È ricamo'”ultima morte»«morte». C’蔓Tetragrammexstasyx Avatarx della morte»C’è là [È al di là gravity]. È infinitesimaleventy È sé. È al di là[C’è» [È MetEtRexstasystryngluony[È nulla in sé dà decaduti»; gli angeli, infatti, sono realmente «decaduti” quando sono considerati in questa maniera, poiché proprio dalla parteci­pazione al Principio essi ricevono tutto quello che costituisce il loro essere, tanto che, quando questa partecipazione è miscono­sciuta, non resta più che un aspetto puramente negativo, come una sorta d’ombra rovesciata in rapporto a quest’essere stesso [Si potrebbe dire, e poco importa se letteralmente o simbolicamente, che in tali condizioni colui che crede di invocare un angelo rischia di vedersi invece appa­rire dinanzi un demone]. Secondo la concezione ortodossa, un angelo, in quanto «inter­mediario celeste», non è altro in fondo che l’espressione di un attributo divino nell’ordine della manifestazione informale, poi­ché soltanto questo permette di stabilire, per mezzo di esso, una reale comunicazione fra lo stato umano e il Principio stesso, di cui l’angelo rappresenta così un aspetto più particolarmente ac­cessibile agli esseri che si trovano nello stato umano. Del resto lo dimostrano assai chiaramente i nomi stessi degli angeli, che sono sempre, di fatto, la designazione di certi attributi divini; qui soprattutto il nome corrisponde infatti pienamente alla na­tura dell’essere e si identifica veramente con la sua essenza. Fin­ché non si perde di vista questo significato, le «radici” non pos­sono dunque esser «tagliate». Si potrebbe dire, quindi, che un errore a tale proposito, che faccia cioè credere che il nome divino appartenga in proprio all’angelo come tale e in quanto essere «separato», diviene possibile solo quando l’intelligenza della lin­gua sacra viene a oscurarsi, e, se ci si rende conto di tutte le pos­sibili implicazioni di questa osservazione, si potrà capire come essa sia suscettibile di una portata molto più profonda di quanto non sembri forse a prima vista [Ricorderemo a questo proposito quanto abbiamo indicato sopra sulla corri­spondenza dei vari gradi della conoscenza con i sensi più o meno «interiori» delle Sacre Scritture; è ovvio che si tratta di qualcosa che non ha niente in comune con il sapere tutto esteriore che solo può fornire lo studio di una lingua pro­fana, e anche, aggiungeremo, quello di una lingua sacra con procedimenti pro­fani come quelli dei linguisti moderni]. Queste considerazioni danno anche tutto il suo valore all’interpretazione cabalistica di Malaki, «Il Mio angelo» o «Il Mio inviato» [È noto che il significato etimologico della parola «angelo» (in greco “aggelos”) è quello di «inviato» o di «messaggero», e che la corrispondente parola ebraica “maleak” ha anch’essa il medesimo significato] come «l’angelo nel quale è il Mio nome», cioè in definitiva nel quale è Dio stesso, almeno sotto un qualche suo aspetto «attributivo” [Cfr. Le Roi du Monde, p. 33. Dal punto di vista principiale, è l’angelo o piut­tosto l’attributo che esso rappresenta che è in Dio, ma il rapporto appare inver­tito riguardo alla manifestazione]. Questa interpretazio­ne si applica in primo luogo e per eccellenza a Metatron, l’«An­gelo della Faccia» [Il nome di Metatron è numericamente equivalente al nome divino Shaddai], o a Mikael (di cui Malaki è l’anagramma) in quanto, nel suo ruolo «solare», esso si identifica in certo modo a Metatron; ma è applicabile a ogni angelo, poiché ogni angelo è veramente, in rapporto alla manifestazione, e nel senso più rigo­roso della parola, il «portatore» di un nome divino, e anzi, visto dal lato della «Verità» (El‑Haqq), non è in realtà nient’altro che questo nome stesso. Tutta la differenza sta nel fatto che esiste una certa gerarchia che si può stabilire fra gli attributi divini, a seconda che essi procedano più o meno direttamente dall’Essenza, sicché si potrà ritenere che la loro manifestazione si situi a livelli diversi, e tale è in definitiva il fondamento delle gerarchie ange­liche; questi attributi o questi aspetti devono essere concepiti del resto in numero indefinito dal momento che sono considerati «distintamente” e a ciò corrisponde la stessa moltitudine degli angeli [Sia chiaro che qui si tratta di una moltitudine «trascendentale», e non di una indefinitezza numerica (cfr. Les Principes du calcul infinitésimal, cap. III); gli angeli non sono assolutamente «numerabili», perché non appartengono alla sfera d’esistenza che è condizionata dalla quantità]. Ci si potrebbe chiedere perché finora si sia parlato soltanto degli angeli, mentre in verità ogni essere, qualunque sia e a qua­lunque ordine di esistenza appartenga, dipende pure interamente dal Principio in tutto ciò che è, e tale dipendenza, che è nello stesso tempo una partecipazione, è, si potrebbe dire, la misura stessa della sua realtà; e per di più ogni essere ha anche in se stesso, e più precisamente nel suo «centro», almeno virtualmente, un principio divino senza il quale la sua esistenza non sarebbe nemmeno un’illusione, ma piuttosto un nulla puro e semplice. Ciò del resto corrisponde esattamente all’insegnamento cabali­stico secondo cui i «canali” attraverso i quali le influenze ema­nate dal Principio che si comunicano agli esseri manifestati non si fermano a un certo livello, ma si estendono progressivamente a tutti i gradi dell’Esistenza universale, e sino ai più bassi [Il simbolismo di questi «canali» che discendono gradualmente attraverso tut­ti gli stati, può aiutare a capire, se li si considera nel senso ascendente, come gli esseri situati a un livello superiore possano in genere svolgere la parte di «in­termediari» per coloro che sono situati a un livello inferiore, poiché la comuni­cazione con il Principio è possibile per questi ultimi solo passando per il loro ambito], sic­ché, per riprendere il precedente simbolismo, non potrebbe es­serci da nessuna parte un essere assimilabile a una «pianta senza radici». È ovvio tuttavia che la partecipazione di cui stiamo par­lando ha gradi diversi e che tali gradi corrispondono precisa­mente a quelli dell’Esistenza; essi perciò hanno una realtà tanto maggiore quanto più sono elevati, cioè vicini al Principio (per quanto non ci sia sicuramente alcuna