Florance’Omphalox È [“L'”Omphalos». L'”Omphalos» È opportuno notar bene che la spiegazione che ne proponiamo non è per nulla incompatibile con certe altre, come quella ac­colta da Le Cour, secondo la quale le tre cinte si riferirebbero ai tre cerchi dell’esistenza riconosciuti dalla tradizione celtica; questi tre cerchi, che si ritrovano sotto altra forma nel cristiane­simo, sono d’altronde la stessa cosa dei «tre mondi» della tradi­zione indù. In quest’ultima, d’altra parte, i cerchi celesti sono talvolta rappresentati come altrettante cinte concentriche circon­danti il Meru, cioè la Montagna sacra che simboleggia il «Polo» o l'”Asse del Mondo», ed è anche questa una notevolissima con­cordanza. Lungi dall’escludersi, le due spiegazioni si accordano perfettamente, e si potrebbe anche dire che in un certo senso coincidono, giacché, se si tratta d’iniziazione reale, i suoi gradi corrispondono ad altrettanti stati dell’essere, e sono questi stati che tutte le tradizioni descrivono come altrettanti mondi diversi, perché si deve tenere ben presente che la «localizzazione» ha soltanto carattere simbolico. Abbiamo già spiegato, a proposito di Dante,dell’esistenza universale, poiché, come dicevamo allora [Ibidem, cap. vi], in virtù dell’analogia costitutiva del Ma­crocosmo e del Microcosmo, il processo iniziatico riproduce ri­gorosamente il processo cosmogonico. Aggiungeremo che, in li­nea di massima, è proprio di ogni interpretazione veramente ini­ziatica di non essere mai esclusiva, ma, al contrario, di abbrac­ciare sinteticamente tutte le altre interpretazioni possibili; è per questa ragione inoltre che il simbolismo, con i suoi significati molteplici e sovrapposti, è il mezzo di espressione normale di ogni vero insegnamento iniziatico. Grazie a questa stessa spiegazione, il senso delle quattro linee disposte a forma di croce che collegano le tre cinte diventa immediatamente chiaro: sono dei canali, attraverso i quali l’inse­gnamento della dottrina tradizionale si comunica dall’alto in basso, a partire dal grado supremo che ne è il depositario, distri­buendosi gerarchicamente negli altri gradi. La parte centrale della figura corrisponde dunque alla «fonte d’insegnamento» di cui parlano Dante e i «Fedeli d’Amore» [Si veda il nostro articolo in «Le Voile d’Isis», febbraio 1929], e la disposizione cru­ciforme dei quattro canali che ne dipartono li identifica ai quat­tro fiumi del Pardes. A tale proposito, conviene osservare che tra le due forme cir­colare e quadrata della figura delle tre cinte c’è un’importante sfumatura da notare: esse si riferiscono rispettivamente al sim­bolismo del Paradiso terrestre e a quello della Gerusalemme celeste, secondo quanto abbiamo spiegato in una nostra opera [«Le Roi du Monde», cap. xi; sui rapporti fra il Paradiso terrestre e la Gerusa­lemme celeste, si veda anche «L’Esotérisme de Dante», cap. viii]. Infatti, vi è sempre analogia e corrispondenza tra l’inizio e la fine di qualunque ciclo, ma, alla fine, il cerchio è sostituito dal quadrato, e ciò indica la realizzazione di quella che gli ermetisti designavano simbolicamente come «quadratura del cerchio» [Questa quadratura non può essere ottenuta nel «divenire» o nel movimento stesso del ciclo, perché esprime la fissazione che risulta dal «passaggio al limite»; e, essendo ogni movimento ciclico propriamente indefinito, il limite non può esser raggiunto percorrendo successivamente e analiticamente tutti i punti corrispon­denti a ogni momento dello sviluppo della manifestazione]: la sfera, che rappresenta lo sviluppo delle possibilità mediante espansione del punto primordiale e centrale, si trasforma in un cubo quando questo sviluppo è completo ed è raggiunto l’equi­librio finale per il ciclo considerato [Sarebbe facile far qui un accostamento con il simbolo massonico della «pietra cubica», che ugualmente si riferisce all’idea di compimento e di perfezione, cioè alla realizzazione della pienezza delle possibilità implicate in un certo stato]. Applicando specificamente queste considerazioni alla questione che ora ci occupa, diremo che la forma circolare deve rappresentare il punto di partenza di una tradizione, ed è proprio questo il caso dell’Atlantide [Bisogna d’altronde precisare che la tradizione atlantidea non è tuttavia la tra­dizione primordiale per il presente Manvantara, e che essa è solo secondaria in rapporto alla tradizione iperborea; solo relativamente si può prenderla come punto di partenza, per quanto concerne un determinato periodo il quale costituisce soltanto una delle suddivisioni del Manvantara], e la forma quadrata il suo termine, che corrisponde alla costituzione di una forma tradizionale derivata. Nel primo caso, il centro della figura sarebbe allora la fonte della dottrina, mentre, nel secondo, ne sarebbe più propriamente il serbatoio, avendo qui l’autorità spirituale soprattutto una funzione di conservazione; ma, naturalmente, il simbolismo della «fonte d’insegnamento» si applica a entrambi i casi [L’altra figura che abbiamo riprodotto sopra (fig. 8) si presenta spesso anche sotto forma circolare: è allora una delle varietà più comuni della ruota, e questa ruota a otto raggi è per certi versi un equivalente del loto a otto petali, più proprio delle tradizioni orientali, così come la ruota a sei raggi equivale al giglio, che ha sei petali (si vedano i nostri articoli su “Le Chrisme et le Coeur dans les anciennes marques corporatives” e su “L’idée du Centre dans les traditions antiques”, in «Regnabit», novembre 1925 e maggio 1926 (quest’ultimo pubblicato sopra come cap. 8))]. Dal punto di vista del simbolismo numerico, bisogna ancora notare che l’insieme dei tre quadrati costituisce il duodenario. Disposti altrimenti (fig. 9), questi tre quadrati, ai quali s’aggiungono pure quattro linee in croce, costituiscono la figura nella quale gli antichi astrologi inscrivevano lo zodiaco [Le quattro linee in croce sono poste allora diagonalmente in rapporto ai due quadrati estremi, e lo spazio compreso fra di essi si trova diviso in dodici triangoli rettangoli uguali]; tale figura era considerata d’altronde quella della Gerusalemme celeste con le sue dodici porte, tre per ogni lato, e vi è in ciò un rapporto evidente con il significato che abbiamo