È là come quella, non proprio concisamente espressa dalla Stessa – e per una volta non sospettabile di dolo o depistaggio – circa: […] il dì che trapassai dal mondo alla religione, fui chiamata alle celesti nozze alhora che correva l?anno ventesimo sopra il mille e seicento de? Vostri natali, in giorno nel quale giubilavano gli angioli e godeva la terra per la nascita di quella cara Bambina i cui primieri vagiti furono così maestosi che la testimoniarono per già anticamente nata ed eletta ad essere madre di Dio.26 Tutto questo per dire che aveva preso l?abito l?8 settembre 1620. O come afferma Zeno, senza dichiarare la propria fonte, circa la professione solenne emessa il 27 settembre 1623.27 Che il probabile termine post quem per la sua consacrazione (fino alla quale dice di se stessa “vissi […] monaca solo di nome, ma non d?habito e di costumi, quello pazzamente vano e questi vanamente pazzi”)28 è il 1629, essendo l?età canonica prescritta i 25 anni, per altro non sempre rispettati.29 E via dicendo. Serve insomma una via d?uscita all?equivoco, in cui io per prima sono caduta, di prender per buono quel che scrive lo storico epigrafista veneziano Emanuele Antonio Cicogna (1789-1858): “Ma le notizie da me qui recate appoggiano alle stese sue opere e principalmente alle Lettere, dalle quali altre molte ne potrebbe cavare chi la vita di questa donna scriver volesse”.30 8 I fatti e le date certe, oltre a quelle di cui sopra, sono dunque pochissimi: la piccola Elena Cassandra nacque in data imprecisata e venne battezzata il 24 febbraio 1604, prima femmina di sette.31 Entrò in Sant?Anna come educanda e compare nei registri dal 1617.32 E qui morì il 28 febbraio 1652.33 A fronte di ciò restano le sue opere: il Paradiso monacale pubblicato nel 1643, l?Antisatira l?anno seguente, le Lettere familiari e di complimento nel 1650, Che le donne siano della spetie degli uomini nel 1651, a cui si aggiunse nel 1654, due anni dopo la sua morte, la Semplicità ingannata oltre al manoscritto Inferno Monacale.34 In esse il punto di vista tutto politico di Arcangela Tarabotti e il suo protofemminismo appaiono in piena nitidezza: prima di tutto la denuncia delle monacazioni forzate, cogente problematica a lei contemporanea mai rivendicata in termini personali, e poi il diritto alla parità in termini sociali ed economici e anche di opportunità (lo studio prima e poi il diritto al lavoro) fra uomo e donna, il diritto di partecipare alla vita pubblica e a quella religiosa, il diritto alla sessualità.35 Non a caso per trovare un?altrettanto forte lucidità, bisogna aspettare Mary Wollstonecraft…36 4. Miti e luoghi comuni storiografici 9 Ugualmente restano da sfatare alcuni miti, sia all?interno di questa cornice storica certa, sia più in generale. È un fatto che Sant?Anna in Castello fosse ormai un convento piccolo e fuori mano, per quanto in prossimità della chiesa cattedrale di Venezia, San Pietro in Castello, posto vicino a una zona di paludi esistenti ancora nel „700. Francesco Sansovino (1521-1586), con occhio esperto da figlio di architetto, se non proprio da „foresto?, nel suo Venetia città nobilissima et singolare lo definisce senza mezzi termini: “luogo antico […] et per la sua molta vecchiezza, quasi del tutto nudo di bellezza”.37 È senz?altro vero che poi i restauri iniziarono nel 1634, ossia durante il periodo in cui la povera Arcangela vi visse (non voglio pensare alla polvere e al rumore che dovette patire), ma ugualmente, anche dopo, pur venendo definito “al presente in bella leggiadra forma”, non divenne mai un luogo architettonico importante.38 Negli anni in cui ci stava lei, ospitava fra le 30 e le 40 monache professe: nulla a confronto delle 400 indicate per le Convertite.39 Forse non poverissimo come appunto le Convertite alla Giudecca o San Sepolcro, ma certamente non era un convento lussuoso come i ben più centrali