misura comune fra un qualsiasi stato della manifestazione, fosse anche il più elevato di tutti, e lo stato principiale). Su questo punto, come del resto sotto ogni riguardo, è opportuno fare innanzitutto una distinzione fra il caso degli esseri situati nell’ambito della manifestazione infor­male o sopra‑individuale, cui si riferiscono gli stati angelici, e quello degli esseri situati nell’ambito della manifestazione for­male o individuale; e anche questo richiede una spiegazione precisa. Solo nell’ordine informale si può dire che un essere esprima o manifesti veramente, e nel modo più integrale possibile, un attributo del Principio; è la distinzione di tali attributi che in questo caso produce la distinzione stessa degli esseri, che può es­sere definita come «distinzione senza separazione» (“bhedabheda” nella terminologia indù) [Cfr. Le Règne de la quantité et les signes des temps, cap. IX], poiché è ovvio che, in definitiva, tutti gli attributi sono realmente «uno»; ed è anche la più piccola li­mitazione concepibile in uno stato che, essendo manifestato, è ancora per ciò stesso condizionato. D’altra parte, siccome la na­tura di ogni essere viene qui in certo qual modo interamente ri­condotta all’espressione di un attributo unico, è evidente che questo essere possiede così, in se stesso, un’unità di tutt’altro or­dine e ben altrimenti reale che l’unità assolutamente relativa, frammentaria e «composita» a un tempo, che appartiene agli esseri individuali in quanto tali; e, in fondo, proprio per via di questa riduzione della natura angelica a un attributo definito, senza alcuna «composizione” che non sia la mescolanza di atto e di potenza necessariamente inerente a ogni manifestazione [Si potrebbe dire che l’essere angelico è in atto in rapporto all’attributo che esprime, ma in potenza in rapporto a quello di tutti gli altri attributi], san Tommaso d’Aquino ha potuto considerare le differenze esistenti fra gli angeli paragonabili a differenze specifiche e non a diffe­renze individuali [Cfr. Le Règne de la quantité et les signes des temps, cap. XI]. Se ora si vuol trovare nell’ordine della mani­festazione formale una corrispondenza o un riflesso di quanto abbiamo appena detto, non bisognerà considerare gli esseri indi­viduali presi singolarmente (e ciò risulta con sufficiente chiarez­za dalla nostra ultima osservazione), ma piuttosto i «mondi” o gli stati d’esistenza, poiché ciascuno di essi, nel suo insieme e quasi “globalmente», è legato in special modo a un certo attributo di­vino di cui sarà, se è lecito esprimersi così, quasi la produzione particolare [Va da sé che tale modo di parlare è valido solo nella misura e dal punto di vista in cui gli attributi stessi possono essere considerati «distintamente» (e possono esserlo solo in rapporto alla manifestazione), e che l’indivisibile unità dell’Essenza divina, cui alla fine tutto ritorna, non potrebbe assolutamente esserne intaccata]; e questo si ricollega direttamente alla concezione degli angeli come «reggitori delle sfere” e alle considerazioni da noi già fatte a questo proposito nel nostro precedente studio sulla «catena dei mondi». 63‑ Il siMbolismo del ponte Anche se abbiamo già parlato del simbolismo del ponte in varie occasioni, aggiungeremo qualche altra considerazione, rela­tivamente a uno studio su questo argomento [The Perilous Bridge of Welfare, in “Harvard journal of Asiatic Studies”, agosto 1944] di Dona Luisa Coomaraswamy, studio nel quale ella insiste particolarmente su un punto che mostra lo stretto rapporto di tale simbolismo con la dottrina del “sutratma”. Si tratta del senso originario della pa­rola “setu”, che è il più antico tra i vari termini sanscriti che designano il ponte, e il solo che si trovi nel Rig‑Veda: questa pa­rola, derivata dalla radice “si», «attaccare», indica propriamente un «legame»; e infatti il ponte gettato su un fiume è proprio ciò che lega una riva all’altra; ma, a parte questa osservazione di ordine generale, è implicito in tale termine qualcosa di molto più preciso. Bisogna rappresentarsi il ponte come formato, origi­nariamente, da alcune funi, che ne costituiscono il più ortodosso modello naturale, o da una corda fissata nello stesso modo di quelle, per esempio ad alberi che crescono sulle due rive, le quali sembrano così effettivamente «attaccate” l’una all’altra da questa corda. Le due rive rappresentano simbolicamente due di­versi stati dell’essere ed è evidente che qui la corda equivale al «filo» che unisce tali stati fra di loro, cioè al «sutratma» stesso; il carattere di un simile legame, al tempo stesso sottile e resistente, è anche un’immagine adeguata della sua natura spirituale; e per questo il ponte, assimilato anche a un raggio di luce, è spesso tradizionalmente descritto sottile come il filo di una spada, o altrimenti, se è fatto di legno, appare formato da una sola trave o da un solo tronco d’albero [Ricordiamo in proposito il duplice senso della parola inglese “beam”, che desi­gna sia una trave sia un raggio luminoso, come abbiamo già fatto notare altro­ve (Maçons et Charpentiers, in «Etudes Traditionnelles», dicembre 1946)]. Questa sottigliezza mette pure in risalto il carattere «periglioso” della via di cui parliamo, che d’altronde è la sola possibile, ma che non tutti riescono a percorrere, anzi che pochissimi sono in grado di percorrere senza aiuto e con i propri mezzi soltanto [È un privilegio solo degli «eroi solari” nei miti e nei racconti in cui figura il passaggio del ponte], perché c’è sempre un certo pericolo nel passare da uno stato a un altro; ma questo si riferisce specialmente al duplice senso, «benefico” e «malefico», che pre­senta il ponte, alla stregua di tanti altri simboli, e sul quale torneremo fra poco. I due mondi rappresentati dalle due rive sono, nel senso più generale, il cielo e la terra, che erano uniti in principio e furono separati per il fatto stesso della manifestazione, il cui intero ambito è allora assimilato a un fiume o a un mare che si estende fra di essi [In ogni applicazione più ristretta dello stesso simbolismo, si tratterà sempre di due stati che, a un certo «livello di riferimento», saranno in un vicendevole rapporto corrispondente a quello fra il cielo e la terra]. Il ponte