appena indicato per la forma quadrata. Ci sarebbero senza dub­bio ancora molti altri accostamenti da esaminare, ma pensiamo che queste poche note, per quanto incomplete, contribuiranno già a portar qualche lume sulla misteriosa questione della tri­plice cinta druidica 11 – I Custodi della Terra santa Uno degli attributi più noti, ma in genere non dei meglio compresi, degli ord giacché, per i Cristiani come per gli Ebrei, sembra proprio che «Terra santa» non designi nient’altro che la Palestina. Tuttavia, il problema diventa più complesso quando ci si accorge che varie organizzazioni orientali, il cui carattere iniziatico è fuor di dubbio, come gli Assassini e i Drusi, si sono ugualmente fregiati del titolo di «custodi della Terra santa». In questo caso non può più trattarsi della Palestina; ed è notevole d’altronde che queste organizzazioni presentino un numero ab­bastanza grande di tratti comuni con gli ordini cavallereschi occidentali, e che addirittura alcune di esse siano state storica­mente in relazione con questi ultimi. Che cosa dunque bisogna intendere in realtà per «Terra santa», e a cosa corrisponde esat­tamente questo ruolo di «custodi» che sembra legato a un de­terminato genere d’iniziazione, che si può chiamare iniziazione “cavalleresca», dando a questo termine un’estensione maggiore di quanto non si faccia di solito, ma che le analogie esistenti fra le sue diverse forme basterebbero ampiamente a legittimare? Abbiamo già mostrato altrove, e in particolare nel nostro stu­dio sul “Roi du Monde”, che l’espressione «Terra santa» ha un certo numero di sinonimi: «Terra pura», «Terra dei Santi», «Terra dei Beati», «Terra dei Viventi», «Terra d’Immortalità», che queste designazioni equivalenti s’incontrano nelle tradizioni di tutti i popoli, e che esse si applicano essenzialmente sempre a un centro spirituale la cui localizzazione in una regione de­terminata può d’altronde, secondo i casi, venir intesa letteral­mente o simbolicamente, o in entrambi i sensi. Ogni «Terra santa» è designata ancora con espressioni come «Centro del Mon­do» o «Cuore del Mondo», e ciò richiede qualche spiegazione, perché queste designazioni uniformi, benché di diversa applica­zione, potrebbero facilmente generare confusioni. Se consideriamo per esempio la tradizione ebraica, vediamo che si parla, nel Sepher Ietsirah, del «Palazzo santo» o «Palazzo interiore», che è il vero «Centro del Mondo», nel senso cosmo­gonico di questo termine; e vediamo anche che tale «Palazzo santo» ha la sua immagine nel mondo umano nella residenza in un certo luogo della Shekinah, che è la «presenza reale» della Divinità [Si vedano i nostri articoli su “Le Cocur du Monde dans la Kabbale hébraique” e “La Terre sainte et le Coeur du Monde”, nella rivista «Regnabit», luglio‑agosto e settembre‑ottobre 1926]. Per il popolo d’Israele, la residenza della Shekinah era il Tabernacolo (Mishkan), che, per tale ragione, era considerato il «Cuore del Mondo», perché era effettivamente il centro spi­rituale della sua tradizione. Questo centro, d’altronde, all’inizio non fu assolutamente un luogo fisso; quando si tratta di un po­polo nomade, come in questo caso, il suo centro spirituale deve spostarsi con esso, rimanendo tuttavia lo stesso nel corso dello spostamento. «La residenza della Shekinah» dice Vulliaud «di­venne fissa soltanto il giorno in cui fu costruito il tempio, per il quale Davide aveva preparato l’oro, l’argento, e tutto quel ch’era necessario a Salomone per compiere l’opera [È opportuno notare che le espressioni qui usate evocano l’assimilazione frequentemente stabilita fra la costruzione del Tempio, considerata nel suo significato ideale, e la «Grande Opera» degli ermetisti]. Il Taber­nacolo della Santità '”Omphalos”egiziana, significa «terra nera», designazione di cui si ritrova l’equivalente anche presso altri popoli; da questa parola è venuta quella di “alchimia” (“al” non è che l’articolo in arabo), che designava originariamente la scienza ermetica, cioè la scienza sacerdotale dell’Egitto], e lo paragonano a un cuore» [Iside e Osiride, 33; traduzione francese di Mario Meunier, p. 116]. La ragione fornitane da quest’autore è abbastanza strana: «Questo paese è infatti caldo, umido, compreso nelle parti meridionali della terra abitata, estesa a Mezzogiorno, come nel corpo del­l’uomo il cuore si trova a sinistra», poiché «gli Egizi considera­no l’Oriente come il volto del mondo, il Nord come la sua destra e il Mezzogiorno la sinistra» [Ibidem, 32, p. 112. In India, è al contrario il Mezzogiorno a esser designato come il «lato destro» (dakshina); ma, malgrado le apparenze, in fondo è la stessa cosa, giacché bisogna intendere con ciò il lato che si ha alla propria destra quando ci si volge verso Oriente, ed è facile rappresentarsi il lato destro del mondo come quello che si estende alla destra di colui che lo contempla, e inversamente, come avviene per due persone poste l’una di fronte all’altra]. Si tratta solo di somiglianze piut­tosto superficiali, e la vera ragione dev’essere tutt’altra, giacché lo stesso paragone con il cuore è stato pure applicato a ogni terra alla quale veniva attribuito un carattere sacro e «centrale» in senso spirituale, qualunque fosse la sua posizione geografica. D’al­tronde, al dire di Plutarco stesso, il cuore, che rappresentava l’Egitto, rappresentava al tempo stesso il Cielo: «Gli Egizi» egli dice «raffigurano il cielo che non può invecchiare perché è eter­no, con un cuore posto su un braciere che ne alimenta l’ardore con la fiamma» [Iside e Osiride, 10, p. 49. Si osserverà che questo simbolo, con il significato che gli viene qui attribuito, sembra poter essere accostato a quello della fenice]. Così, mentre il cuore è esso stesso raffigurato da un vaso che non è altro se non quello designato nelle leggende medioevali come «Santo Graal», esso è a sua volta, e simulta­neamente, il geroglifico dell’Egitto e quello del Cielo. La conclusione da trarre da queste considerazioni, è che vi sono altrettante «Terre sante» particolari quante forme tradizionali regolari, poiché esse rappresentano i centri spirituali cor­rispondenti rispettivamente a queste diverse forme; ma, se lo stesso simbolismo si applica uniformemente a tutte le «Terre sante», la ragione