Micro Sovversioni #MicroSovversioni

Un Racconto Per un Monologo Per un Video Monologo di Giorgio Viali

Scritto: 14 luglio 2001

Lunedi' 9 luglio sono andato alla festa di Radio Sherwood a Padova ad ascoltare Toni Negri e Massimo Cacciari. “Dal Fordismo alla Globalizzazione” ricordando Luciano Ferrari Bravo, una discussione sui suoi ultimi scritti. Martedi' 10 sono stato a Trento ad ascoltare Svetlana Broz, che presentava il suo libro (non ancora tradotto in italiano) dal titolo “Uomini giusti in tempi malvagi”. Mercoledi' 11 ho ascoltato Paolo Crepet che parlava del suo ultimo libro: “Non siamo capaci di ascoltarli”, sul difficile dialogo tra generazioni diverse.

Non mi sarei mai aspettato di incontrare Marta a Padova. E' stato piacevole rivederla. All'improvviso. E non aver il tempo di realizzare che era lei. Non aver il tempo di elaborare quello che stava accadendo. Vederla e immediatamente toccarla. E poi ridere. Allegramente. E realizzare che era li'. Davanti a me. Che mi guardava e sorrideva anche lei. “Devi uscire a Padova Ovest e poi seguire le indicazioni per lo Stadio Euganeo” cosi' mi aveva detto, al telefono, una ragazza che lavora a Radio Sherwood. Sono uscito a Padova Ovest e ho seguito le Indicazioni per lo Stadio Euganeo. Ho parcheggiato nell'ampio parcheggio esterno. Ho chiuso la macchina e sono entrato nel recinto che delimitava il Festival. Qualche bancarella. Alcuni stand dove mangiare. Non c'era molta gente. Ma i giornalisti erano gia' al lavoro. Intorno a Massimo Cacciari due giornalisti e un cameramen. E poco piu' in la', sotto un tendone bianco, dove era allestita una mostra di dipinti, Toni Negri. L'ho visto di spalle. Ho intuito che era lui dal fatto che fosse circondato da cameramen e giornalisti. Dai capelli bianchi della nuca e dalla corporatura. Solida e robusta. Mi sono avvicinato. E l'ho visto. Era proprio lui. L'immagine della sua faccia corrispondeva alle tracce e ai punti di riferimento grafici che avevo del suo volto. Braccia conserte. A casa. Parlava. Alle sue spalle un grande dipinto. Non ricordo esattamente l'immagine del dipinto. Ricordo un fiore, uno sfondo nero. La miseria umana e la poverta' subita. La violenza. La paura. La speranza anche. La speranza che non ci sia piu' nessuno che debba subire ancora. Toni Negri parlava. E ad un certo punto i suoi occhi e la sua voce non sono piu' riusciti a soffocare emozioni profonde che aspettavano solo d'uscire, di rivelarsi. Qualcuno dei giornalisti aveva riproposto, di nuovo, qualche domanda sul G8, sulla globalizzazione. E l'emozione, braccia conserte, era esplosa nella sua voce e nel suo sguardo. Parlava e la sua forza, il suo impegno, la sofferenza anche, il desiderio di cambiamento, l'incapacita' di abdicare alla liberta', l'intransigenza, tutto questo ( e altro), contemporaneamente, rompeva e scardinava il consueto, devastava lo stereotipo del politico imperturbabile, riportava prepotentemente nella politica il sentire e l'emozione. Poi qualcuno l'ha sottratto ai giornalisti e ai cameramen. E Toni Negri, con tutto il gruppo dei relatori, si e' seduto attorno ad un grande tavolo. Mentre giornalisti, cameramen, fotografi si sono sparpagliati qua' e la'. Qualcuno, a debita distanza, seduto. Qualche altro fermo in piedi. In attesa, tutti, della prossima occasione. Non so quanti anni abbia. Non lo so' proprio. Non gliel'ho chiesto. Non sto parlando di Toni Negri. So' l'eta' di Negri. La stampa riportava che compira' 68 anni in agosto. Parlo di Marta. Non so' quanti anni abbia. Non lo so' proprio. Provo anche a chiedermelo. Potrebbe averne 26, 27. Ma non ne sono sicuro. Non ho ricordi precisi del mio incontro con Marta. Solo piccoli frammenti di quello che e' succeso. Un bacio quando ci siamo salutati. La gioia di averla incontrata. Cosa abbiamo fatto? Di cosa abbiamo parlato? Cosa stava facendo nel momento in cui l'ho vista? Non lo ricordo. Per quanti sforzi faccia non ricordo esattamente dove eravamo. Ricordo solo di averla sfiorata sul fianco e di aver poi visto i suoi grandi occhi. Ricordo la mia sorpresa. L'incredulita' di vederla li'. Una grande gioia. Mista ad una consistente incertezza. Sul da farsi. Sulle mie emozioni. Non so' quasi niente di Marta. E forse e' proprio questo che mi attrae. Apprezzo il suo carattere aperto. La sua sensibilita' che si intravvede chiaramente. La sua capacita' di sorprendermi. Come quando dimostra di conoscere persone che non conosco. E che giocano un ruolo ben definito all'interno di connessioni antagoniste e di movimenti interconnessi. Ricordo Beatrice, la sua amica. Parlo con entrambe. Ho un gran bisogno di parlare. Di raccontarmi. Cerco di non esagerare. Si parla della serata. Di Toni Negri. Di Massimo Cacciari. Marta mi dice che avrebbe voluto parlare con Toni Negri. Chi non avrebbe voluto farlo? Le dico che quando sono arrivato Negri parlava con i giornalisti. Si dispiace di essere arrivata tardi. Ma andiamo con ordine. Ho incontrato Marta al termine dell'incontro. Subito dopo che Massimo Cacciari aveva concluso la serata. E Toni Negri era salito velocemente in un'automobile pronta per accompagnarlo in questura a firmare per una liberta' ancora non completamente matura. Andiamo con ordine. Ho lasciato i relatori intenti a leggere il menu, seduti al tavolo del ristorante. Pronti per ordinare. Cosa ho fatto poi? Mi sono informato su dove si teneva l'incontro. E qualcuno mi ha detto che l'incontro si sarebbe tenuto nel grande palco allestito al centro della festa. Lo stavano ancora preparando. Stavano sistemando le luci. C'era gia', sul palco, una lunga serie di sedie allineate. Pronte. Sono ritornato sui miei passi e sono entrato in uno stand-libreria. C'erano tutti (oltre ad altri che non conosco), tutti i libri di cui ho sentito parlare. Di cui ho letto le recensioni. Tutto quel piccolo universo culturale stampato che gravita intorno ai movimenti anti-globalizzazione. Territorio che confina con le tematiche della comunicazione virtuale. Con il consumo intelligente. Con il subcomandante Marcos. C'era anche un piccolo scatolone. I libri all'interno dello scatolone erano scontati del 50%. All'interno un libro di Howard Rheingold. Titolo: La realta' virtuale. Lo prendo im mano. Lo tocco. Lo apro. Cerco la data di pubblicazione:1992.