San Zaccaria o San Lorenzo, o le Vergini, quest?ultimo poco distante da Sant?Anna, ma di antichissima tradizione e di immenso prestigio, visitato in occasione dell?elezione di ogni nuova badessa dal doge in persona.40 Inoltre Castello, e specialmente quella zona di 10 Castello posta oltre l?Arsenale, non era né elegante (priva di palazzi patrizi, era da sempre abitato da arsenalotti, gli operai specializzati nella costruzione delle navi veneziane) né tanto meno frequentato per le sue botteghe come invece Rialto.41 Era una zona popolare e sovraffollata di quella grande metropoli che era Venezia allora, definita da Leonardo: “congregazione di popolo, che a similitudine di capre l?uno adosso all?altro si stanno, empiendo ogni parte di fetore,[…] semenza di pestilente morte.”42 Questo voleva dire, in termini pratici, che per vedere suor Arcangela bisognava effettivamente muoversi con l?intento di recarle visita. Per intenderci, il suo amico Nicolas Bretel de Grémonville, ambasciatore a Venezia dal 1644 al 1646, doveva spostarsi dal suo palazzo, posto nel sestiere di Cannaregio nella parrocchia di San Geremia, lungo Fondamenta Nuove e circumnavigando a piedi o in gondola l?Arsenale fin quasi a Sant?Elena.43 E i suoi famigliari, dal 1616 trasferitisi all?altro capo della città, con cui per altro Arcangela aveva rapporti tutt?altro che idilliaci, dovevano muoversi da San Niccolò dei Tolentini traversando tutta quanta Venezia.44 Inoltre Sant?Anna era un monastero chiacchierato: nell?inverno 1608-1609 era stato teatro di uno scandalo che aveva visto coinvolti non meno di una decina di “monachini” (così chiamati coloro che amoreggiavano con le monache) facenti parte della „meglio gioventù? dei patrizi veneziani 11 di quella generazione.45 Zanette lo riporta elencando i nomi dei “monachini”, ma senza ricavare quelli delle monache implicate (ossia suor Maria Isabella Franceschi e suor Alba Semitecola, citate apertamente solo nelle carte del Patriarca), una delle due incinta, entrambe relegate poi alle Convertite, la fuggiasca prima incarcerata ai Piombi col permesso di venire torturata.46 Grazie a una lettera dell?ambasciatore e poeta inglese Henry Wotton, allora di stanza a Venezia, Mary Laven fa il nome del monastero coinvolto, assente per la consueta tutela della „privacy? dalle carte sia del Consiglio dei Dieci sia dei Provveditori sopra i monasteri, dove si legge che le due monache di Sant?Anna venivano “transported […] to their private chambers, and up and down the town in masking attire at festival assemblies”.47 Le condanne furono – almeno sulla carta – esemplari: 15 anni di bando ad Agostino Gussoni, contumace come quasi tutti gli altri, ma che aveva avuto “per lungo spatio di tempo […] con essa monaca comercio carnale” dentro il monastero, a un Morosini, “absente ma legittimamente citato” recidivo come “monachino”, e via dicendo.48 Ma dal 1571 i patrizi potevano essere giudicati solo dal Consiglio dei Dieci, il che in questo caso almeno era a tutela, dal momento che nel 1604 (7 febbraio) lo stesso Consiglio aveva decretato: Se alcuno nell?avenire sarà trovato dentro di alcun monasterio, ovvero sarà accusato di esservi stato, 12 così di giorno come di notte, etiam che non fusse convinto di comertio carnale, essendo retento et giustificata la verità, gli sia tagliata la testa, sì che si separi dal busto et muora.49 Cosa che di fatto era stata applicata, che io sappia, un?unica volta e non a un patrizio.50 Per il resto, di solito il bando veniva revocato dopo poco: è quanto accadde all?altro Gussoni, Nicolò, fratello del summenzionato, il cui padre era stato per altro ambasciatore in Francia ed era uomo di grandi mezzi, per il quale venne fatta una supplica, accolta dallo stesso Consiglio dei Dieci il 25 maggio 1611.51 Naturalmente non tutti gli episodi di infrazione della stretta clausura erano così estremi e