è che tali centri spirituali hanno tutti una analoga costituzione, spesso fin nei minimi particolari, poiché sono altrettante immagini di un medesimo centro unico e supre­mo, che solo è il vero «Centro del Mondo», ma di cui assumono gli attributi partecipando alla sua natura mediante una comu­nicazione diretta, nella quale risiede l’ortodossia tradizionale, e rappresentandolo effettivamente, in modo più o meno esteriore, in tempi e luoghi determinati. In altri termini, esiste una «Terra santa» per eccellenza, prototipo di tutte le altre, centro spirituale a cui tutti gli altri sono subordinati, sede della tradizione pri­mordiale da cui tutte le tradizioni particolari sono derivate per adattamento a queste o quelle condizioni definite proprie a un popolo o a un’epoca. Questa «Terra santa» per eccellenza, è il «paese supremo», secondo il senso del termine sanscrito Para­desha, di cui i Caldei hanno fatto Pardes e gli Occidentali Para­diso; è infatti il «Paradiso terrestre», punto di partenza di ogni tradizione, che ha al suo centro la fonte unica da cui partono i quattro fiumi che scorrono verso i quattro punti cardinali [Questa fonte è identica alla «fonte d’insegnamento» alla quale abbiamo avuto occasione di alludere proprio qui diverse volte], e che è anche la «dimora d’immortalità», com’è facile rendersi conto riportandosi ai primi capitoli della Genesi [Per questo la «fonte d’insegnamento» è nello stesso tempo la «fontana della giovinezza» (fons juventutis), poiché chi vi beve è liberato dalla condizione tem­porale; essa è d’altronde situata ai piedi dell'”Albero della Vita» (si veda il nostro studio su “Le Langage secret de Dante et des «Fidèles d’Amour»” in «Le Voile d’Isis», febbraio 1929) e le sue acque si identificano evidentemente con “l’elisir di lunga vita» degli ermetisti (l’idea di «longevità» ha qui lo stesso significato che nelle tradizioni orientali) o con la «bevanda d’immortalità», di cui si parla ovunque sotto nomi diversi]. Non possiamo pensare di tornare qui su tutte le questioni concernenti il Centro supremo, da noi già trattate altrove più o meno compiutamente: la sua conservazione in modo più o meno nascosto a seconda dei periodi, dall’inizio alla fine del ciclo, cioè dal «Paradiso terrestre» fino alla «Gerusalemme celeste» che ne rappresentano le due fasi estreme; i molteplici nomi sotto i quali viene designato, come quelli di Tula, di Luz, di Salem, di Agart­tha; i diversi simboli che lo raffigurano, come la montagna, la caverna, l’isola e molti altri ancora, in immediato rapporto, per lo più, con il simbolismo del «Polo» o dell'”Asse del Mondo». A queste raffigurazioni possiamo aggiungere anche quelle che ne fanno una città, una roccaforte, un tempio o un palazzo, a seconda dell’aspetto sotto il quale più specialmente lo si consi­dera; ed è l’occasione di richiamare, assieme al Tempio di Salo­mone che si ricollega più direttamente al nostro argomento, la triplice cinta di cui abbiamo di recente parlato come di una rappresentazione della gerarchia iniziatica di certi centri tradi­zionali [Si veda il nostro articolo su “La triple enceinte druidique” (qui sopra, come cap. 10); vi abbiamo segnalato precisamente il rapporto di questa figura, sotto le due forme, circolare e quadrata, con il simbolismo del «Paradiso terrestre» e della «Gerusalemme celeste»], e anche il misterioso labirinto, che, in una forma più complessa, si ricollega a una concezione similare, con la diffe­renza che vi è messa in evidenza soprattutto l’idea di un «progredire» verso il centro nascosto [Il labirinto cretese era il palazzo di Minosse, nome identico a quello di Manu, che designa quindi il legislatore primordiale. D’altra parte, si può capire, da quel che diciamo qui, la ragione per cui il percorso del labirinto tracciato sul pavimento di certe chiese, nel Medioevo, era considerato sostitutivo del pellegrinaggio in Terrasanta per coloro che non potevano compierlo; bisogna ricordarsi che il pel­legrinaggio è precisamente una delle figure dell’iniziazione, di modo che il «pelle­grinaggio in Terrasanta» è, in senso esoterico, lo stesso che la «ricerca della Parola perduta» o la «cerca del Santo Graal»]. Dobbiamo aggiungere ora che il simbolismo della «Terra santa» ha un duplice senso: che sia riferito al Centro supremo o a un centro subordinato, esso rappresenta non solo questo centro stesso, ma anche, per un’associazione d’altronde affatto naturale, la tradizione che ne emana o che vi è conservata, vale a dire, nel primo caso, la tradizione primordiale, e, nel secondo, una determinata forma tradizionale particolare [Analogicamente, dal punto di vista cosmogonico, il «Centro del Mondo» è il punto originale da cui viene proferito il Verbo creatore, ed è anche il Verbo stesso.]. Questo duplice significato si ritrova similmente, e in modo nettissimo, nel simbolismo del «Santo Graal», che è a un tempo un vaso (grasale) e un libro (gradale o graduale); quest’ultimo aspetto designa manifestamente la tradizione, mentre l’altro concerne più diret­tamente lo stato corrispondente all’effettivo possesso di tale tra­dizione, cioè lo «stato edenico» se si tratta della tradizione pri­mordiale; e colui che è pervenuto a questo stato è, per ciò stesso, reintegrato nel Pardes, in modo che si può dire che la sua dimora è ormai nel «Centro del Mondo” [È importante ricordarsi, a questo proposito, che in tutte le tradizioni i luoghi simboleggiano essenzialmente degli stati. D’altra parte faremo notare che c’è un’evidente parentela fra il simbolismo del vaso o della coppa e quello della fon­tana di cui s’è parlato sopra; si è anche visto che, presso gli Egizi, il vaso era il geroglifico del cuore, centro vitale dell’essere. Ricordiamo infine quel che abbiamo già detto in altre occasioni a proposito del vino come sostituto del soma vedico e come simbolo della dottrina nascosta; in tutto ciò, sotto una forma o un’altra, si tratta sempre della «bevanda d’immortalità» e della restaurazione dello «stato Primordiale»]. Non senza motivi accostiamo questi due simbolismi, giacché la loro stretta somiglianza mostra che, quando si parla della “cavalleria del Santo Graal» o dei «custodi della Terra santa», si deve intendere con queste due espressioni esattamente la