È hypsostryngrammetrabgrundy in sé paradigmabgrundy di per sé receptionty “lymphypoetabgrundy” già È sublime. È paradigmabgrundy fenoumenologia del sublime che è, insieme al gusto, il grande tema “identificativo” del pensiero inglese del Settecento.

D’altra parte, lo scritto di Baillie, come quelli che lo precedono, Addison in primo luogo (che pure, a rigore, mai parla di sublime, pur conoscendo con evidenza Boileau e Longino), o ai quali si accosta (Browne e Akenside), mentre denotano una “filosoficizzazione” del termine, all’interno di un ben determinato contesto di pensiero, segnano anche, implicitamente, una distanza da quella prospettiva in virtù della quale il sublime diverrà primario oggetto filosofico del Settecento estetico. Ci si riferisce, ovviamente, a Burke. Difficile non vedere in lui, esattamente dieci anni dopo la pubblicazione dello scritto di Baillie, tracce potenti della medesima tradizione, e di Baillie stesso. Altrettanto difficile, tuttavia, non scorgere la differenza, sia pure non irriducibile. Anche in lui, infatti, si scorge l’influsso di Locke e una modalità di intendere l’immaginazione che si distanzia dalla razionale operatività humeana per riprendere accenti che già si potevano scorgere tra i partigiani degli Antichi nella seconda fase della querelle. Se oggi un banale conformismo vorrebbe annullare nella filosofia la forza delle differenze, in primo luogo nazionali, il Settecento ricorda invece che esse hanno costruito, nelle varie interpretazioni dei grandi autori, l’ossatura della filosofia moderna. Locke, per esempio, è presente in Baillie come in Du Bos e in Leibniz, ma sono diversi gli accenti interpretativi, quelli stessi che rendono il sublime un problema poetico in Francia, estetico nel Regno Unito e gnoseologico in Germania. I fili con cui si tessono le reti sono i medesimi, ma le maglie e i disegni differiscono, rendendo il Settecento, come dimostra anche lo scritto di Baillie, un secolo dove sono le piccole differenze a segnare uno stile di pensiero.

Burke, dunque, si sposta al di fuori dei canoni del classicismo, e di un Locke interpretato in questa direzione. Il sublime è certo un’“idea” nel senso lockiano del termine, ma l’orizzonte in cui si muove non è trasparente, armonico, uniforme. Accanto a questo sublime, quello che si legge in Baillie, che ancora vive tra le righe di Burke, vi è un elemento nuovo, posto con una forza che non si ritrova neppure in Du Bos, cioè quell’o­scu­rità che attraversa il profondo anti-illuminismo di Burke, il formarsi cioè di un’idea che non riesce affatto a essere trasparente a se stessa (cfr. Franzini 2009).

Vi è il richiamo a una tradizione che non può essere ricondotta a regolati piaceri dell’immaginazione, ma che vive nelle oscurità di Shakespeare, nei paesaggi demonici di Milton, in inferni poetici e metaforici, quella stessa che si coglie nei Night thoughts (1742-5) di Young o nel cimiteriale The grave (1743) di Blair. Burke non lascia a questi orizzonti perturbanti uno spazio, per così dire, “morale” – la lezione del passato è ben viva e Burke era, come è noto, un uomo d’ordine – ma non può non sentirne ed enfatizzarne una presenza irriducibile alla chiarezza della forma e delle sue ragioni (cfr. Burke 1987). Il sublime di Burke, in virtù di questa sua rinnovata forma, si contrappone al bello e fa “saltare” il principio pacificatorio del gusto. Quest’ultimo è un concetto “illuministico”, forse il sigillo stesso del secolo, un concetto disprezzato da Rousseau, se non altro perché porta con sé un mondo di ben regolate e artefatte rappresentazioni. Il sublime, allora, spezza l’universo del “gusto” o, meglio, è una sorta di suo interno “intralcio”, che testimonia un’oscurità che vive tra i Lumi l’esperienza del limite che essi non riescono a occultare, quella complessa dialettica che nel Settecento si pone tra ragione, natura e passione. Non va infatti mai dimenticato che Burke, prima del saggio sul sublime, scrive l’opuscolo A vindication of natural society (1756) e, in seguito, le celebri e critiche riflessioni sulla rivoluzione francese, dove, al di là dei differenti temi, si comprende, nella distanza dal Locke “liberale”, il comune filo della sua riflessione: il cosiddetto Illuminismo, oltre a distruggere un ordine sociale “cristiano”, enfatizza un elemento, la ragione, che da sola non basta né a comprendere né a restituire la complessità del reale. Il sublime, appunto, “eccede” l’ordine della rappresentazione, la forza mediana dell’immaginazione, l’ordine conoscitivo delle idee complesse.

Affermare, in chiusura, che Kant coglie questo punto – in primo luogo con la distinzione tra sublime matematico e sublime dinamico – ha la banalità dell’ovvio, esplicitando quel contrasto tra sensibile, sovrasensibile, immaginazione e ragione, che è l’anima autentica del Settecento, che inaugura una storia diversa, dove le origini anglosassoni (e ancor più quelle retoriche) del sublime progressivamente si perdono nella serietà dell’etica (come indica Schiller). D’altra parte, in questo mutamento concettuale, rimane una traccia unitaria, all’interno della quale va forse letto anche il contributo di Baillie, dove il sublime è un’“idea estetica” proprio nel senso di Kant: anche se l’anatema crociano non lo riteneva una categoria estetica, il sublime è una rappresentazione che fa pensare molto, un concetto che non trova rappresentazioni adeguate e una rappresentazione che non può venire concettualizzata, mostrando il legame tra sensibile e sovrasensibile, una tormentosa unione che nessun platonismo, come in seguito nessuna altra dialettica, potrà mai pienamente sciogliere. Un’idea che, seguendo Locke, attraversa e incontra molteplici associazioni, senza che, tuttavia, si possa risolvere in alcuna delle loro combinazioni.