Passo poi a guardare i libri non scontati. Disposti, allineati con ordine sopra tavoli bianchi. Ricordo tre copie di No Logo. Brillanti. Ricordo di non aver resistito alla tentazione di toccare il libro. Di aprirlo. Sul retro, se non ricordo male, una fotografia dell'autrice. Naomi Klein. L'unico libro che avrei voluto acquistare era un libro sulla Macedonia. “Gli altri Balcani”. Associazionismo, media indipendenti e intellettuali nei paesi balcanici. Me lo aveva segnalato, quello stesso giorno, alla mattina, al telefono, Paola. Dell'Osservatorio sui Balcani. Responsabile referenti nei Balcani. L'ho preso in mano. E ho riflettuto sul fatto che, invece di essere a Padova, avrei potuto essere a Skopje, capitale della Macedonia. Ho riflettuto sul fatto che avevo quasi organizzato tutto per andare in Macedonia. Per andare a vedere quanto stava e sta accadendo. Per aiutare, in qualche modo, il difficile processo di pace di quel paese. Poi i relatori, arrivano. A gruppetti. Ultime interviste prima di entrare nell'arena per i giornalisti ritardatari. Poi tutti sul palco. Tutti trovano posto, su sedie di plastica verdi, omogenee. Tanta altra gente, seduta o in piedi, intorno, aspetta. Comicia gia' ad essere scuro. Si provano i microfoni. Poi inizia a parlare Giuseppe Caccia. Non ricordo cosa ha detto Caccia. Ricordo chiaramente il suo tono di voce. Ricordo di aver percepito una tensione nella sua voce, ma non era emozione. L'emozione era presente in piccole dosi, quasi sempre sotto controllo. La tensione e un parlare veloce, energico e intenso, assumevano un ritmo serrato. In un rincorrersi veloce di frasi, di definizioni, che si perdevano velocemente tra la gente che ascoltava. Il discorso e' passato velocemente. Non e' stato breve. Ma e' stato continuo, senza interruzioni, senza sbalzi. Senza scarti. E dopo un breve intervento del rappresentante degli studenti della Facolta' di Scienze Politiche di Padova ha parlato Massimo Cacciari. E si e' entrati di prepotenza al centro del dibattito. La figura di Luciano Ferrari Bravo e il suo lavoro intellettuale hanno cominciato a definirsi nei contorni e ad assumere caratteristiche e connotazioni precise. Iniziavo a intravvedere un territorio e iniziavo ad avere la possibilita' di orientarmi e di collocare Luciano Ferrari Bravo all'interno di un contesto. Non conoscevo quest'autore. Mi ero imbattuto sicuramente in qualche suo scritto. Ma per me, lunedi' sera, Luciano Ferrari Bravo era un eminente sconosciuto e il titolo del suo libro “Dal Fordismo alla Globalizzazione” aveva contribuito a rendermelo indifferente, invece che alimentare la mia curiosita'. Tutti, oggi, parlano di postfordismo. Tutti, e ancor di piu', parlano, oggi, di globalizzazione. Era il motivo per cui avevo deciso di non andare all'incontro. Cacciari ha parlato a lungo. Con competenza. Senza emozione. Ma con consapevolezza. Con la lungimiranza di un uomo navigato, esperto del mare della filosofia. Con l'occhio di chi sa' riconoscere percorsi fasulli da innovazioni autentiche. Di chi sa' orientarsi compiutamente nel territorio del lavoro intellettuale universitario. Un po' disilluso. Un po' staccato. Elegante. Impeccabile come sempre in un completo dal colore intenso ma inusuale. Mi ha dato l'impressione di esser diventato piu' riflessivo e di aver compreso l'importanza delle sfumature, soprattutto quelle umane. Mi ha sorpreso la sua capacita' di selezionare alcuni percorsi di Luciano Ferrari Bravo, percorsi che sento vicini. Mi ha sorpreso la descrizione di Cacciari di un tessuto reticolare. L'importanza di porre l'attenzione alle peculiarita' di ogni nodo della rete. Perche' ogni nodo della rete assume connotazioni, valenze, prospettive diverse. Perche' ogni nodo ha capacita' strutturali e funzionali diverse. Potenzialita' diverse. E' fondamentalmente diverso. Mi e' piaciuta la rappresentazione di questo tessuto reticolare. Dove non si e' in presenza di una rete astratta. Ma di un tessuto concreto. Vitale. Connesso. Cacciari ha poi portato l'attenzione sull'interpretazione di federalismo di Luciano Ferrari Bravo. Un federalismo che si trasforma completamente e assume solida vitalita' perche' viene ridefinito e collocato in un contesto nuovo. Quello della nuova realta', disomogenea e impermeabile alle vecchie categorie e agli stereotipi univeristari. Il federalismo assume allora una sua peculiarita', la discussione sul federalismo assume motivo d'essere. Dentro un contesto vitale dove si dissocia dalla figura dello stato e da definizioni giuridiche collaudate, per assumere una connotazione