equivale quindi esattamente al pilastro assiale che lega il cielo e la terra pur mantenendoli separati; e proprio in virtù di questo significato esso deve essere concepito essenzial­mente come verticale [A tale riguardo, e in relazione con quanto si è appena detto, ricorderemo il «numero della corda” che è stato così spesso descritto, nel quale una corda lan­ciata in aria rimane o sembra rimanere verticale mentre un uomo o un ragaz­zo vi si arrampica sino a sparire alla vista; anche se si tratta solo, almeno di solito, di un fenomeno di suggestione, poco importa dal punto di vista in cui noi ci poniamo, e si tratta comunque, esattamente come la salita lungo un palo, di una figurazione estremamente significativa del nostro tema], al pari di tutti gli altri simboli dell’»Asse del Mondo», per esempio l’assale del «carro cosmico» quando le sue due ruote rappresentano ugualmente il cielo e la terra [La signora Coomaraswamy fa notare che, se ci sono casi in cui il ponte è descritto a forma di arco, il che lo identifica più o meno esplicitamente con l’arcobaleno, tali casi sono in realtà ben lungi dall’essere i più frequenti nel sim­bolismo tradizionale. Aggiungeremo che del resto ciò non si trova necessariamen­te in contraddizione con la concezione verticale del ponte, poiché, come abbiamo detto a proposito della «catena dei mondi», una linea curva di lunghezza inde­finita può essere assimilata, in ciascuna sua porzione, a una retta che sarà sempre “verticale» nel senso che sarà perpendicolare all’ambito di esistenza che attraversa; per di più, anche dove non ci sia identificazione fra il ponte e l’arcobaleno, quest’ultimo è nondimeno considerato, nel suo significato più generale, come un simbolo dell’unione fra cielo e terra]; que­sto stabilisce pure l’identità fondamentale del simbolismo del ponte con quello della scala, di cui abbiamo parlato in altra occasione [Le symbolisme de l’échelle (qui sopra, come cap. 54)]. Così, il passaggio del ponte non è in definitiva altro che il percorso dell’asse, che solo infatti unisce i vari stati fra di loro; la riva da cui parte è, di fatto, questo mondo, cioè lo stato in cui l’essere che lo deve percorrere si trova in quel momento, mentre la riva a cui giunge dopo avere attraversato gli altri stati della manifestazione è il mondo principiale; una delle due rive è la regione della morte, in cui tutto è sottoposto al cambiamento, e l’altra è quella dell’immortalità [È evidente che nel simbolismo generale del passaggio delle acque che deve condurre «dalla morte all’immortalità» la traversata per mezzo di un ponte o di un guado corrisponde solo al caso in cui il passaggio viene effettuato andando da una riva all’altra, con l’esclusione di quelli in cui è descritto come la risalita di una corrente verso la sorgente, oppure come la sua discesa verso il mare, e nei quali il viaggio deve necessariamente compiersi con altri mezzi, per esempio in conformità al simbolismo della navigazione, che d’altronde è applicabile a tutti i casi (si veda Le Passage des eaux (qui sopra, come cap. 56))]. Ricordavamo poco fa che l’asse lega e separa a un tempo il cielo e la terra; parimenti, se il ponte è realmente la via che unisce le due rive e permette di passare dall’una all’altra, può comunque costituire anche, in un certo senso, un ostacolo posto fra di esse, e questo ci riconduce al suo carattere «periglioso». La cosa è d’altronde implicita anche nel significato della parola “setu”, che è un legame nella duplice accezione in cui lo si può intendere: da una parte, ciò che unisce due cose fra di loro, ma anche, dall’altra, un impaccio nel quale un essere si trova preso; una corda può servire ugualmente a due fini, e anche il ponte apparirà sotto l’uno o l’altro aspetto, cioè sarà in definitiva «be­nefico» o «malefico», a seconda che l’essere riesca o meno a su­perarlo. Si può osservare che il duplice significato simbolico del ponte risulta anche dal fatto che questo può essere percorso nelle due direzioni opposte, mentre dev’esserlo tuttavia soltanto in una, quella che va da «questa riva» verso «l’altra», poiché ogni ritor­no sui propri passi costituisce un pericolo da evitare [Donde le allusioni che assai di frequente si trovano nei miti e nelle leggende di qualsiasi provenienza al pericolo di voltarsi durante il cammino e di «guarda­re indietro»], salvo nel­l’unico caso dell’essere che, già liberato dall’esistenza condizio­nata, può ormai «muoversi a suo piacere” attraverso tutti i mondi. e per il quale del resto tale ritorno non è altro che un’apparenza puramente illusoria. In tutti gli altri casi, la parte del ponte già percorsa deve normalmente essere «perduta di vista» e divenire come se non esistesse più, allo stesso modo in cui la scala simbo­lica è sempre considerata con la base nell’ambito in cui attualmente si trova l’essere che vi sale, e la sua parte inferiore scom­pare per lui a mano a mano che si effettua l’ascesa [Si verifica quasi un «riassorbimento» dell’asse da parte dell’essere che lo per­corre, come abbiamo già spiegato ne «La Grande Triade», cui rimanderemo anche per qualche altro punto a ciò connesso, in particolare per quel che concerne l’iden­tificazione di quest’essere con l’asse stesso, quale che sia il simbolo dal quale es­so è rappresentato, e di conseguenza anche con il ponte, il che fornisce il vero senso della funzione «pontificale», e a ciò assai chiaramente allude, in mezzo ad altre formule tradizionali, questa frase del Mabinogion celtico citato come epi­grafe dalla signora Coomaraswamy: «Colui che vuol essere Capo, deve essere il Ponte»]. Finché l’esse­re non e giunto al mondo principiale, da cui potrà in seguito ridi­scendere nella manifestazione senza esserne minimamente toc­cato, la realizzazione può compiersi in effetti solo nel senso ascen­dente; e, per colui che si attaccasse alla via per se stessa, pren­dendo così il mezzo per il fine, tale via diverrebbe veramente un ostacolo invece di condurlo effettivamente alla liberazione, il che implica una continua distruzione dei legami che lo uniscono agli stadi già percorsi, fino al momento in cui l’asse sia ridotto alla fine al punto unico che contiene tutto ed è il centro del­l’essere totale. 