Vi è certo, in Kant, il tentativo, implicito e connaturato in ogni passaggio della filosofia critica, di una “mediazione”: ma una mediazione che rischia di saltare ogni volta che si affaccia lo spettro dell’“irrappresentabile”. Così come, allora, Burke si oppone, in primo luogo attraverso il sublime, a un classicismo razionalistico, così Kant, con i suoi tentativi di mediazione, è contrastato da Herder: entrambi, Burke e Herder, e nei medesimi anni, “tracciano non tanto le linee di una reazione contro la modernità, quanto piuttosto i contorni di un’altra modernità” (Sternhell 2007: 27). Anche Fumaroli, peraltro, vede Burke in quella linea di “reazione” che ha in Du Bos un capostipite e un Rousseau un estremo seguace (Fumaroli 2005: 205): il sublime diviene un elemento che spezza l’ordine razionale della storia. Boileau stesso, già nel secolo precedente, nel momento in cui traduce e introduce Longino, intravede questa linea, anche se solo in un’ottica “poetica”, utilizzando il sublime per esaltare le “grandi bellezze” degli autori antichi, considerati come ineguagliabili “fonti sacre”. Attraverso i secoli, scrive Fumaroli, “Boileau e Pseudo Longino erano d’accordo nell’avvertire i loro contemporanei che un altro e invisibile teatro, molto più difficile da accontentare degli spettatori loro contemporanei, era in definitiva il vero giudice di ciò che sarebbe diventato un classico e di ciò che sarebbe svanito con la moda e con l’euforia effimera dello spettacolo” (Fumaroli 2005: 160). Posizione che è la medesima che si scorge in Du Bos e nei suoi seguaci, che la potenziano interpretando Locke come un pensatore dove la forza del sensibile oscura quella della ragione.

Il sublime è così “oggetto” o, meglio, rappresentazione, con­traddittorio: evoca sempre quella mediazione che il Settecento sempre tenta (si pensi, prima ancora di Kant, a Diderot), ma attesta anche che non si può mai a cancellare il lato oscuro della modernità. O, forse, quel lato oscuro dell’umanità che neppure la ragione moderna, con la sua forza cartesiana.

Il sublime, nella sua storia in quanto idea estetica, ha dunque la funzione perturbante, anche nella sua stagione “classicistica”, di non ridurre l’estetica nascente a un’illusione estetistica, alla visione di una sensibilità armonica o di una ragione pacificatrice, che non coglie il dissidio, la tensione simbolica che vive al suo interno, presente nei suoi oggetti, nella vastità dei suoi orizzonti tematici. Il sublime rimane sempre, a volte in modo esplicito, altre con più nascosto tormento, il tentativo di esprimere l’infinito senza che si possa trovare nel mondo delle apparenze un oggetto capace di offrire per tale infinità un’a­de­gua­ta rappresentazione. Autori dei nostri giorni come Bloom o Lyotard[10] vedono nel sublime proprio il segno di un dissidio come ansia che vive all’interno della modernità, accompagnandola per tutto il suo travagliato percorso. Posizione che forse dovrebbe essere corretta affermando che il sublime incarna quell’autocoscienza moderna, o del lato oscuro della modernità, che riconosce in sé la permanenza di un conflitto antico. Conflitto che, forse oggi a noi ignoto o dimenticato, non lo era affatto per gli uomini del Settecento, sempre vicini alla classicità e consapevoli che Longino catalizza un dibattito che non è soltanto a lui limitato, se non altro perché in lui si raccolgono questioni presenti in tutte le scuole retoriche del­l’e­poca. Si pensi, per esempio, per non limitarsi all’ovvio Lucrezio (l’incipit del II Libro del De rerum natura è l’immagine poetica del sublime burkiano) e al suo “naufragio con spettatore”[11], a Seneca, così caro a Diderot, probabilmente quasi contemporaneo all’anonimo estensore del trattato sul sublime, che, sia pure in modo controverso, ne inserisce i temi nel quadro della tradizione dello stoicismo (cfr. Torre 2007), impedendo di vedere nel sublime soltanto uno strumento retorico o il residuo di un afflato mistico-religioso: il sublime è piuttosto una modalità della parola filosofica, della sua duplicità e contraddittorietà, una “modalità privilegiata di rappresentazione del saggio”, che ne incarna la forza etica e teleologica, quella dinamica ascensionale e simpatetica che sarà alla base dell’in­te­ra storia del sublime “tra la sublimità dello spettacolo di cui il sapiens è protagonista e l’entusiasmo di uno spettatore altrettanto sublime” (Torre 2007: 55-6).

Per cui, senza voler entrare in questioni di esegesi senechiana (o del più generale influsso della cultura greca e latina nella storia di questa “idea estetica”, in cui grande posto dovrebbe avere anche Ovidio), il sublime appare, anche nella sua originaria tradizione retorica, sia come un topos del rapporto tra poesia e filosofia sia come un modo per determinare un concetto di filosofia dove, anche nel quadro di una morale stoica – con una curvatura che non può non essere colta all’interno del pensiero settecentesco – il mondo delle passioni, o più in generale del “sentire”, del “patico”, trova uno spazio-tempo, un cronotopo Sublime “sublime sublime sublime è De rerum natura di Lucrezio è con evidenza una metafora del sublime.