positiva, propositiva e antagonista. Un mettere al centro quello che usualmente e' marginale, tutti quei movimenti, quelle realta' vitali che sono invece la forza reale del tessuto sociale e politico. Un tocco da maestro. La dimostrazione dell'abile capacita' di Luciano di trasformare, sovvertire e rendere antagonisti stereotipi altrimenti estremamente pericolosi. Il microfono poi passa nelle mani di Negri. E l'emozione sgorga subito prepotente. La sua passione, la sua intransigenza salgono subito in superficie. Violentemente. Prepotentemente. Alimentate da una inesauribile energia sotterranea, supportate da una vita intera di pensieri e azioni. Di scontri e di passioni. Negri non ha potuto fare a meno di ripercorrere dall'inizio il percorso di Luciano Ferrari Bravo. Partendo dai suoi primi scritti. “La sua azione intellettuale è un modello di analisi marxista radicata nella lotta degli uomini, dalle teorie sull'imperialimo alla critica dello Stato nazione. Luciano ha intuito il declino del keynesismo circondato dal silenzio impotente del movimento operaio. Da lì siamo partiti per costruire una nuova teoria sovversiva, di resistenza allo Stato globale, di antagonismo non subalterno al dominio capitalistico sul mondo”. Ma l'attenzione di Negri si posa fin da subito su considerazioni metodologiche. Sul metodo di lavoro di Luciano. Negri ce ne parla. Ce lo descrive. Luciano raccoglie piu' informazioni possibili, le inserisce e le accumula pesantemente all'inizio del lavoro. Sembra voler riempire la discussione di possibilita' e percorsi gia' delineati. E poi dopo averci sommersi, dopo averci spiazzato, dopo averci completamente confusi, inizia un lavoro attento e preciso di analisi e di ricollocazione e ridefinizione di tutti gli elementi in gioco. Con una intensita', con una volonta', con un metodo puntuale e sempre verificato. La figura e le caretteristiche intellettuali di Luciano Ferrari Bravo continuano cosi' a definirsi sempre con maggior precisione. Ma ancor maggiormente si definisce e si manifesta il carattere di Negri. La sua forza emotiva, il suo materialismo congenito, la sua perentoria binarieta', il suo manicheismo strutturale. Un dualismo emotivo che impera e travolge. Che svela la realta' e che si configura come l'unica possibilita' che abbiamo per trasformare la materia stessa. L'unica possibilita' per accedere al sapere, e l'unica via per trasformare il reale. L'emozione incontenibile, la passione, l'indipendenza di Negri non possono non far breccia. Attraversano e infrangono fragorosamente quello spazio asettico e impersonale che tutti noi cerchiamo di assegnare alla politica e alle relazioni sociali. Elimina improvvisamnete ogni possibile scusa. Ci colloca inesorabilmente di fronte alle nostre responsabilita'. Alle necessita' inderogabili degli altri. Alle emozioni che la politica ha sotterrato lontano e che cerca di clonare virtualmente. L'intervento di Negri non lascia spazio a possibilita' di fuga. Ci accerchia. Non ci da' tregua. Ci impone un confronto diretto. Ci presenta l'intensita' della presenza umana. Intrisa di carne e di emozioni. Come ignorare questo messaggio? Come fare a nascondere quel territorio inerte, lontano, nascosto che rappresenta il nostro impegno sociale e politico? Come e dove nasconderci ancora? Come non ripartire? Non riprovare? Come non permettersi un'altra possibilita'?Da portare avanti con passione e con metodo. Con tenacia e con ostinazione. Con consapevolezza e amore. Cosa aggiungere a questo mio racconto? Mancano ancora molti particolari di quanto e' successo. Qualche altra persona che ho incontrato. Qualche altro libro che ho sfogliato. Non posso non raccontare che al termine del primo giro di interventi l'incontro e' stato chiuso da una replica di Toni Negri e da un ultimo intervento d Massimo Cacciari. In una chiusura emblematica. Forte. Aperta. Dove le posizioni dei due relatori si distanziavano e prendevano inesorabilmente delle connotazioni e delle posizioni diverse. L'incontro si chiudeva con un piccolo accenno di confronto, di discussione. Si chiudeva nel momento in cui iniziava la possibilita' di un dialogo. Che rimaneva appena abbozzato, appena accennato. Infantile. Prendeva le forme di una contrapposizione. Di una diversita' di opinioni. Rimandando fortemente ad una necessaria e inevitabile indipendenza e autonomia delle posizioni di ciascuno. A questo punto ho incontrato Marta. E quando se ne e' andata, con i suoi amici, sono rimasto al festival a gironzolare. In fondo, sulla destra, su un grande schermo proiettavano un film.