stessa cosa; ci resta da spiegare, nella misura del possibile, in cosa consista propriamente la funzione di tali «custodi», funzione che fu in particolare quella dei Templari [Saint‑Yves d’Alveydre, per designare i «custodi» del Centro supremo, usa l’espressione «Templari dell’Agarttha»; le considerazioni che esponiamo qui fa ranno vedere l’esattezza di tale termine, di cui egli stesso non aveva forse colto pienamente il significato]. Per capirlo bene, bisogna distinguere fra i detentori della tradizione, la cui funzione è di conservarla e di trasmetterla, e coloro che ne ricevono soltanto, in maggior o minor grado, una comunicazione e, potremmo dire, una partecipazione. I primi, depositari e dispensatori della dottrina, sono alla sor­gente, che è propriamente il centro stesso; di qui, la dottrina si comunica e si distribuisce gerarchicamente nei vari gradi inizia­tici, secondo le correnti rappresentate dai fiumi del Pardes, o, se si vuol riprendere la raffigurazione che abbiamo studiato qui recentemente, attraverso i canali che, andando dall’interno verso l’esterno, legano tra di loro le cinte successive corrispondenti a questi diversi gradi. Tutti coloro che partecipano alla tradizione non sono quindi giunti allo stesso grado e non svolgono la stessa funzione; biso­gnerebbe anche fare una distinzione tra queste due cose, che, per quanto generalmente si corrispondano in qualche modo, non sono tuttavia strettamente solidali, giacché può capitare che un uomo sia intellettualmente qualificato per raggiungere i gradi più elevati, ma non per questo adatto a svolgere tutte le funzioni nell’organizzazione iniziatica. Qui sono soltanto le funzioni che dobbiamo prendere in considerazione; e, da questo punto di vista, diremo che i «custodi» si tengono al limite del centro spi­rituale, preso nel senso più vasto, o all’ultima cinta, quella da cui il centro è nello stesso tempo separato dal «mondo esterno e messo in rapporto con esso. Di conseguenza, questi «custodi hanno una duplice funzione: da un lato, sono propriamente i difensori della «Terra santa», nel senso che impediscono l’acces­so a coloro che non possiedono le qualificazioni richieste per penetrarvi, e costituiscono quella che abbiamo chiamato la sua “copertura esterna», ossia la nascondono agli occhi profani; dal­l’altro, assicurano comunque anche certe relazioni regolari con l’esterno, come spiegheremo in seguito. È evidente che il ruolo di difensore è, per parlare il linguaggio della tradizione indù, una funzione da Kshatriya; e precisamente ogni iniziazione «cavalleresca» è essenzialmente atta alla natura propria degli uomini che appartengono alla casta guerriera, cioè agli Kshatriya. Da qui vengono i caratteri speciali di questa iniziazione, il particolare simbolismo di cui essa fa uso, e segna­tamente l’intervento di un elemento affettivo, designato in modo esplicito dal termine «Amore»; ci siamo già spiegati sufficiente­mente a tale proposito per non doverci soffermare ulteriormente [Si veda “Le Langage secret de Dante et des «Fidèles d’Amour»”, in «Le Voile d’Isis», febbraio 1929]. Ma, nel caso dei Templari c’è da fare un’ulteriore considerazio­ne: per quanto la loro iniziazione sia stata essenzialmente «ca­valleresca», come conveniva alla loro natura e alla loro funzione, essi avevano un duplice carattere, a un tempo militare e reli­gioso; e così doveva essere se erano, come abbiamo buone ragioni di pensare, fra i «custodi» del Centro supremo, ove l’autorità spirituale e il potere temporale sono riuniti nel loro principio comune, e che comunica il segno di tale riunione a tutto ciò che gli è direttamente collegato. Nel mondo occidentale, in cui lo spirituale assume la forma specificamente religiosa, i veri «custodi della Terra santa», finché ebbero un’esistenza in qual­che modo «ufficiale», dovevano essere cavalieri, ma dei cavalieri che fossero nello stesso tempo monaci; e in effetti proprio que­sto furono i Templari. Questo ci induce direttamente a parlare della seconda fun­zione dei «custodi» del Centro supremo, funzione che consiste, dicevamo or ora, nell’assicurare certe relazioni esterne, e soprat­tutto, aggiungeremo, nel mantenere i legami fra la tradizione primordiale e le tradizioni secondarie e derivate. Perché possa essere così, bisogna che ci siano, per ogni forma tradizionale, una o più organizzazioni costituite in questa forma, secondo tutte le apparenze, ma composte di uomini coscienti di ciò che è al di là di ogni forma, vale a dire dell’unica dottrina fonte ed essenza di tutte le altre, che altro non è se non la tradizione primordiale. Nel mondo della tradizione giudaico‑cristiana, era abbastanza naturale che una simile organizzazione dovesse prendere come simbolo il Tempio di Salomone; il quale, d’altra parte, per il fatto di avere da molto tempo cessato di esistere materialmente, poteva solo avere un significato ideale, come immagine del Centro supremo, al pari di ogni centro spirituale subordinato; e la stessa etimologia del nome di Gerusalemme indica abbastanza chiaramente che essa è solo un’immagine visibile della miste­riosa Salem di Melchisedec. Se tale fu il carattere dei Templari, per svolgere il compito loro assegnato che concerneva una deter­minata tradizione, vale a dire quella dell’Occidente, essi dovevano rimanere esteriormente legati alla forma di questa tradi­zione; ma, nello stesso tempo, la coscienza interiore della vera unità dottrinale doveva renderli capaci di comunicare con i rap­presentanti delle altre tradizioni [Ciò si riferisce a quel che è stato chiamato simbolicamente il «dono delle lingue»; su quest’argomento, rimanderemo al nostro articolo contenuto nel numero speciale dei «Voile d’Isis», dedicato ai Rosacroce]: è ciò che spiega le loro rela­zioni con certe organizzazioni orientali, e, naturalmente, con quelle che svolgevano altrove un ruolo simile al loro. D’altra parte, si può comprendere come, in queste condizioni, la distruzione dell’ordine del Tempio abbia comportato per l’Occidente la rottura delle relazioni regolari con il «Centro del Mondo»; ed è proprio al secolo XIV che bisogna far risalire la deviazione che doveva inevitabilmente risultare da questa rot­tura, e che è andata gradualmente accentuandosi fino alla nostra