64‑ Il ponte e l’arcobaleno Abbiamo segnalato, a proposito del simbolismo del ponte e del suo significato essenzialmente «assiale», che l’assimilazione tra questo simbolismo e quello dell’arcobaleno non è così fre­quente come si pensa di solito. Vi sono sicuramente casi in cui tale assimilazione esiste, e uno dei più chiari è quello che si riscontra nella tradizione scandinava, in cui il ponte di “Byfrost” viene esplicitamente identificato con l’arcobaleno. Altrove, quan­do il ponte viene descritto ascendente in una parte del suo per­corso e declinante nell’altra, vale a dire a forma di arcata, sem­bra piuttosto che queste descrizioni siano state molto spesso in­fluenzate da un raffronto secondario con l’arcobaleno, senza che ciò implicasse una vera identificazione tra questi due simboli. Questo raffronto si spiega d’altronde facilmente per il fatto stes­so che l’arcobaleno è in genere ritenuto simboleggiare l’unione del cielo e della terra; fra il modo grazie al quale si stabilisce la comunicazione della terra con il cielo e il segno della loro unione vi è una connessione evidente, ma che non comporta di necessità una assimilazione o una identificazione. Aggiungeremo subito che questo stesso significato dell’arcobaleno, che si ritrova in una forma o in un’altra nella maggior parte delle tradizioni, risulta direttamente dalla sua stretta relazione con la pioggia, poiché quest’ultima, come abbiamo spiegato altrove, rappresenta la discesa delle influenze celesti nel mondo terrestre [Si veda La lumière et la pluie (qui sopra, come cap. 60); cfr. anche La Grande Triade, cap. XIV]. L’esempio più conosciuto in Occidente di questo significato tradizionale dell’arcobaleno è naturalmente il testo biblico in cui esso viene espresso con chiarezza [Genesi, IX, 12‑17]; vi è detto in particolare: «Io porrò il mio arco nelle nubi, e sarà come segno dell’alleanza fra me e la terra»; ma occorre notare che questo «segno del­l’alleanza» non vi è per nulla presentato come se dovesse per­mettere il passaggio da un mondo all’altro, passaggio al quale d’altra parte questo testo non fa la benché minima allusione. In altri casi, il medesimo significato si trova espresso in forme assai diverse: presso i Greci, ad esempio, l’arcobaleno era assi­milato al velo di Iride, o forse a Iride stessa in un’epoca in cui, nelle raffigurazioni simboliche, l’»antropomorfismo» non era sta­to ancora da essi spinto così in là come doveva accadere più tardi; qui, tale significato è implicato dal fatto che Iride era la «messaggera degli Dèi” e svolgeva di conseguenza il ruolo di in­termediaria fra il cielo e la terra; ma va da sé che tale rappresentazione è sotto ogni aspetto assai remota dal simbolismo del ponte. In fondo l’arcobaleno sembra in genere essere stato so­prattutto messo in relazione con le correnti cosmiche per mezzo delle quali si opera uno scambio di influenze tra il cielo e la terra, molto più che con l’asse secondo il quale si effettua la comuni­cazione diretta fra i diversi stati; e d’altra parte questo meglio si accorda con la sua forma curva [S’intende che una forma circolare, o semicircolare come quella dell’arcobaleno, può sempre essere considerata, da questo punto di vista, come la proiezione piana di una porzione d’elica]; infatti, per quanto, come ab­biamo fatto notare in precedenza, questa stessa forma non sia ne­cessariamente in contraddizione con un’idea di «verticalità», non è men vero che quest’idea non può certo essere suggerita da appa­renze immediate come lo è al contrario nel caso di tutti i simboli propriamente assiali. Bisogna riconoscere che il simbolismo dell’arcobaleno è in realtà molto complesso e presenta molteplici aspetti; ma, fra questi, forse uno dei più importanti, anche se a prima vista può sembrare abbastanza sorprendente, e in ogni caso quello che si ri­ferisce più manifestamente a ciò che abbiamo indicato per ultimo, è quello che lo assimila a un serpente e che si ritrova in tradi­zioni assai diverse. È stato notato che i caratteri cinesi che desi­gnano l’arcobaleno hanno il radicale «serpente», per quanto que­sta assimilazione non trovi altre espressioni formali nella tradi­zione estremo‑orientale, sicché vi si potrebbe vedere quasi un ricordo di qualcosa che risale probabilmente a molto addietro [Cfr. Arthur Waley, The Book of Songs, p. 328]. Sembrerebbe che questo simbolismo non sia rimasto del tutto sconosciuto agli stessi Greci, almeno nel periodo arcaico, poiché secondo Omero l’arcobaleno era rappresentato sulla corazza di Agamennone da tre serpenti azzurrini, «imitazione dell’arco di Iride, e segno memorabile agli umani che Zeus impresse nelle nubi» [Iliade, XI. Siamo spiacenti di non aver potuto trovare il riferimento in ma­niera più precisa, tanto più che la raffigurazione dell’arcobaleno per mezzo di tre serpenti sembra a prima vista abbastanza strana e meriterebbe probabilmente di essere esaminata più da vicino (L’indicazione completa è: Il. XI, 26‑28. N.d.T.)]. In ogni caso, in alcune regioni dell’Africa, e in partico­lare nel Dahomey, il «serpente celeste” viene assimilato all’arco­baleno, e al tempo stesso è considerato il signore delle pietre preziose e della ricchezza; può sembrare peraltro che si faccia qui una certa confusione tra due aspetti differenti del simbolismo del serpente, poiché, se il ruolo di signore o di custode dei tesori è abbastanza spesso attribuito effettivamente, fra altre entità de­scritte sotto varie forme, a serpenti o a draghi, questi hanno un carattere sotterraneo assai più che celeste; ma può anche darsi che esista fra questi due aspetti in apparenza opposti una cor­rispondenza paragonabile a quella esistente fra i pianeti e i me­talli [Cfr. Le Règne de la quantité et les signes des temps, cap. XXII]. Da un altro lato, è perlomeno curioso notare che in questa prospettiva il «serpente celeste” ha una somiglianza abbastanza sorprendente con il «serpente verde” del ben noto racconto sim­bolico di Goethe, il quale si trasforma in ponte, poi si fram­menta in gemme; se infatti lo consideriamo in rapporto con l’arcobaleno, ritroviamo in questo caso la sua identificazione con il ponte, il che sarebbe tutto sommato tanto meno sorprendente in quanto Goethe, su questo punto, può avere benissimo pensato più particolarmente alla tradizione