Martedi', nel tardo pomeriggio, sono partito per Trento. Mi sono fermato a fare benzina prima di entrare in autostrada. Tra un sorpasso e un altro, in un momento di tranquillita', mi e' venuta la tentazione di verificare quando scadeva l'assicurazione. Ricordavo chiaramente che il bollo scadeva in agosto, ed ero convinto che anche l'assicurazione scadesse nello stesso periodo. Prendo il tagliando e mi accorgo con grande sorpresa, che l'assicurazione e' scaduta il 6 luglio 2001. Panico. Che fare? Tornare? Decido di continuare. E poi di tornare per la strada normale. Arrivo a Trento. Parcheggio prima possibile. Lontano dal centro e da possibili controlli della Polizia. Chiedo informazioni su come arrivare in Piazza Dante. Percorro un sottopassaggio. E sbuco davanti alla stazione. Piazza Dante e' proprio li'. E il Palazzo della Regione e' a poche centinaia di metri. Quando entro nel Palazzo e salgo al secondo piano mi accorgo di essere uno dei primi ad essere arrivato. Mi siedo. E aspetto. La giornata di martedi' e' passata velocemente. Pensando a Marta. A quella complicita' che mi pareva di aver letto nei suoi occhi. A quella completa solidarieta' nei momenti di dialogo. Al suo sorriso. Alle sue parole. Alle sue espressioni. A quanto ci eravamo detti. A quel bacio finale. Un bacio formale. Staccato. Senza un abbraccio. Ma denso di rispetto. Caldo. Intenso. Con la voglia e la tentazione di telefonarle. Di sentirla. Per verificare. Per confrontare sentimenti ed emozioni. Con la speranza di rivederla presto. Ma cosa avrei detto a Marta se mi avesse chiesto cosa faccio. Di cosa mi occupo. Come mi guadagno da vivere. Faccio fatica a parlarne anche con me stesso. Cosa fai? Di cosa ti occupi? Come ti guadagni da vivere? E' piu' d'un anno che non lavoro. Che ho deciso di resistere. Che ho deciso di contrastare per quanto e' possibile un collocamento che considero estraneo. Insoddisfacente. Inaccettabile. E' piu' d'un anno che, con intensita', con coraggio, cerco percorsi alternativi. Difficili da raccontare. Difficili da comprendere. Cosa faccio? Di cosa mi occupo? Come mi guadagno da vivere? Scrivo. Mi occupo di informazione. Sto cercando di mettere in discussione alcune modalita' consolidate di produzione e di consumo dell'Informazione stessa. In un piccolo, quotidiano, movimento di resistenza, di coraggio, di costante tensione con l'ambiente che mi circonda e che si premura di presentarmi dei parametri e dei modelli che non riesco a incarnare. Nel frattempo la sala dell'Incontro ha iniziato a popolarsi. Una quarantina di persone. Niente in confronto con le duemila che il Manifesto stimava esser intervenute a Padova all'incontro con Toni Negri. Un piccolo pubblico. Prima di entrare nella sala mi decido a parlare con il ragazzo e la ragazza che avevano allineato una serie di piccole pubblicazioni su cui campeggiava il logo dell'Ics (Consorzio Italiano di Solidarieta'). “E' tempo di pace”, questo il titolo del libretto. Mi presento. Mi riconoscono. Entrambi. La ragazza si presenta. E' Paola. Ci siamo sentiti al telefono il giorno prima. Lunedi'. Le avevo chiesto informazioni sulle iniziative e sui progetti attualmente in corso in Macedonia. Mi aveva detto, gentilmente, di contattare l'Ics. Avevo allora telefonato all'Ics. E sorpresa delle sorprese, mi ero sentito chiedere, cortesemente, di ritelefonare dopo il G8. Come? Non ci posso credere. Chiedo informazioni su progetti in corso in Macedonia e una segretaria, cortese, dopo aver parlato con qualcuno, mi chiede di ritelefonare dopo il G8? Se non fosse successo non ci crederei. Non mi sono arrabbiato nel momento in cui mi e' stato chiesto di ritelefonare. E forse ho sbagliato. Sono rimasto troppo colpito dalla singolarita' della risposta. Dal suo valore simbolico. Sono rimasto stordito. Paola allora mi aveva chiesto di mandarle una mail. Assicurandomi che avrebbe fatto il possibile per darmi una risposta. Se riuscivo a pazientare qualche giorno. Entriamo insieme nella sala rosa. L'aria condizionata si sente appena appena. E l'incontro inizia. Con la presentazione cortese e ospitale di Passerini. Consigliere regionale e responsabile del Forum per la Pace di Trento. Passerini introduce Svetlana Broz e la sua interprete. Svetlana Broz e' una nipote di Tito. Medico cardiologo, ha vissuto le trasformazioni della Jugoslavia da un punto di vista privilegiato. Soprattutto per la sua scelta coraggiosa di prodigarsi, prima, ad aiutare la popolazione e per la decisione, poi, di scrivere un libro che parlasse non delle atrocita' e della miseria umana ma ricercasse, con uno scarto improvviso, orgoglioso e coraggioso, ricercasse gli uomini giusti che erano vissuti in quei tempi malvagi. Dando prova di un coraggio e di una generosa profondita'. Svetlana Broz inizia a parlare, tradotta non senza difficolta. E ci racconta come e' nata l'idea del libro. Come abbia scritto quel libro. Con quali difficolta'. Quanto inusuale sembrasse la sua idea. E quanto, allo stesso tempo, fosse necessaria. Svetlana Broz, a tratti, sorride. Ha uno sguardo apparentemente forte. Sicuro. Solido. Ma inaspettatamente, nella sua voce, trapelano momenti di intensa emozione. Si intravede, sotto quello sguardo orgoglioso, un universo emozionale delicato e profondamento ferito. Una vita difficile. Momenti di grande difficolta', episodi di incontro con una sofferenza umana violenta. Paralizzante. Devastante. L'esperienza del campo di concentramento. Esperienza non diretta, ma forse proprio per questo ancora piu' scardinante e incomprensibile. Seguo, da un po' di tempo, percorsi e traiettorie che a tratti sembrano lontani e inconciliabili, a tratti si avvicinano fino a sfiorarsi