coinvolgevano scandali di natura sessuale volti, come si diceva, ad malum finem. Di solito si trattava di episodi che denotavano l?ancora elastica percezione della stretta clausura – a oltre cinquant?anni dalla sua introduzione – sia da parte delle monache sia da parte dei loro familiari, a fronte delle autorità sia laiche sia religiose che invece tentavano con ogni mezzo di implementarla. In occasione della Pentecoste del 1618, una comitiva passeggiava per la laguna in gondola: il patrizio Piero di Piero da Mosto con sua sorella Lucrezia, vedova in un Contarini, insieme alla loro “gastalda” con due figlie da marito in visita. Fu allora che (è Piero da Mosto che parla): Nel viazo incontrassimo una barca de pesse et comprai 10 0 12 scombri et de l?altro pesse, et così ragionando dove si haveria cusinando ste pesse 13 mia sorella disse: “Andemo da la nostra ameda a Sant?Anna”.52 Detto fatto, pregustando il banchetto, mandai un servitor in terra colla sessola piena de pesse a far reverentia a suor Cherubina da Ca? da Mosto, nostra ameda, et a pregarla che la mel facesse cusinar.53 Ma i visitatori preferivano non scendere a terra, essendo la sorella “in zoccoli bassi e senza capa”, e allora la zia mandò a dire di trovarsi “alla riva della caneva”, ossia nel limitrofo canale di Quintavalle, restando loro in gondola: le monache si sarebbero affacciata alla porta: Et cosi? andassimo, dove venne detta signora ameda e due mie [cugine] zermane, suor Nicolosa da Ca? Foscarini e suor Costantina da Ca? Zorzi, colle quali si ragionò. Sfortuna volle che passasse in quel momento proprio sulla riva opposta il capitano dei Provveditori sopra i Monasteri (ossia della magistratura laica, creata nel primo Cinquecento e preposta al governo delle monache)… Interrogato dai Provveditori sul fatto, Piero da Mosto rispose che “non sapeva non si potessero visitar, anzi credeva che mi fosse concesso, essendo sorella de mio padre”.54 La scusa era plausibile, ma in quel frangente specifico i Provveditori lavoravano solerti e in team con il Patriarca: in una manovra a tenaglia, lo stesso 22 14 giugno 1618 arrivò la reprimenda di quest?ultino anche alle monache di Sant?Anna: Alla diletta in Xsto la rev. madre abbadessa del monastero di Sant?Anna. Per ragionevoli et degni rispetti che movono l?animo nostro, vi commettiamo in virtù di santa obbedienza e sotto le pene infrascritte che non dobbiate permettere che altre monache vadino in caneva se non le perpetue canevare. Et che queste non debbano aprir la porta della detta caneva, se non occorrono di scaricar li vini del monastero. Né meno possano andar alla finestra di detta caneva sotto pena di scomunica. […] Et acciò che questo nostro ordine sia debitamente esequito, […] volemo che la madre badessa sempre sia tenuta publicarlo una volta al mese in reffettorio o in altro luogo publico del monastero, a chiara notizia di cadauna.55 Le pene comminate se l?ordine non fosse stato rispettato erano la scomunica, insieme alla privazione della carica per la badessa (colpevole di incapacità nel mantenere la disciplina), e la privazione della voce attiva e passiva e del parlatorio per un anno per le monache a lei sottoposte. Aleggiava su tanta severità, sproporzionata all?episodio in sé, la memoria dello scandalo del 1608 (in cui grande parte aveva avuto appunto la porta della “cantina” sul canale), che sopravviveva dentro e fuori il convento. Ma c?era dell?altro che anzi in quel momento tornava a essere scottante. A marzo era fuggita di nuovo dalle Convertite suor Maria Isabella Franceschi, la protagonista dello scandalo del 1608, e un biglietto anonimo, trovato proprio il 22 giugno nella “casella delle denontie”, la diceva libera e “per i fati soi, 15 senza che la giusticia ne fazi alcun moto” (e in effetti la fuggitiva non venne mai più ritrovata).56 Piero da Mosto, comunque, all?epoca scapolo e di 27 anni (si sarebbe sposato a 39), capiva benissimo che lo si sospettava di essere a sua volta un „monachino? e di utilizzare l?attempata zia settantenne suor Cherubina (non poi così intima se la sorella vedova era “per esser tre o quattro anni [che] non vi era più stata [a trovarla]”)57 come copertura per incontrarsi con una possibile innamorata, monaca giovane e non parente (non suor Nicolosa Foscarini, figlia di una sorella del nonno, Lucia di Francesco, e dunque, come detto da Piero, cugina per lui in secondo grado, che doveva avere a sua volta 53 anni, né suor Costantina Zorzi, la cui parentela esatta non sono riuscita a ricostruire, ma che doveva avere più o meno la stessa età).58 Sull?usare l?attempata zia come copertura, c?era almeno un precedente illustre che, per via dei legami famigliari, doveva essere ben noto anche a Piero da Mosto (e alle monache stesse, oltre che forse ai legislatori): Zorzi Zorzi del fu Zuane, uno dei “monachini” dello scandalo del 1608 e futuro ambasciatore in Francia, era due volte nipote proprio di suor Costantina Zorzi, essendo la di lui madre, Lucrezia di Zorzi di Costantino Zorzi (sposata – per l?estinguersi della sua linea – a Zuanne di Paolo Zorzi) e la di lui 16 altra zia materna, Elisabetta di Zorzi di Costantino (sposata a Giacomo di Paolo Zorzi, fratello dell?appena citato Zuanne di Paolo), entrambe sorelle carnali di suor Costantina…59 Per questo Piero, con accenti veementi, teneva a sottolineare il proprio buon nome e la propria buona fede: Non ci sarei andato in alcuna maniera et questa non è mia professione et quando si attrova alcuna cosa contro di me in proposito di monache, sì di questo come de qualsivoglia altro monasterio, mi castighino, Illustrissime Eccellenze, che mi contento; et anzi se vi è alcuno che aborrisca „sta cosa, son io uno de quelli […] et la conoscerà la mia innocentia et semplicità de „sto fatto.60 5. Alcune questioni più generali Dopo la stretta clausura imposta da Trento come legge universale a tutte le monache della cristianità, ivi comprese le terziarie,61 i monasteri femminili restarono permeabili alle famiglie e alla vita sociale locale, ma di fatto vennero sigillati. Magari si poteva contare sulla tolleranza dei singoli più illuminati (oltre che sulla lontananza da Roma, le tradizioni particolari ecc.). Proprio a Venezia il patriarca Giovanni Tiepolo lo teorizzò davanti al Senato nel 1629, spiegando apertis verbis di non voler infierire sulla disciplina per far in modo che le monacate senza vocazione potessero vivere “se non proprio consolate, per lo meno assai meno 17 discontente”.62 Localmente si poteva contare magari anche su specifiche congiunture: senz?altro si può ipotizzare che le monache veneziane – e la Tarabotti con loro - ebbero complessivamente maggiore libertà delle monache, poniamo, fiorentine o milanesi, nell?epoca che va dall?Interdetto (1606) fino allo scoppio della guerra di Candia (1645), nel periodo cioè in cui i rapporti fra la Serenissima e la Santa Sede furono più tesi. Al di là di ciò, tuttavia bisogna sottolineare con forza che la stretta clausura di fondo fu una misura carceraria e che venne vigorosamente fatta osservare, sia come clausura attiva (l?uscita dal convento) sia come clausura passiva (chi vi entrava, anche se di sesso femminile). E che la vera e propria ossessione su di essa, di cui partecipavano sia le autorità religiose sia quelle secolari, era mantenere il suo involucro inviolato, a rappresentare le monache non violate: su quel che poi succedeva all?interno, o almeno su quel che succedeva senza pubblico scandalo, si poteva anche lasciar perdere.63 Non sempre, va detto: il già citato patriarca Tiepolo, persona particolarmente illuminata, il 12 ottobre 1620 intervenne presso tutti i monasteri femminili di Venezia “sotto pena di peccato mortale e di escomunica maggiore dalla quale non possino esseregià