scandinava. Bisogna dire del resto che il racconto in questione non è affatto chiaro, sia riguar­do alla provenienza dei vari elementi del simbolismo cui Goethe ha potuto ispirarsi, sia riguardo al suo stesso significato, e che tutte le interpretazioni che si è tentato di darne sono nell’insieme davvero poco soddisfacenti [C’è d’altronde spesso qualcosa di confuso e di nebuloso nel modo in cui Goethe si serve del simbolismo, e si può constatarlo anche nell’adattamento che egli ha fatto della leggenda di Faust; aggiungiamo che ci sarebbe più di una domanda da porsi sulle fonti alle quali ha potuto attingere più o meno diretta­mente, come sull’esatta natura dei collegamenti iniziatici che egli ha potuto ave­re al di fuori della massoneria]; non vogliamo insistervi ulteriormen­te ma ci è parso che poteva essere interessante mostrare occasio­nalmente l’accostamento un po’ inatteso al quale dà luogo [Non possiamo prendere in considerazione, per quanto riguarda l’assimilazione più o meno completa del serpente di Goethe all’arcobaleno, il colore verde che gli viene attribuito, per quanto taluni abbiano voluto fare del verde una sorta di sintesi dell’arcobaleno, poiché ne sarebbe il colore centrale; ma, in realtà, esso non vi occupa una posizione veramente centrale che a condizione di ammettere l’introduzione dell’indaco nella lista dei colori, e abbiamo in precedenza spiegato le ragioni per cui questa introduzione è in realtà insignificante e sprovvista di ogni valore dal punto di vista simbolico (si veda Les sept rayons et l’arc‑en-­ciel (qui sopra, come cap. 57)). A questo proposito, faremo notare che l’asse corri­sponde propriamente al «settimo raggio», e di conseguenza al colore bianco, men­tre la differenziazione stessa dei colori dell’arcobaleno indica una certa esteriorità in rapporto a questo raggio assiale]. Si sa che uno dei principali significati simbolici del serpente si ri­chiama alle correnti cosmiche alle quali facevamo allusione so­pra, correnti che, in definitiva, non sono altro che l’effetto e quasi l’espressione delle azioni e reazioni delle forze emanate rispetti­vamente dal cielo e dalla terra [Si veda «La Grande Triade», cap. V]. È questo che fornisce la sola spie­gazione plausibile dell’assimilazione dell’arcobaleno al serpente, e tale spiegazione si accorda in modo perfetto con il carattere per altro riconosciuto all’arcobaleno di essere segno dell’unione del cielo e della terra, unione che in effetti è in certo modo mani­festata da queste correnti, le quali senza di essa non potrebbero prodursi. Bisogna aggiungere che il serpente, quando possiede questo significato, è il più delle volte associato a simboli assiali come l’albero o il bastone, cosa che non è difficile a spiegarsi, dal momento che è appunto la direzione dell’asse a determinare quel­la delle correnti cosmiche, senza tuttavia che questa si confonda in alcun modo con quella, esattamente come, per riprendere qui il simbolismo corrispondente nella sua più rigorosa forma geo­metrica, un’elica tracciata su un cilindro non si confonde con l’asse stesso di questo cilindro. Fra il simbolo dell’arcobaleno e quello del ponte, una connessione simile sarebbe insomma da considerarsi come la più normale; ma, in seguito, questa con­nessione ha condotto in alcuni casi a una sorta di fusione dei due simboli, che sarebbe interamente giustificata solo se si conside­rasse nel contempo la dualità delle correnti cosmiche nel suo risolversi nell’unità di una corrente assiale. Occorre tuttavia te­ner conto anche del fatto che le raffigurazioni del ponte sono diverse a seconda che esso venga o no assimilato all’arcobaleno, e, a tale riguardo, ci si potrebbe chiedere se non vi sia tra il ponte rettilineo [Ricorderemo che questa forma rettilinea, e naturalmente verticale, è quella che corrisponde particolarmente al senso preciso dell’espressione “eç‑çiratul‑mu­staqim” nella tradizione islamica (cfr. «Le Symbolisme de la Croix», cap. XXV)] e il ponte ad arco, almeno teoricamente, una diffe­renza di significato corrispondente in qualche maniera a quella che esiste, come abbiamo indicato altrove, fra la scala verticale e quella a spirale [Si veda Le symbolisme de l’échelle (qui sopra, come cap. 54)], differenza che è quella tra la via «assiale” che riconduce direttamente l’essere allo stato principiale e la via piut­tosto «periferica» che implica il passaggio distinto attraverso una serie di stati gerarchizzati, per quanto, in un caso come nell’altro, lo scopo finale sia necessariamente lo stesso [L’impiego iniziatico della scala a spirale si spiega con l’identificazione dei gra­di d’iniziazione con altrettanti stati differenti dell’essere; si può citare come esem­pio, nel simbolismo massonico, la scala a chiocciola (winding stairs) di 15 gradini, ripartiti in 3 + 5 + 7, che conduce alla «Camera del Mezzo». Nell’altro caso, gli stessi stati gerarchizzati sono rappresentati ugualmente dai gradini, ma la di­sposizione e la forma stessa di questi indicano che non ci si può fermare e che essi non sono che il mezzo di un’ascensione continua, mentre è sempre possibile restare più o meno a lungo sui gradini di una scala, o almeno sui «pianerottoli” che esistono tra le differenti serie nelle quali sono divisi]. 65‑ La catena d’unione Tra i simboli massonici che sembrano essere il più delle volte piuttosto mal compresi ai giorni nostri si trova quello della «ca­tena d’unione» [Nel “compagnonnage” si dice «catena di alleanza»], che circonda la Loggia nella sua parte supe­riore. Taluni vogliono vedervi la cordicella di cui si servivano i massoni operativi per tracciare e delimitare il contorno di un edificio; hanno sicuramente ragione, ma non basta, e bisogne­rebbe almeno chiedersi qual era il valore simbolico di quella cordicella [Questo simbolo porta anche un’altra denominazione, quella di «fiocco dentel­lato», che sembra designare piuttosto l’orlo di un baldacchino; ora, è noto che il baldacchino è un simbolo del cielo (ad esempio il baldacchino del carro nella tradizione estremo‑orientale); ma, come si vedrà, non c’è in questo nessuna reale contraddizione]. Si potrebbe anche trovare anormale la posizione asse­gnata a un «arnese» che serviva a effettuare un tracciato sul suolo, e anche