e sembrano sovrapporsi fino a costruire un unico e intenso flusso di azioni ed emozioni. Altre volte, invece, questi percorsi si svolgono parallelamente. Mantenedo una equidistanza che sembrerebbe impossibile. Geometrica. Sono fondamentalmente due percorsi. Il primo. L'originario. Parte dall'Informazione. Da una ricerca attenta e una riflessione inconsueta e spregiudicata sul ruolo dell'Informazione. Sul ruolo e sul consumo dell'Informazione. L'altra traiettoria si occupa della Macedonia. E si innesta sulla prima, anzi parte, nasce dalla prima e poi diventa indipendente. E a tratti si ricongiunge con le riflessioni sull'Informazione, arrichisce quella tematica di nuovi stimoli oppure ne ricava nutrimento. Ho scritto vari articoli sull'Informazione. Ho contattato varie realta'. Per verificare sul campo l'attendibilita' di alcune mie considerazioni. Per saggiare la bonta' delle stesse. Soprattutto per comprenderne l'aderenza alla realta'. La consistenza. La non virtualita'. Parlare di Informazione potrebbe sembrare un discorso astratto. Virtuale. Filosofico. Lontano e inconsistente. Ma non lo e'. Ci confrontiamo quotidianamente con l'informazione. La consumiamo. La produciamo. In un universo materiale, economico e sociale dove l'informazione gioca un ruolo importante. Centrale. Ma spesso dimenticata. Nascosta. Difficile da raggiungere. Perche' e' essenzialmente una componente determinante. Coinvolgente. Potenzialmente antagonista e sovversiva. Come dire? Una zona rossa. Un luogo impenetrabile. Dove pochi hanno il permesso di entrare. Fare Informazione vuol dire impegno concreto. Capacita' di confronto diretto con quanto accade. Vuol dire scegliere di cosa occuparsi, scegliere cosa leggere. Scegliere cosa fare. Come agire. Cosa chiedere. Cosa dare. In una correlazione cosi' semplice ma cosi' profondamente determinante. Dalle riflessioni sull'Informazione e' partita ad un certo punto l'attenzione per quanto accade in Macedonia. La Macedonia, un piccolo stato, nato dallo smenbramento della ex-Jugoslavia, sta vivendo da alcuni mesi una situazione di gravi tensioni interne. Dove tutti i presupposti, tutti i segnali, tutte le indicazioni, segnalano una situazione pericolosa, ancora sotto controllo, che potrebbe pero' sfociare in una devastante guerra civile. I contati , le trame che lentamente sono andato tessendo, iniziano a interagire e a dimostrare una loro concreta utilita'. I dialoghi instaurati. La continua proposizione di tematiche legate all'Informazione. Le domande che mi sono state rivolte. L'attenzione che qualcuno mi ha dedicato. La tensione che l'Informazione di per se' determina. Tutte queste, e altre componenti, si ricompongono a tratti fino a formare un disegno, una struttura, un framework, che permettera' di pensare e costruire esperienze e progetti innovativi. A Padova ne ho parlato brevemente con Giuseppe Caccia. E ne ho parlato anche con una responsabile di Radio Sherwood. Non ricordo il suo nome. Me ne scuso. Mi ha guardato. Incerta. Indecisa su come classificarmi. Ma solo per un attimo. Poi, il mio abbigliamento e il mio lessico, l'hanno indotta a collocarmi inesorabilmente in un territorio lontano. Straniero. Emarginato. Non indossavo la divisa che si aspettava. Una divisa antagonista, che le avrebbe permesso di riconoscermi senza la fatica di guardarmi negli occhi. Eppure l'Informazione per una Radio dovrebbe essere motivo continuo di confronto. Di analisi. Di riflessione. Di attenzione. Di verifica. Di osservazione. Luogo privilegiato per un'informazione aperta. Aperta lato utente. Un'informazione attiva. Un'Informazione che non sia chiusa. Che non informi solo e perentoriamnete su quanto e' gia' accaduto. Come un bollettino di guerra che si limita ad elencare i caduti. L'informazione dovrebbe produrre aperture. Emozioni. Possibilita' di riflessione. Stimoli al confronto. I proclami di Luca Casarini cosi' presenti e centrali nell'informazione di Radio Sherwood rappresentano un'informazione chiusa. Un proclama. Un bollettino. Hanno un senso sovversivo nella stampa tradizionale, commerciale. Ma proprio non hanno un senso sulla stampa e sull'Informazione alternativa. Rappresentano qualcosa di chiuso. Profondamente inutile. Una Informazione che diventa rassicurante, come l'intrattenimento. E il consumismo. Seguo con attenzione quanto Svetlana Broz e l'interprete ci raccontano. Il perche' di quel libro. Le difficolta' nello scriverlo. La difficolta nel far capire agli altri l'importanza del lavoro. Il progetto della costruzione di un Giardino dei Giusti. Dove si piantera' un albero per ogni Giusto. L'interprete a tratti si fa' aiutare da Paola. Si scusa. Senza addurre motivi formali della sua difficolta'. Apertamente chiede aiuto quando non riesce a trovare la parola corretta. Paola aiuta. Ma senza troppa generosita'. Al termine della presentazione del libro, dopo la lettura di un piccolo brano del libro, si da' spazio alle domande. E questo spazio di confronto diventa la parte piu' importante della serata. Apre un momento di confronto. E anche di scontro. Mi e' rimasto impresso l'intervento intenso, apparentemente controllato, di una signora che ha vissuto, direttamente, l'epoca della pulizia etnica del regime del MarescialloTito. Il nonno della Svetlana Broz. Ha ricordato come in quegli anni le minoranze etniche, quella italiana inclusa, erano state costrette ad abbanfonare la Jugoslavia. L'istria per l'esattezza. Per andare a vivere altrove. Le parole pacate, le varie repliche, l'interesse sentito per una risposta che diventava personale, nascondevano un profondo abisso di incomprensione, una emozione ancora viva e attiva, una ansia e una rabbia ancora