epoca. Non è comunque da dire che ogni legame sia stato spezzato di colpo; abbastanza a lungo, delle relazioni poterono essere man­tenute in una certa misura, ma solo di nascosto, per il tramite di organizzazioni come quella della «Fede Santa» o dei «Fedeli d’Amore», come la «Massenia del Santo Graal» e probabilmente molte altre ancora, tutte eredi dello spirito dell’ordine del Tem­pio, e per la maggior parte a esso collegate per filiazione più o meno diretta. Coloro che conservarono questo spirito vivente e ispirarono queste organizzazioni senza costituirsi da parte loro in alcun raggruppamento definito, furono quelli che vennero chiamati, con un nome essenzialmente simbolico, i Rosacroce; ma venne il giorno in cui gli stessi Rosacroce dovettero lasciare l’Occidente, le cui condizioni erano divenute tali che la loro azione non poteva più esservi esercitata, e si dice che si ritirassero allora in Asia, in qualche modo riassorbiti verso il Centro su­premo di cui erano quasi un’emanazione. Per il mondo occiden­tale, non c’è più una «Terra santa» da custodire, poiché il cammino che vi conduce è oggi ormai interamente smarrito; quanto tempo durerà ancora questa situazione, e bisogna poi sperare che la comunicazione possa presto o tardi essere ristabilita? È una domanda alla quale non spetta a noi dare una risposta; oltre al fatto che non vogliamo rischiare nessuna predizione, la solu­zione dipende soltanto dall’Occidente stesso, poiché solo ritor­nando a condizioni normali e ritrovando lo spirito della propria tradizione, se ne ha ancora in sé la possibilità, esso potrà vedere aprirsi di nuovo la via che conduce al «Centro del Mondo 12 – La Terra del Sole Fra le località, spesso difficili da identificare, che hanno una parte nella leggenda del Santo Graal, alcuni attribuiscono un’im­portanza tutta particolare a Glastonbury, che sarebbe il luogo in cui si stabilì Giuseppe d’Arimatea dopo il suo arrivo in Gran Bretagna, e in cui si son volute vedere molte altre cose ancora, come diremo in seguito. Senza dubbio, vi sono in ciò delle assi­milazioni contestabili, alcune delle quali sembrano implicare vere e proprie confusioni; ma può darsi comunque che, all’ori­gine di queste stesse confusioni, vi siano ragioni non prive di interesse dal punto di vista della «geografia sacra» e delle suc­cessive localizzazioni di alcuni centri tradizionali. Tenderebbero a indicarlo le singolari scoperte esposte in un’opera anonima pubblicata recentemente [“A Guide to Glastonbury’s Temple of the Stars, its giant effigies described from air views, maps, and from “The High History of the Holy Graal””, John M. Watkins, London], certi punti della quale meriterebbero forse qualche riserva, ad esempio per quel che concerne l’inter­pretazione dei nomi di luogo la cui origine, più verosimilmente, è abbastanza recente, ma la cui parte essenziale, corroborata da documenti, potrebbe difficilmente esser considerata puramente fantasiosa. Glastonbury e la regione circostante del Somerset avrebbero costituito, in un’epoca molto remota e che può esser detta “preistorica», un enorme «tempio stellare», determinato dal tracciato sul suolo di effigi gigantesche rappresentanti le costel­lazioni e disposte in una figura circolare che è come un’immagine della volta celeste proiettata sulla superficie della terra. Sarebbe insomma un complesso di lavori che richiamerebbe quelli degli antichi “mound‑builders” dell’America del Nord; la disposizione naturale dei fiumi e delle colline avrebbe d’altronde potuto sug­gerire questo tracciato, il che indicherebbe che l’ubicazione non fu scelta arbitrariamente, bensì in virtù di una certa «predeter­minazione»; non è men vero che, per completare e ultimare il disegno, ci fu bisogno di quella che l’autore chiama «un’arte fondata sui princìpi della Geometria” [Quest’espressione è visibilmente destinata a far intendere che la tradizione da cui quest’arte derivava si è perpetuata in quella che è divenuta in seguito la tradizione massonica]. Se queste figure hanno potuto conservarsi in modo da essere ancora riconoscibili oggi­giorno, ciò dipende dal fatto, si suppone, che i monaci di Gla­stonbury, fino all’epoca della Riforma, le conservarono con cura, e implica che essi dovevano aver custodito la conoscenza della tradizione ereditata dai loro lontani predecessori, i druidi, e senza dubbio da altri ancora prima di questi, poiché, se le dedu­zioni tratte dalla posizione delle costellazioni rappresentate sono esatte, l’origine di queste figure risalirebbe a circa tremila anni prima dell’era cristiana [Da vari indizi sembrerebbe anche che i Templari abbiano avuto parte in questa conservazione, il che sarebbe conforme alla loro presunta connessione con i «Cavalieri della Tavola rotonda» e al compito di «custodi del Graal» che viene loro attribuito. È da notare d’altronde che le sedi dei Templari sembra fossero situate frequentemente in prossimità di luoghi ove si trovano monumenti mega­litici o altre vestigia preistoriche, e forse bisogna vedere in questo più di una semplice coincidenza]. Nel suo complesso, la figura circolare in questione è un enorme Zodiaco, nel quale l’autore vuol vedere il prototipo della “Tavola rotonda»; e, di fatto, quest’ultima, intorno alla quale siedono dodici personaggi principali, è realmente legata a una rappre­sentazione del ciclo zodiacale. Questo non vuol dire però che tali personaggi siano soltanto le costellazioni, interpretazione troppo «naturalistica», poiché la verità è che le costellazioni stes­se sono dei simboli; e conviene pure ricordare che questa costi­tuzione «zodiacale» si ritrova assai generalmente nei centri spi­rituali corrispondenti a forme tradizionali diverse [Si veda «Le Roi du Monde», cap. v]. Così ci pare molto dubbio che tutte le storie concernenti i «Cavalieri della Tavola rotonda» e la «ricerca del Graal» possano essere solo una descrizione «drammatizzata», se così si può dire, delle effigi stel­lari di Glastonbury e della topografia del paese; ma che esse presentino una corrispondenza con queste è cosa tanto meno inverosimile in quanto del tutto conforme, in fondo, alle leggi generali del simbolismo; e non sarebbe neppure il caso di mera­vigliarsi che tale corrispondenza possa essere abbastanza precisa