questo non può non richiedere qualche spiegazione. Per un’esatta comprensione dell’argomento bisogna anzitutto ricordarsi che, dal punto di vista tradizionale, qualsiasi edificio era sempre costruito secondo un modello cosmico; d’altronde è espressamente specificato che la Loggia è un’immagine del Co­smo, e probabilmente è questo l’ultimo ricordo di tale principio che sia sopravvissuto sino al giorno d’oggi nel mondo occiden­tale. Stando così le cose, l’ubicazione di un edificio doveva essere determinata e «incorniciata» da qualcosa che in certo modo cor­rispondesse a quella che si potrebbe chiamare la «cornice” stessa del Cosmo. Vedremo fra poco di che cosa si tratti, ma possiamo dire subito che il tracciato «materializzato” dalla cordicella ne rappresentava propriamente parlando una proiezione terrestre. Del resto abbiamo già visto qualcosa di simile a proposito della pianta delle città fondate secondo le regole tradizionali [Si veda Le Zodiaque et les points cardinaux (qui sopra, come cap. 13)]; di fatto, questo caso e quello degli edifici presi isolatamente non differi­scono sostanzialmente a questo riguardo, poiché si tratta sempre dell’imitazione di un medesimo modello cosmico. Quando l’edificio è costruito, anzi fin da quando incomincia a essere innalzato, la cordicella non ha evidentemente più alcuna funzione da svolgere; così la posizione della «catena d’unione” non si riferisce precisamente al tracciato che essa è servita a effet­tuare, ma piuttosto al suo prototipo cosmico. E il richiamarsi al prototipo cosmico ha sempre comunque la sua ragion d’essere nella determinazione del significato simbolico della Loggia e del­le sue varie parti. La cordicella stessa, sotto la forma di «catena d’unione», diventa allora il simbolo della «cornice» del Cosmo; e la sua posizione si comprende facilmente se, com’è effettiva­mente, tale «cornice» ha un carattere celeste e non più terrestre [Per questo l’assimilazione all’orlo di un baldacchino è anch’essa giustificata, mentre non lo sarebbe evidentemente per la proiezione terrestre di tale «cornice» celeste]; grazie a questa trasposizione, aggiungeremo, la terra non fa altro che restituire al cielo quello che gli aveva in un primo tempo preso in prestito. Il senso del simbolo è reso particolarmente chiaro dal fatto che, mentre la cordicella, in quanto “arnese», è naturalmente una semplice linea, la «catena d’unione» ha al contrario dei nodi posti a distanze regolari [Questi nodi sono detti «lacci d’amore»; il nome, come la loro particolare forma, conserva forse, in certo senso l’impronta del secolo XVIII, ma può anche darsi che vi si trovi un vestigio di qualcosa che risale a molto più addietro, e che potrebbe persino ricollegarsi abbastanza direttamente al simbolismo dei «Fedeli d’Amore»]; questi nodi sono o devono essere di norma dodici [Il «Quadro di Loggia», per altro inusitato di fatto, che figura all’inizio della “Maçonnerie occulte” di Ragon, è palesemente scorretto, sia per il numero dei nodi della «catena d’unione», sia per la posizione abbastanza strana e anzi inspiegabile che viene attribuita ai segni zodiacali], il che rende evidente la loro corrispondenza con i segni dello Zodiaco [Taluni pensano che questi dodici nodi implichino, almeno «idealmente», l’esistenza di un numero uguale di colonne, cioè dieci oltre alle due colonne dell’Occidente cui corrispondono le estremità della «catena d’unione». C’è da notare in proposito che una disposizione simile, benché in forma circolare, si tro­va in certi monumenti megalitici di cui è pure evidente il rapporto con lo Zodiaco]. Proprio lo Zodiaco infatti, all’interno del quale si muovono i pianeti, costituisce veramente l’»involucro» del Cosmo, cioè quella «cornice» di cui abbiamo parlato [A proposito della divisione zodiacale delle città, rimanderemo ancora allo stu­dio a cui ci siamo già riferiti sopra; conviene notare, in rapporto con quanto ci ri­mane qui da dire, che proprio questa divisione assegna i rispettivi posti ai vari elementi che, una volta riuniti, costituiscono la città. Si trova un altro esem­pio di «involucro» zodiacale nel simbolismo estremo‑orientale del Ming‑tang, con le sue dodici aperture, che abbiamo spiegato altrove («La Grande Triade», cap. XVI)], ed è ovvio che si tratta realmente, come abbiamo detto, di una «cor­nice» celeste. Ma c’è ancora altro da dire, e non meno importante: cioè che una «cornice» ha tra le sue funzioni, e forse anche come funzione principale, quella di mantenere al loro posto i vari elementi che contiene o racchiude al suo interno, in modo da formare un tutto ordinato, il che è poi anche, come è noto, il significato etimolo­gico della parola «Cosmo» [Si può dire che il nostro mondo è «ordinato» dall’insieme delle determinazio­ni temporali e spaziali che sono legate allo Zodiaco, da una parte per il rappor­to diretto di quest’ultimo con il ciclo annuale e, dall’altra, per la sua corrispon­denza con le direzioni dello spazio (ovviamente quest’ultimo punto è in stretta relazione anche con il problema dell’orientazione tradizionale degli edifici)]. Essa deve in qualche maniera «legare «o «unire” questi elementi fra di loro, cosa del resto espres­sa formalmente dalla designazione «catena d’unione», e pro­prio da ciò risulta anche, per quanto concerne quest’ultima, il suo significato più profondo, poiché, come tutti i simboli che si presentano sotto forma di catena, di corda o di filo, esso si rife­risce in definitiva al «sutratma». Ci limiteremo a richiamare l’at­tenzione su questo punto senza entrare per questa volta in più ampie spiegazioni, perché dovremo presto ritornarvi, essendo tale carattere ancora più evidente nel caso di certe altre «cornici” simboliche che ora esamineremo. 