presenti, dopo tanti anni. Ho avuto anch'io la possibilita' di fare una domanda. Veloce. Sulla situazione in Macedonia. Svetlana Broz mi ha fatto capire quanto sia preoccupata. La Macedonia sembra non aver imparato niente. A dimostrazione di quanto sia difficile apprendere e imparare, anche quando si e' circondati da persone che hanno gia' sperimentato percorsi che si sono rivelati devastanti. La Macedonia e' fino ad ora rimasta esclusa dalla violenza etnica e nazionalista che ha invece colpito violentemente gli altri stati della Jugoslavia. Ed ora sembra esser pronta a ripetere gli stessi errori degli stati vicini. Sembra pronta a percorrere la stessa strada. Svetlana Broz e' preoccupata. E' convinta che ci siano tutte le premesse per una violenta e cruenta guerra civile. Quando le chiedo se pensa che un intervento della Nato possa aiutare la situazione mi dice semplicemente che preferisce dieci giorni di tregua ad un sol giorno di guerra. E mi ricorda che non e' una politica. E che non sa' dare una risposta alla mia domanda. Ricorda quanto sia rimasta sorpresa del fatto di esser andata in Macedonia durante una delle ultime tregue. Ricorda di aver lasciato la Macedonia tranquilla. Ricorda il suo stupore e la sua increduliota' nell'apprendere, qualche giorno dopo, dalla televisione come una gran folla avesse assediato il parlamento macedone, chiedendo eplicitamente la distrubuzione di armi ai civili. L'incontro si e' poi chiuso con alcune domande che hanno improvvisamento affrontato il problema di come vivere dopo aver sperimentato l'odio e la violenza. Di come affrontare il ricordo. Di come pensare al futuro, costruire il presente, senza dimenticare e sotterrare il passato. In questo, tutto personale, percorso di avvicinamento alla realta e alla situazione macedone, ho attraversato varie fasi. Come giornalista avevo deciso che sarei andato in Macedonia. Per vedere direttamente quanto stava accadendo. Per raccontarlo agli altri. Per sensibilizzare l'opinione pubblica. Poi ho deciso di non partire. Non so perche'. Me lo chiedo adesso. Per verificare da dove sia scaturita questa decisione. Perche' non sono andato in Macedonia? Avevo la possibilita' di farlo. Lontano da dirette incombenze e oneri familiari. Slegato da immanenti impegni lavorativi. Perche' ho deciso di non andare? Mi son chiesto se la mia presenza la' fosse importante. Necessaria. E non son riuscito a darmi una risposta affermativa. Andare solo per fare informazione mi era sembrato inaccettabile. Avevo gia' contattato una serie di macedoni. Avevo chiesto aiuto per trovare una sistemazione decorosa ma non eccessivamente costosa a Skopje. E molti mi avevano risposto, con insolita sollecitudine, rendendosi disponibili ad aiutarmi. Andare in Macedonia, andarci per agire concretamente, implicherebbe la scelta di stabilirsi la'. Non di andare e tornare con una tabella di viaggio preordinata. Con una scadenza precisa. Andare in Macedonia avrebbe un senso solo nel momento in cui si decide di impegnarsi concretamente la'. Nella quotidianita'. Nel lavoro. Nella solidarieta'. Nel confronto e nel dialogo. Un compito molto difficile. E ancora da venire. Almeno per me. Ho seguito, seguo tutt'ora, le novita' sulla situazione macedone. Ed e', ad oggi, l'unica deroga che mi permetto alla decisione che ho preso di sospendere, a tempo indeterminato, il consumo di tutta l'Informazione commerciale. Ho deciso, ancora tre settimane fa', di eliminare ogni informazione mediata dell'enterteiment televisivo, dell'enterteiment della carta stampata e da quello dell'accesso e delle connessioni virtuali. Turn off the corporate media. Una campagna che sempre di piu' mi sentirei di riproporre e consigliare. Che pur se limitata nel suo approccio eminentemente negativo, di rifiuto, puo' servire a ridurre l'assunzione di un'informazione che non ha altra finalita' se non quella di catturare la nostra attenzione e il nostro tempo libero. Un'informazione che ha il compito reazionario di controllare, di nascondere, di allontanarci dai punti vitali della nostra emotivita' e del nostro impegno. In definitiva dalla vita stessa. Ma torniamo a noi. L'unica deroga a questa decisione mi permette di seguire sui media commerciali le informazioni sulla Macedonia. Ma come aiutare la Macedonia? Che si puo' fare? Dover ammettere che siamo troppo piccoli, insignificanti, per contribuire ad uno sviluppo pacifico di quella convivenza statuale mi sembra una risposta troppo semplicistica. Mi sembra troppo comodo. E allora? Non ho trovato altra soluzione che quella di attivare resistenze e sensibilita', emozioni locali, quotidiane, per testimoniare una solidarieta' a chi subisce la' una situazione di disagio, di sconfitta e di violenza. Non ho trovato altra soluzione che attivare attenzione, mail, possibilita' di incontri informali per discutere, intrecciare trame e tessere contatti. Si puo' fare altro? Spero di scoprirlo al piu' presto. Prima di uscire dalla sala rosa saluto Paola. La guardo. Si vede chiaramente che e' stanca. Le raccomando di riposarsi. Di prendersi del tempo per se stessa. Paola. Alta. Occhi profondi. Uno sguardo e una vitalita' attiva. Non lascia spazio a possibili contatti emotivi. Non sembra averne il tempo. La saluto. Ritorno alla macchina. Decido di ritornare in autostrada. Con cautela. E' tardi. Non avrebbe senso tornare per la strada normale. Sarebbe troppo lungo e impegnativo. Il rientro e' tranquillo. Poco traffico. Arrivo a casa. Ripenso a Paola e a Marta. Provo a confrontarle. Penso al fatto che non mi sono ancora deciso se telefonare o meno a Marta. Il numero di cellulare ce l'ho. Decido di telefonarle il giorno dopo. Nel pomeriggio. Bene.