da esser verificata fin nei particolari secondari della leggenda, cosa che non ci proponiamo comunque di fare qui. Detto questo, è importante notare che lo Zodiaco di Glaston­bury presenta alcune particolarità che, dal nostro punto di vista, potrebbero esser ritenute segni della sua «autenticità»; e, anzi­tutto, sembra proprio che il segno della Bilancia ne sia assente. Ora, come abbiamo spiegato altrove [Ibidem, cap. x], la Bilancia celeste non fu sempre zodiacale, ma fu dapprima polare, essendo stato questo nome applicato originariamente sia all’Orsa Maggiore, sia all’in­sieme dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore, costellazioni al cui simbolismo si ricollega direttamente, per una notevole coin­cidenza, il nome di Arturo. Sarebbe il caso di ammettere che que­sta figura, al centro della quale il Polo è d’altronde contrasse­gnato da una testa di serpente che si riferisce manifestamente al “Drago celeste» [Cfr. il Sepher Ietsirah: «Il Drago è in mezzo al cielo come un re sul suo trono». La «Saggezza del Serpente», alla quale l’autore allude a questo proposito, potrebbe, in un certo senso, identificarsi con quella dei sette Rishi polari. È anche curioso notare che il drago, presso i Celti, è il simbolo del capo, e che Arturo è figlio di Uther Pendragon], debba essere riferita a un periodo anteriore al trasferimento della Bilancia nello Zodiaco; e, d’altra parte, cosa particolarmente importante da considerare, il simbolo della Bilancia polare è in relazione con il nome di “Tula” dato origina­riamente al centro iperboreo della tradizione primordiale, centro di cui il «tempio stellare» in questione fu senz’altro una delle immagini costituitesi, nella successione dei tempi, come sedi di poteri spirituali emanati o derivati più o meno direttamente da questa stessa tradizione [Ciò permette anche di comprendere certi rapporti notati dall’autore fra il simbolismo del Polo e quello del «Paradiso terrestre», in particolare per quanto riguarda la presenza dell’albero e del serpente; in tutto questo, si tratta infatti sempre della raffigurazione del centro primordiale, e i «tre punti del triangolo» sono pure in relazione con tale simbolismo]. In altra occasione [Si veda il nostro studio su “La Science des lettres” (qui sopra, come cap. 6)], abbiamo menzionato, in relazione alla de­signazione della lingua «adamitica» come «lingua siriaca», la Siria primitiva il cui nome significa propriamente «terra sola­re», e di cui Omero parla come di un’isola situata «al di là di Ogigia», ciò che permette di identificarla solo con la Thule o Tula iperborea; e «ivi sono le rivoluzioni del Sole», espressione enigmatica che può naturalmente riferirsi al carattere «circum­polare» di queste rivoluzioni, ma può anche, nello stesso tempo, alludere a un tracciato del ciclo zodiacale su questa terra, il che spiegherebbe come un tracciato simile sia stato riprodotto in una regione destinata a essere un’immagine di tale centro. Giun­giamo qui a spiegare le confusioni segnalate all’inizio del capi­tolo, poiché esse sono potute sorgere in modo pressoché normale dall’assimilazione dell’immagine al centro originale; e, in parti­colare, è assai difficile vedere più che un equivoco nell’identifi­cazione di Glastonbury con l’isola di Avalon [Si è anche voluto vedervi l'”isola di vetro» di cui si parla in alcune parti della leggenda del Graal; è probabile che, anche qui, si tratti di una confusione con qualche altro centro più nascosto, o, se si vuole, più lontano nello spazio e nel tempo, benché questa designazione indubbiamente non sì applichi al centro primordiale stesso]. Effettivamente, una simile identificazione è incompatibile col fatto che quest’isola è sempre considerata un luogo inaccessibile; e, d’altra parte, è an­che in contraddizione con l’opinione, molto più plausibile, che vede nella regione stessa del Somerset il «regno dei Logri», di cui è infatti detto che si trovava in Gran Bretagna; e può darsi che tale «regno dei Logri», che sarebbe stato considerato come territorio sacro, abbia tratto il suo nome da quello del Lug celtico, il quale evoca a un tempo l’idea del «Verbo» e quella del­la «Luce». In quanto al nome di Avalon, esso è visibilmente identico a quello di “Ablun” o “Belen”, cioè dell’Apollo celtico e iperboreo [Si sa che il Mont‑Saint‑Michel era anticamente chiamato “Tombelaine”, cioè il “Tumulus” o il monte di Belen (e non la «tomba di Elena» secondo un’interpre­tazione del tutto moderna e fantasiosa); la sostituzione del nome dell’arcangelo solare a quello di Belen non muta evidentemente per nulla il senso; e, fatto curioso, si trova anche Saint Michaels Hill nella regione corrispondente all’antico “regno dei Logri»], di modo che l’isola di Avalon è ancora un’altra desi­gnazione della «terra solare», che fu d’altronde trasportata sim­bolicamente dal Nord all’Ovest in una certa epoca, in corrispon­denza con uno dei principali mutamenti sopraggiunti nelle forme tradizionali nel corso del nostro Manvantara [Questo trasferimento, come quello del sapta‑riksha dall’Orsa. Maggiore alle Pleiadi, corrisponde in particolare a un cambiamento del punto di partenza dell’anno, dapprima solstiziale e poi equinoziale. Il significato di «pomo» attribuito al nome di Avalon, senza dubbio secondariamente, nelle lingue celtiche, non è per nulla in opposizione con quel che abbiamo appena detto, poiché si tratta allora dei pomi d’oro del «Giardino delle Esperidi», cioè dei frutti solari dell'”Albero del Mondo»]. Queste considerazioni ci conducono ad altre constatazioni forse ancor più strane: un’idea a prima vista apparentemente inespli­cabile è quella di riferire ai Fenici l’origine dello Zodiaco di Glastonbury; è vero che è invalsa l’abitudine di attribuire a questo popolo molte cose più o meno ipotetiche, ma la stessa affermazione della sua esistenza in un’epoca così remota ci pare ancor più contestabile. Soltanto, c’è da notare che i Fenici abitavano la Siria «storica»; il nome del popolo sarebbe stato oggetto dello stesso «trasferimento» di quello del paese? Lo farebbe se non altro supporre la sua connessione con il simbolismo della Fenice; infatti, secondo Giuseppe, la capitale della Siria primi­tiva era Eliopoli, la «Città del Sole», il cui nome