66 – Cornici e labirinti A.K. Coomaraswamy ha studiato [The Iconography of Durer’s «Knots» and Leonardo’s «Concatenation” in “The Art Quarterly», primavera 1944] il significato simbolico di certi «nodi” che si trovano nelle incisioni di Albrecht Durer: tali «nodi” sono dei grovigli assai complicati formati dal trac­ciato di una linea continua, il tutto disposto in una figura cir­colare; in parecchi casi il nome di Durer è iscritto nella parte centrale. Questi «nodi” sono stati accostati a una figura simile generalmente attribuita a Leonardo da Vinci, al centro della quale si leggono le parole “Academia Leonardi Vinci”; taluni han­no voluto vedere in quest’ultima la «firma collettiva» di un'”Accademia” esoterica come ne esistevano molte in Italia a quell’epo­ca, e certo non senza ragione. Infatti, questi disegni sono stati talvolta chiamati «dedali» o «labirinti», e, come fa osservare Coomaraswamy, malgrado la differenza delle forme che in parte può essere dovuta a ragioni di ordine tecnico, essi hanno effet­tivamente uno stretto rapporto con i labirinti, e in particolar modo con quelli che erano tracciati sul pavimento di certe chie­se del Medioevo; ora, si pensa che anche questi costituiscano una «firma collettiva» delle corporazioni dei costruttori. In quanto simboleggiano il legame che unisce tra loro i membri di un’or­ganizzazione iniziatica o almeno esoterica, questi tracciati offro­no evidentemente una sorprendente somiglianza con la «catena d’unione» massonica; e, se si rammentano i nodi di quest’ul­tima, anche il nome di «nodi» (Knoten) dato a tali disegni, a quanto sembra dal Durer stesso, è assai significativo. Per questa ragione, come per un’altra sulla quale torneremo in seguito, è anche importante notare che si tratta di linee che non presen­tano alcuna soluzione di continuità [Ci si potrà ricordare qui del “Pentalpha” che, come segno di riconoscimento dei pitagorici, doveva essere tracciato in modo continuo]; i labirinti delle chiese po­tevano anch’essi venire percorsi da un capo all’altro senza incon­trarvi in alcun punto interruzioni che costringessero a fermarsi o a tornare sui propri passi, di modo che in realtà costituivano semplicemente una strada molto lunga che bisognava percorrere tutta prima di giungere al centro [Cfr. W.R. Lethaby, Architecture, Mysticism and Myth, cap. VII. Questo autore, che era egli stesso architetto, ha riunito nel suo libro un gran numero di interes­santi informazioni riguardo al simbolismo architettonico, ma sfortunatamente non è stato in grado di coglierne il vero significato]. In certi casi, come ad Amiens, il «capomastro” stesso si è fatto rappresentare nella parte centra­le, così come Leonardo e Durer vi hanno iscritto i loro nomi; con ciò, essi si situavano simbolicamente in una «Terra Santa» [è noto che i labirinti in questione siano comunemente chiamati «via di Ge­rusalemme», e che il loro percorso sia considerato sostitutivo del pellegrinaggio in Terrasanta; a Saint‑Omer, il centro conteneva una rappresentazione del Tempio di Gerusalemme], cioè in un luogo riservato agli «eletti», come abbiamo spiegato altro­ve [Si veda La Caverne et le Labyrinthe (qui sopra, come cap. 29)], o in un centro spirituale che era, in ogni caso, un’immagine o un riflesso del vero «Centro del Mondo», così come nella tra­dizione estremo‑orientale l’Imperatore si situava sempre nel luo­go centrale [Si veda «La Grande Triade», cap. XVI. Si potrebbe ricordare, a proposito di questo accostamento, il titolo di “Imperator” dato al capo di certe organizzazioni rosacrociane]. Questo ci conduce direttamente a considerazioni di un altro ordine, che si riferiscono a un senso più «interiore” e più pro­fondo di tale simbolismo: siccome l’essere che percorre il labi­rinto o qualsiasi altra raffigurazione equivalente riesce alla fine a trovare in questo modo il «luogo centrale», cioè, dal punto di vista della realizzazione iniziatica, il proprio centro [Si può naturalmente trattare, secondo i casi, o del centro di uno stato parti­colare d’esistenza, oppure di quello dell’essere totale, il primo dei quali corrispon­de al termine dei «piccoli misteri» e il secondo a quello dei «grandi misteri»], il per­corso stesso con tutte le sue complicazioni è evidentemente una rappresentazione della molteplicità degli stati o delle modalità dell’esistenza manifestata [Diciamo «modalità” per il caso in cui si considera soltanto l’insieme di un uni­co stato di manifestazione, com’è necessariamente per quanto concerne i «piccoli misteri»], attraverso la serie indefinita dei qua­li l’essere ha dovuto «errare» prima di potersi stabilire in que­sto centro. La linea continua è allora l’immagine del «sutratma» che lega tutti gli stati fra di loro, e d’altronde, nel caso del «filo di Arianna» relativo al percorso del labirinto, quest’immagine si presenta con una tale chiarezza che ci si stupisce che sia pos­sibile non accorgersene [È anche importante notare, sotto lo stesso profilo, che i disegni di Durer e di Leonardo hanno una palese somiglianza con gli «arabeschi», come ha segnalato Coomaraswamy; le ultime vestigia di tracciati di questo genere nel mondo occi­dentale si trovano nei paraffi e altri ornamenti complicati, sempre formati da una sola linea continua, che rimasero cari ai calligrafi e agli altri maestri di scrittura fin verso la metà del secolo XIX, per quanto allora questi non ne comprendessero probabilmente più il simbolismo]; qui trova la sua giustificazione l’osserva­zione con cui abbiamo terminato il nostro studio precedente sul simbolismo della «catena d’unione». D’altra parte, abbiamo insistito in special modo sul carattere di «cornice” che quest’ul­tima presenta; ora, basta guardare le figure di Durer e di Leo­nardo per rendersi conto che anch’esse formano delle vere «cor­nici» intorno alla parte centrale, e questa è un’ulteriore somi­glianza fra i due simboli. Vi sono altri casi in cui ritroveremo nuovamente il medesimo carattere, in un modo che mette una volta di più in risalto la perfetta concordanza delle diverse tradizioni. In un libro di cui abbiamo già parlato altrove [Cumaean Gates; si veda in proposito il nostro studio su La Caverne et le La­byrinthe], Jackson Knight ha segnalato che erano stati trovati in Grecia, presso Corinto, due modellini d’argilla di case risalenti all’epoca arcaica detta «età geometrica» [La riproduzione di questi due modelli si trova a p. 67 del libro citato]; sui muri esterni si vedono dei meandri che circondano la casa il cui tracciato sembra in certo modo aver costituito un «sostituto” del labirinto. Nella misura in cui que­st’ultimo rappresentava una difesa, sia contro i nemici umani, sia soprattutto contro le influenze psichiche ostili, si può anche pensare che questi meandri abbiano