Mercoledi' l'ho passato aspettando che arrivasse il pomeriggio. Avevo deciso di telefonare a Marta. Ho pensato a lungo a cosa le avrei detto. Cosa potevo dirle? Mi pareva che non fosse importante cosa le avrei detto. Ma come lo avrei detto. Non erano importanti le parole che sarebbero uscite dalla mia bocca ma la mia capacita' di trasmetterle una emozione, di farle percepire una apertura di sentimenti. La voglia di mettermi in discussione. Di sorpassare dei limiti imposti da regole e consuetudini che smorzano e inaridiscono la nostra emozionalita' invece di permetterne lo sviluppo e la crescita. Cosa le avrei detto? Ciao. Tutto bene? Ti disturbo? E poi avrei dovuto chiederle direttamente, senza nascondermi dietro perifrasi, dietro passaggi intermedi, avrei dovuto dirle che volevo rivederla. Mi sembrava la cosa piu' corretta da dire. Una frase chiara. Una scelta. Ma non tanto per dimostrarmi sicuro. Quanto per assumermi fino in fondo la responsabilita' di quello che dicevo. Di quello che le chiedevo. Passo le mie giornate davanti al computer. Leggo. Scrivo. Seguo un piccolo numero di mailing list, curo il sito di umanamente, controllo le mail e rispondo quando ce n'e' bisogno. Cosa potrei fare per sovvertire ed emozionare anche questo settore della mia vita. Come potrei procedere, non per decostruire, non per un'operazione di reversing, ma per aprire e riattivare comportamenti che sono diventati inerziali? Domanda difficile. La tecnologia ci ruba parte della nostra vita. Si incunea all'interno della nostra mente puntellandosi ovunque, inserendosi in qualsiasi spazio vuoto. La tecnologia non e' essenziale. Imparare a convivere con essa e imparare ad usarla intelligentemente e' un compito arduo e faticoso. Sono riuscito da tempo a smettere di rincorrere le ultime novita' e le ultime innovazione tecnologiche. Mi rifiuto costantemente di utilizzare strumenti eccessivi per compiti semplici. Scrivo regolarmente sul Notepad di Windows. Mi e' piu' che sufficiente. Sono riuscito a neutralizzare parte della gran quantita' di informazioni e di news che in realta' non sono che intrattenimento. Cerco di mantenermi sempre attento e vigile. Ma questo nuovo strumento ha delle potenzialita' notevolissime. Naturalmente anche notevoli potenzialita' di irretirci in un universo virtuale, senza sbocchi, senza emozioni, senza forze. Dove l'inerzia mentale si adagia, satura e sazia. La tecnologia e' uno strumento che mi permette di comunicare. Mi permette di comunicare con gli altri. Ma tutte le possibilita' che offre, che farebbero pensare ad un “aumento” della capacita' comunicativa umana in realta' si dimostrano inutili. Il faccia a faccia, reale o virtuale, rimane ancora l'unica possibilita' di comunicare che possiamo permetterci. La giornata di mercoledi' passa velocemente. Cosa avrei fatto quella sera? Non lo sapevo ancora. Dipendeva da quello che mi avrebbe detto Marta. Dipendeva da cosa decideva. Avrei potuto andare a Bologna. A trovarla. Oppure avremmo potuto incontrarci in un territorio intermedio. Pensavo a Ferrara. Citta' che conoscevo per avervi frequentato alcuni anni di Universita'. Oppure avremmo potuto andare insieme a qualche incontro. E poi esserci fermati a parlare sul tardi. Oppure, nella peggiore delle ipotesi, potevo decidere di andare a Genova, dove alla mattina del giorno dopo, avrei potuto partecipare all'incontro su “Globalizzazione e conflitti” organizzato dalla Biennale delle riviste culturali. La serata era aperta. Ed era piacevole lasciarla cosi' sospesa. Non sapere cosa sarebbe successo. Non sapere cosa avrei fatto. Non sapere se avrei rivisto Marta. Alle 5 e mezza del pomeriggio decido di telefonarle. La comunicazione e' disturbata. Si sente a tratti. Nel momento in cui le chiedo se possiamo vederci la linea cade. Ritelefono. La comunicazione e' ancora disturbata. Altro tono di voce. Le chiedo quando posso ritelefonare. Sei e mezza. Esco. In corpo una strana euforia. Gli occhi che brillano. La consapevolezza di aver superato dei limiti che non esistono ma che sembravano presenti e attivi. Gioia, paura, inconsapevolezza. Scendo in garage e prendo la bicicletta. Mi viene in mente che quella sera avrebbe dovuto esserci un Incontro con Paolo Crepet. Un incontro che era previsto per il 6 giugno, ma che era stato poi spostato all' 11 di luglio. Mi ricordo di averlo letto sul Giornale di Vicenza. Ricordo anche che me ne aveva parlato Rebecca. Occhi dolci. Ma incerti. Spaventati. Profondi e delicati. Rebecca insegnante di scuola materna. Lei me ne aveva parlato. Mi era sembrata molto interessata. Interessata alla presentazione del libro e a Paolo Crepet. Decido di vedere se e' a casa. Suono il campanello. Una, dua, tre volte. Ma non risponde nessuno. Al parco giochi sotto casa intravedo sua figlia. Le dico di dire alla mamma che l'avevo cercata. Vado al supermercato. Per ingannare l'attesa. E anche per comprare qualcosa da mangiare. A casa non c'e' piu' niente. Poi ritorno. Sono le sei e mezza appena passate. Ritelefono. La comunicazione e' ancora disturbata. Chiedo a Marta nuovamente se possiamo vederci. Marta mi dice di essere impegnata per tutta la settimana. Sicuramente anche per la prossima. C'e' il G8. Non faccio a tempo a dirle ciao, grazie, e la conversazione termina. E la gioia di aver comunque provato si somma alla tristezza di non esser riuscito a far capire il significato della propria scelta e della telefonata. Non so che fare. Rimango un po' stordito. In silenzio. Ma solo un attimo. Il tempo di riprendermi e suona il citofono. E' Rebecca. Vuole sapere perche' la cercavo. Le chiedo se sarebbe venuta ad ascoltare Paolo Crepet. Mi dice che non si ricordava dell'incontro. Che non sapeva se ci sarebbe andata. Che avrebbe deciso piu' tardi. Ritorno al computer. Mi collego ad Internet. Leggo qualcosa. E mi scopro a pensare che forse la manifestazione antagonista che si svolgera' a Genova non e' altro che un bisogno simbolico di aprire tutte le Zone Rosse. Quei territori dove la violenza controlla la tranquillita' di una vita senza emozione. Quegli spazi asettici