fu più tardi dato alla città egiziana di On; e alla prima Eliopoli, non a quella d’Egitto, dovrebbe in realtà essere riferito il simbolismo ciclico della Fenice e delle sue resurrezioni. Ora, secondo Diodoro Si­culo, uno dei figli di Helios o del sole, chiamato Actis, fondò la città di Eliopoli; e si dà il caso che il nome Actis esista come toponimo nelle vicinanze di Glastonbury, e in condizioni che lo mettono precisamente in rapporto con la Fenice, nella quale, secondo altri accostamenti, il «principe di Eliopoli» stesso sa­rebbe stato trasformato. Naturalmente l’autore, ingannato dalle molteplici e successive applicazioni degli stessi nomi, crede si tratti qui della Eliopoli d’Egitto, come crede di poter parlare letteralmente dei Fenici «storici», cosa in fondo tanto più com­prensibile in quanto gli antichi, in epoca «classica», facevano già abbastanza spesso confusioni simili; unicamente la conoscenza della vera origine iperborea delle tradizioni, che egli non sembra sospettare, può permettere di ristabilire il senso reale di tutte queste designazioni. Nello Zodiaco di Glastonbury, il segno dell’Acquario è rap­presentato, in modo abbastanza imprevisto, da un uccello nel quale l’autore pensa a ragione di poter riconoscere la Fenice, e che porta un oggetto che non è altro se non la «coppa d’immor­talità», cioè il Graal stesso; e l’accostamento fatto a questo ri­guardo con il Garuda indù è certo giustissimo [Si veda il nostro studio su “La Langue des Oiseaux” (qui sopra, come cap. 7). Il segno dell’Acquario è di solito rappresentato da Ganimede, di cui si conosce la re­lazione con l'”ambrosia» da un lato, e dall’altro con l’aquila di Zeus, identica essa stessa a Garuda]. D’altra parte, secondo la tradizione araba, il Rukh o Fenice non si posa mai a terra in altro luogo che sulla montagna di Qàf, che è la «mon­tagna polare»; ed è da questa stessa «montagna polare», desi­gnata con altri nomi, che proviene, nelle tradizioni indù e per­siana, il soma, che s’identifica all’amrita o all'”ambrosia», bevan­da o cibo d’immortalità [Si veda «Le Roi du Monde», capp. v e vi]. C’è anche la figura di un altro uccello più difficile da inter­pretare esattamente, che occupa forse il posto del segno della Bilancia, ma la cui posizione è, in ogni caso, molto più vicina al Polo che allo Zodiaco, giacché una delle sue ali corrisponde addirittura alle stelle dell’Orsa Maggiore, il che, dopo quanto abbiamo detto, potrebbe in definitiva soltanto confermare questa supposizione. In quanto alla natura dell’uccello, vengono prese in considerazione due ipotesi: quella di una colomba, che po­trebbe in effetti aver qualche rapporto con il simbolismo del Graal, e quella di un’oca o, diremmo piuttosto, di un cigno che cova l'”Uovo del Mondo», cioè di un equivalente dello Hamsa indù; a dire il vero, quest’ultima ci pare decisamente preferibile, essendo il simbolo del cigno strettamente legato all’Apollo iper­boreo, e in particolare proprio sotto il profilo che abbiamo qui considerato, poiché i Greci facevano di “Kyknos” il figlio di Apollo e di “Hyria”, cioè del Sole e della «terra solare», poiché “Hyria” non è che un’altra forma di “Syria”, di modo che si tratta sempre dell'”isola sacra», e sarebbe abbastanza sorprendente se non s’incon­trasse il cigno nella sua rappresentazione [L’accostamento delle due figure di Hamsa e di Garuda è anch’esso normale, poiché succede persino che esse siano riunite in quella di un solo uccello, nel quale sembra si debba vedere l’origine prima dell’aquila araldica bicipite, benché essa appaia piuttosto come un doppio Garuda, avendo naturalmente l’uccello Hamsa‑Garuda una testa di cigno e una d’aquila]. Ci sarebbero ancora molti altri punti che meriterebbero sicu­ramente di attirare l’attenzione, come, per esempio, l’accosta­mento del nome «Somerset» con quello di «paese dei Cimmerii» e con vari nomi di popoli la cui somiglianza indica, con ogni probabilità, più una comunanza di tradizione che non un’affinità di razza; ma questo ci porterebbe troppo lontano, e ciò che ab­biamo detto è sufficiente a mostrare l’ampiezza di un campo di ricerche quasi interamente inesplorato, e a far intravedere le conseguenze che si potrebbero trarre per quanto concerne i le­gami tra le varie tradizioni e la loro filiazione a partire dalla tradizione primordiale. 13‑ Lo Zodiaco e i punti cardinali In un libro sulle caste, A.M. Hocart segnala il fatto che «nel­l’organizzazione della città, i quattro gruppi sono situati ai di­versi punti cardinali all’interno della cinta quadrangolare o cir­colare»; d’altronde questa ripartizione non è propria solo del­l’India, ma se ne trovano numerosi esempi fra i popoli più dispa­rati; e il più delle volte ogni punto cardinale è messo in corri­spondenza con uno degli elementi o una delle stagioni, oppure con un colore emblematico della casta che vi era situata [Les Castes, pp. 46 e 49]. Nel­l’India, i Brahmani occupavano il nord, gli Kshatriya l’est, i Vaishya il sud, gli Shudra l’ovest; si aveva così una divisione in «quartieri» nel senso proprio della parola, che, all’origine, designa evidentemente un quarto della città, per quanto nell’uso moderno questo significato preciso sembri esser stato più o meno completamente dimenticato. Va da sé che questa ripartizione è in stretto rapporto con la più generale questione dell’orientazio­ne, che, per l’insieme della città come per ogni edificio in parti­colare, svolgeva notoriamente un’importante funzione in tutte le antiche civiltà tradizionali. Tuttavia, Hocart si trova imbarazzato a spiegare la colloca­zione propria di ciascuna delle quattro caste [Ibid., p. 55]; quest’imbarazzo, in fondo, proviene unicamente dall’errore che egli commette con­siderando la casta regale, cioè quella degli Kshatriya, come la prima; partendo quindi dall’est, egli non può trovare nessun or­dine regolare di successione, e, in particolare, la collocazione dei Brahmani a nord diviene in questo modo del tutto inintelligi­bile. Al contrario, non c’è alcuna difficoltà se si osserva l’ordine normale, cioè se si comincia dalla casta che è in realtà la prima, quella dei Brahmani: bisogna partire allora da nord, e, girando in un senso di “pradakshina”, si trovano le quattro caste in una successione