un valore protettivo, e anzi doppiamente, impedendo non soltanto alle influenze malefiche di penetrare nella dimora, ma anche alle influenze benefiche di uscirne e di disperdersi al di fuori. Può benissimo darsi che in certe epoche non si sia visto altro in essi; ma non bisogna dimen­ticare che la riduzione dei simboli a un uso più o meno «magico» corrisponde già a uno stato di degenerazione dal punto di vista tradizionale, nel quale il loro senso profondo è stato ormai di­menticato [Naturalmente, questo senso profondo non esclude un’applicazione «magica» né qualsiasi altra applicazione legittima, ma la degenerazione consiste nel fat­to che il principio è stato perso di vista e che se ne considera ormai esclusiva­mente una semplice applicazione isolata e di ordine inferiore]. All’origine quindi c’è stato di sicuro qualcos’altro, ed è facile capire di cosa si tratti in realtà se si rammenta che ogni edificio è costruito tradizionalmente secondo un modello cosmico; finché non vi fu alcuna distinzione fra «sacro» e «pro­fano», cioè finché non ebbe origine il modo di vedere profano per effetto di un indebolimento della tradizione, fu sempre e do­vunque così anche per le case private. La casa era allora un’imma­gine del Cosmo, cioè quasi un «piccolo mondo» chiuso e com­pleto in se stesso; e se si osserva che essa è «incorniciata” dal meandro esattamente allo stesso modo in cui la Loggia, il cui significato cosmico non è andato perduto, è «incorniciata» dalla «catena d’unione», l’identità dei due simboli appare del tutto evidente: in entrambi i casi, non si tratta in definitiva d’altro che di una rappresentazione della «cornice” stessa del Cosmo. Un altro esempio notevole dal punto di vista del simbolismo della «cornice” ci è fornito da certi caratteri cinesi, riferiti in origine a riti di fissazione o di stabilizzazione [Questi riti corrispondono evidentemente a un caso particolare di ciò che vie­ne designato nel linguaggio ermetico come «coagulazione» (si veda «La Grande Triade», cap. VI)] che consistevano nel tracciare dei cerchi concentrici o una spirale intorno agli oggetti; il carattere “heng”, che designa tale rito, era formato nel­l’antica scrittura da una spirale o da due cerchi concentrici fra due linee rette. In tutto il mondo antico, le nuove fondazioni, che si trattasse di campi, di città o di villaggi, erano «stabiliz­zate» tracciando spirali o cerchi intorno a esse [A. Waley, The Book of Changes, nel “Bulletin of the Museum of Far Eastern Antiquities”, n.5, Stockholm, 1934], e aggiungeremo che anche qui si può vedere la reale identità delle «cornici” e dei labirinti. A proposito del carattere “chich”, che i commentatori recenti rendono semplicemente con «grande», l’autore appena citato dice che esso denota la magia che assicura l’integrità degli spazi «incorniciandoli» con segni protettori; tale è lo scopo dei disegni su margini nelle antiche opere d’arte. Un “chich fu” è una benedizione che è stata direttamente o simbolicamente «incor­niciata» in questa maniera; anche un flagello può essere «incor­niciato» per impedire che si diffonda. Anche in questo caso si tratta esplicitamente solo di “magia», o di ciò che si suppone sia tale; ma l’idea di «fissazione” o di «stabilizzazione” mostra abba­stanza chiaramente di che cosa in fondo si tratti: si tratta della funzione essenziale della «cornice», come abbiamo detto in pre­cedenza, di raccogliere e di mantenere al loro posto i diversi ele­menti che essa circonda. In Lao‑tseu ci sono del resto alcuni passi in cui figurano i caratteri in questione e che sono assai signifi­cativi al riguardo: «Quando si fa in modo di incorniciare (o circoscrivere, “ying”, carattere che evoca un’idea simile a quella di “heng”) i sette spiriti animali e di abbracciare l’Unità, si può essere chiusi, impenetrabili e incorruttibili» [Tao‑te‑king, cap. X, traduzione inedita di Jacques Lionnet]; e altrove: «Gra­zie a una conoscenza convenientemente incorniciata (chich), noi camminiamo senza difficoltà nella grande Via» [Ibidem, cap. LIII, stessa traduzione]. Nel primo bra­no, si tratta evidentemente di stabilire o di mantenere l’ordine normale dei diversi elementi costitutivi dell’essere al fine di uni­ficarlo; nel secondo, una «conoscenza bene incorniciata» è pro­priamente una conoscenza in cui ogni cosa è messa esattamente nel posto che le conviene. Del resto, il significato cosmico della “cornice” non è assolutamente scomparso neppure in questo ca­so; infatti, secondo tutte le concezioni tradizionali l’essere umano non è forse il «microcosmo”, e la conoscenza non deve anch’essa comprendere in certo modo la totalità del Cosmo? 67 – Il “quatre de chiffre” Fra gli antichi marchi corporativi ce n’è uno di carattere par­ticolarmente enigmatico: è quello cui si dà il nome di “quatre de chiffre”, perché ha infatti la forma della cifra 4, alla quale si ag­giungono spesso alcune linee supplementari, orizzontali o verti­cali, e che in genere si combina sia con vari altri simboli sia con lettere o monogrammi per formare un insieme complesso in cui occupa sempre la parte superiore. Questo segno era comune a un gran numero di corporazioni, se non a tutte, e non sappiamo perché uno scrittore occultista, che per giunta ne attribuisce del tutto gratuitamente l’origine ai Catari, abbia di recente preteso che esso appartenesse esclusivamente a una «società segreta» di tipografi e di librai; è esatto che esso si trova in molti marchi ti­pografici, ma non è meno frequente fra i tagliapietre, fra i pittori di vetrate, fra gli arazzieri, per citare solo alcuni esempi che ba­stano a mostrare come tale opinione sia insostenibile. È stato anche notato che alcuni privati o famiglie avevano fatto ripro­durre questo segno sulle loro case, sulle loro lapidi o sui loro blasoni; ma qui, in certi casi, nulla prova che non lo si debba attribuire all’opera di un tagliapietre piuttosto che al proprietario in persona, e, negli altri, si tratta certamente di personaggi uniti da qualche legame, talvolta ereditario, a determinate cor­porazioni [Altrove abbiamo accennato a legami del genere a proposito dei massoni «accet­tati» (Aperçus sur l’Initiation, cap. XXIX)]. Comunque sia, non c’è dubbio che il segno in que­stione ha carattere corpora