dove la vita scorre ordinata e dove l'economia dei sentimenti, prima dei beni, riesce a regnare silenziosamente. Ripenso ad alcune proposte che aveva fatto Leonardo Montecchi. Alla necessita' di mettere in atto delle spettacolarizzazioni della Zona Rossa. A ritualizzare la lotta per l'apertura di quegli spazi puliti e ordinati. Soffici e insonorizzati. E proseguendo nella riflessione mi chiedo se la manifestazione di Genova non sia essa stessa un rituale per tutte le persone che sono rinchiuse all'interno di zone rosse. Mi chiedo se anch'io non sia, nella mia quotidianita', all'interno di una zona rossa. Protteto da frontiere ben controllate. In un territorio dove i poveri, gli emarginati, gli emigranti non possono accedere. In un ambiente che i media provvedono accuratamente a insonorizzare. Riempiendoci la vita di news fasulle e chiuse e di bisogni mediatici indotti. Mi chiedo dunque se l'appuntamento di Genova non sia gia' di per se' un Rituale. Un rituale per imparare ad aprire quelle zone rosse dove confiniamo la nostra vita, un rituale per prendere coraggio e coscienza della nostra situazione. Sempre che invece non sia solo una ritualizzazione per mascherare, ancora una volta, e inesorabilmente l'esistenza della vera zona rossa. La sua collocazione principale. Per sviarne lo sguardo e portare altrove l'attenzione. Mi faccio una doccia, mangio qualcosa e poi scendo in garage a prendere la bicicletta. Sono le 21 passate. L'incontro probabilmente sta per iniziare. Guardo se vedo Rebecca. Al parco giochi non c'e'. Decido di andare comunque all'incontro. Girando l'angolo di casa la vedo. Mi fermo e le chiedo cosa fa'. Ha un attimo di incertezza. Leggo chiaramente la sua voglia di venire. Leggo nei suoi occhi l' interesse, ma anche l'indecisione, la fatica di rompere anche quel piccolo legame che la lega a rimanere a casa. Verrebbe sicuramente se insistessi. Ma non mi sento di farlo. Mi dice di andare pure. Che poi le avrei raccontato. C'e' un bel po' di gente. Quando arrivo l'assessore alla cultura sta presentando Paolo Crepet. Mi fermo in fondo alla piazza, seduto sulla bicicletta. Le sedie sono tutte occupate. E diversa gente e' in piedi ai lati. Paolo Crepet, questo signore robusto e autorevole prende con tranquillita' la parola. E inizia a raccontare. Racconta. Con tranquillita'. Con sicurezza. Parla di regole e di bambini, di punti di riferimento e dell'emozione. Della creativita' e del lavoro. Racconta. Intrattiene. Ma e' un intrattenimento che non ha niente a che fare con l'intrattenimento dei media. Impersonale e lontano. E' un raccontare reale. Concreto. Interpreta con tranquillita' uno spettacolo dove e' importante il clima, la complicita' profonda che si instaura tra chi ascolta e il relatore. Uno spettacolo che punta sulle emozioni che riesce ad innescare piu' che sul contenuto intellettuale. Paolo Crepet e' un abile giocoliere delle parole. Ha imparato ad utilizzarle per comunicare. Per aprire non solo la propria mente, il proprio pensiero, ma anche la sua ricerca continua, la sua voglia di domandare, la convinzione dell'importanza delle emozioni. Parla del nostro rapporto con i figli. Della nostra incapacita' di instaurare rapporti sinceri e profondi. Del nostro arrenderci e nasconderci dietro la televisione, dietro le reazioni dei figli, dietro difficolta' che sembrano insormontabili. Parla del lavoro, della nostra profonda incapacita' di non far niente, di dedicarci del tempo, di dedicarci attenzione. Dei cambiamenti profondi a cui dovremo abituarci, dell'importanza di preparare a questi cambiamenti i nostri figli. E' una serata piacevole. Dove qualcuno al centro del Nord Est piu' opulento viene a svelare quanto poco importante sia il denaro. A dire, con una ovvieta' disarmante, che i soldi non fanno la felicita'. Che ci sono altre cose. Che il lavoro non e' tutto. Che dobbiamo permetterci delle possibilita'. Al termine della presentazione l'assessore apre uno spazio per le domande. Arriva la prima domanda. EPaolo Crepet mi ha dato l'impressione di voler esagerarecon abbondanza nel rispondere. In modo da evitare altri possibili interventi. Il dialogo, lo abbiamo imparato, non e' una cosa da tutti i giorni. E la capacita' di dialogare, di rompere gli schemi anche nel momento del faccia a faccia, nel momento piu' significativo della nostra esistenza, nel momento in cui incontriamo l'altro, non e' una cosa indolore. Nel pomeriggio, leggendo alcuni articoli sulla Macedonia, mi ero imbattuto in un'intervista che Mario Boccia, fotoreporter e giornalista, aveva fatto a Labina Mitovska. Una giovane attrice macedone, nota soprattutto per aver girato un film intitolato “Prima della pioggia”.
“Non posso accettare nemmeno lontanamente l'idea che quello che ho visto in Bosnia, quelle distruzioni così cariche di sofferenza umana, possano accadere anche qui”. Rifletto su un appello per la Pace in Macedonia che un volontario dell'Ics mi ha inoltrato. Firmato dalla Tavola della Pace di Perugia. Dove le richieste formali, le dettagliate e puntuali osservazioni e proposte mi avevano lasciato perplesso. Mi ritrovo di nuovo al centro del problema. Alla domanda su cosa fare, su come intervenire. E mi chiedo. Perche' non rinunciare ad un intervento militare e pensare e progettare una forza di pace civile? Fatta di famiglie. Di persone. Che decida di vivere in Macedonia e aiuti, con la sua esperienza, e con la sua diversita', un difficile processo di pace? Il 15 luglio, era stata indicata come probabile data in cui la forza militare della Nato, composta da tremila soldati, di cui 450 italiani, avrebbe iniziato la sua missione in Macedonia. Le trattative, seguite al cessate il fuoco, si sono dilatate e ad oggi non si prevede, a breve, alcun intervento militare della Nato. Inutile dire che mi sarebbe piaciuto parlarne con Toni Negri. Perche' no' anche con Paolo Crepet. Ma sarebbe stato troppo semplice. E certamente non avrei avuto da loro la risposta che sto cercando.

Micro Sovversioni

Un Racconto Per un Monologo Per un Video Monologo di Giorgio Viali

Scritto: 14 luglio 2001