La libertà così intesa (e?paµf?te???e??) è a fondamento del binomio occidentale di creazione-distruzione. La creazione infatti è la libertà dal niente, mentre la distruzione è la libertà dall’essere. Possiamo con ciò dire che «il demiurgo platonico, la volontà dei mortali, il dio creatore del cristianesimo, la macchina, le rivoluzioni della borghesia e del proletariato, la civiltà della tecnica non aggiungono nulla alla pura essenza della libertà, ma costituiscono i vari modi in cui, nella storia occidentale, la metafisica si è proposta di guidare la libertà dell’ente»[18]. Con la metafisica la persuasione che l’ente in quanto ente sia niente sopraggiunge insieme alla persuasione che l’ente è eterno, in quanto è un certo ente, privilegiato, “divino”. Si può anzi dire che l’eterno è la condizione della libertà del perituro, ma anche il contrario, ossia che la persuasione della nientità dell’ente è il fondamento dell’affermazione dell’eterno. Questo reciproco rispecchiarsi è possibile solo con l’e?paµf?te???e?? dell’ente. Questo significa anche che il pensiero metafisico, restando fermo sul fondamento della nientità dell’ente, scorge il naufragio di ogni affermazione dell’eterno, nel senso che l’affermazione dell’eternità è voluta dal mortale come legame di quel particolare ente all’essere, ma esso naufraga perché si contrappone alla libertà dell’ente in quanto ente dall’essere. Proprio per l’evidenza di tale libertà gli eterni, nella storia dell’Occidente, sono destinati al tramonto: qui l’essenza dell’età della tecnica. Il tramonto dell’eterno sta anche nel fatto che l’ente eterno essendo il senso del tutto, quindi anche degli enti divenienti, quelli cioè che sono niente (in quanto divengono niente), contraddice se stesso. Se cioè l’ente eterno è eternamente legato all’essere non può raccogliere l’ente che è libero di non essere. L’evidenza della libertà dell’ente richiede quindi il tramonto degli eterni. È il senso della cosa che porta alla forma estrema della volontà di potenza. Essa si esprime come volontà di guidare l’oscillazione tra l’essere e il niente, ossia sulla volontà di separare l’ente dal suo “è”, rendendolo disponibile all’essere ed al niente. È questa disponibilità che la volontà vuole. Allo stesso modo il disponibile, l’ente come e?paµf?te???e??, è anche una minaccia per la volontà, perché, progettando di dominarlo, può anche fallire nel suo intento. La volontà vuole che l’ente sia contingente, ma volendo questo implica anche l’insicurezza del suo dominio. La storia della metafisica può essere intesa come il progressivo liberarsi degli immutabili, il suo allontanarsi dalla verità ferma e stabile: l’e?p?st?µ?. È l’evidenza della libertà dell’ente ad esigere la distruzione di ogni sapere incontrovertibile[19]. Questa progressiva emancipazione del divenire dagli immutabili comporta anche che l’evidenza della libertà dell’ente è per la metafisica una forma di sapere incontrovertibile, ossia epistemica. Quindi l’e?p?st?µ? unisce in sé due tratti contrastanti: da una parte pensa l’ente come oscillazione tra l’essere e il nulla, dall’altra vuole determinare in modo incontrovertibile il senso dell’ente, in quanto ente. Ma la seconda forma di e?p?st?µ? rende impossibile la prima forma di e?p?st?µ?, come anche il contrario. Se infatti l’ente è e?paµf?te???