perfettamente regolare; non rimane quindi altro che comprendere in maniera più completa le ragioni simboliche di questa distribuzione secondo i punti cardinali. Tali ragioni si fondano essenzialmente sul fatto che la pianta tradizionale della città è un’immagine dello Zodiaco; e si ritrova qui immediatamente la corrispondenza dei punti cardinali con le stagioni: infatti, come abbiamo spiegato altrove, il solstizio d’inverno corrisponde al nord, l’equinozio di primavera all’est, il solstizio d’estate al sud e l’equinozio d’autunno all’ovest. Nella divisione in «quartieri», ciascuno di essi dovrà naturalmente corrispondere all’insieme formato da tre dei dodici segni zodiacali: uno dei segni solstiziali o equinoziali, che si possono chiamare segni «cardinali», e i due segni adiacenti a esso. Vi saranno dunque tre segni compresi in ogni «quadrante», se la forma della cinta è circolare, o su ogni lato, se è quadrangolare; quest’ultima forma è d’altronde più appropriata a una città, poiché esprime l’idea di stabilità che conviene a una costruzione fissa e perma­nente, e anche perché non è dello Zodiaco celeste in se stesso che si tratta, bensì di un’immagine e quasi di una sorta di proiezione terrestre di esso. Ricorderemo incidentalmente a questo propo­sito che, per ragioni senza dubbio analoghe, gli antichi astrologhi tracciavano i loro oroscopi in forma quadrata, nella quale ogni lato era parimenti occupato da tre segni zodiacali; ritroveremo d’altronde questa disposizione nel corso delle considerazioni che seguono. Da quel che si è detto, si vede che la distribuzione delle caste nella città segue esattamente il cammino del ciclo annuale, che normalmente inizia col solstizio d’inverno; è vero che certe tra­dizioni fanno cominciare l’anno in un altro punto solstiziale o equinoziale, ma allora si tratta di forme tradizionali che sono più particolarmente in relazione con determinati periodi ciclici se­condari; il problema non si pone per la tradizione indù, che rappresenta la continuazione più diretta della tradizione primor­diale, e inoltre insiste in modo del tutto speciale sulla divisione del ciclo annuale nelle sue due metà, ascendente e discendente che si aprono rispettivamente alle due «porte» solstiziali d’inver­no e d’estate, il che costituisce in effetti il punto di vista, si può dire, propriamente fondamentale a tal riguardo. D’altra parte, il nord, essendo considerato il punto più elevato (uttara), e se­gnando anche il punto di partenza della tradizione, conviene nel modo più naturale ai Brahmani; gli Kshatriya si pongono al punto che segue nella corrispondenza ciclica, cioè a est, lato del sol levante; dal confronto di queste due posizioni, si potreb­be inferire abbastanza legittimamente che, mentre il carattere del sacerdozio è «polare», quello della regalità è «solare», ipotesi confermata anche da molte altre considerazioni simboliche; e forse questo carattere «solare» è da mettere in relazione con il fatto che gli Avatara dei tempi «storici» sono usciti dalla casta degli Kshatriya. I Vaishya, che vengono in terzo luogo, prendono posto a sud, e con loro termina la successione delle caste «due volte nate»; per gli Shudra rimane soltanto l’ovest, considerato dappertutto il lato dell’oscurità. Tutto ciò è dunque perfettamente logico, alla sola condizione che non ci siano errori sul punto di partenza che conviene assu­mere; e, per giustificare più completamente il carattere «zodiacale» della pianta tradizionale delle città, citeremo ora alcuni fatti i quali mostrano che, se la divisione di esse rispondeva prin­cipalmente alla divisione quaternaria del ciclo, vi sono dei casi in cui era chiaramente indicata una suddivisione duodenaria. Ne abbiamo un esempio nella fondazione delle città secondo il rito che i Romani avevano ricevuto dagli Etruschi: l’orientazione era segnata da due strade ad angolo retto: il “cardo”, che andava da sud a nord, e il “decumanus”, che andava da ovest a est; alle estremità di queste due strade erano le porte della città, che si trovavano così situate esattamente ai quattro punti cardinali. La città era divisa in tal maniera in quattro quartieri, che tuttavia non corrispondevano precisamente ai punti cardinali come nel­l’India, ma piuttosto ai punti intermedi; va da sé che bisogna tener conto della differenza delle forme tradizionali, che esige adattamenti diversi, ma il principio della divisione è comunque lo stesso. Inoltre, ed è il punto che importa presentemente sot­tolineare, a questa divisione in quartieri si sovrappone È La Tetraktys e il quadrato di quattro Nel corso dei nostri studi, siamo stati condotti a diverse ripre­se a fare allus Tetraktys»; è forse pas­sata più inosservata l’altra formula di giuramento, che era «per il quadrato di quattro»; vi è fra le due un rapporto evidente, giacché il numero quattro è, si potrebbe dire, la loro base co­mune. Si potrebbe dedurne, fra le altre conseguenze, che la dot­trina pitagorica doveva presentarsi con un carattere più «cosmo­logico» che puramente metafisico, il che non costituisce d’altron­de un caso eccezionale quando si è in presenza di tradizioni occi­dentali, dal momento che abbiamo già avuto l’occasione di fare un’analoga osservazione per quel che concerne l’ermetismo. Il motivo di questa deduzione, che può a prima vista sembrare strana a chi non è abituato all’uso del simbolismo numerico, è che il quaternario è sempre e dovunque considerato propriamen­te il numero della manifestazione universale; esso segna dunque, a tale riguardo, il punto di partenza stesso della «cosmologia», mentre i numeri che lo precedono, cioè l’unità, il binario e il ternario, si riferiscono strettamente all'”ontologia»; l’evidenzia­zione più particolare del quaternario corrisponde quindi proprio per ciò a quella del punto di vista «cosmologico» medesimo. All’inizio dei “Rasail Ikhwan Eç-çafa”, i quattro termini del quaternario fondamentale sono così enumerati: 1° il Principio, designato come “El‑Bari”, il «Creatore» (il che indica che non si tratta del Principio supremo, ma solo dell’Essere, in quanto prin­cipio primo della manifestazione, che d’altronde è effettivamente l’Unità metafisica); 2° lo Spirito universale; 3° l’Anima univer­sale; 4° la “Hylè” primordiale. Non svil