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evento nihil È- al di là abissA crea dèa là essere dentro di sé È pensiero abissale abissabiss'abiss'abisso della libertà là v'è nulla - là lì essere in sé già in sé di sé. È creatore paradigma paradigma Là paradossvuota là dà Paradosso paradoss'essere ne dà paradosso paradoss'essere dà a sé paradossale già vuota. È. È mistero dell'essere mistero dell'essere in sé'enigma dell'essere'ontologiae l'ontologia della libertà nella scienza, che è l'erede di questa tradizione metafisica. La scienza non pensa ontologicità ontologica. Là ontologia del nulla ontologia del nulla è l'ontologia del nulla ontologia del nulla il nulla è al di là ontologia della libertà dell'essere come libertà piuttosto che come necessità, su base estetica. Perché su base estetica? Perché appunto l'arte ci permette di sperimentare il paradosso dei paradossi, il paradosso per cui l'essere, la verità dell'essere è, ma è sempre altra da sé. Le opere d'arte di che cosa parlano, se non della verità dell'essere? Questa verità dell'essere è sempre altra da sé, è addirittura contraddittoria rispetto a se stessa. Le opere ci parlano di questa contraddittorietà, ci presentano visioni del mondo antitetiche e tuttavia entrambe, nella loro antiteticità, espressive del vero, espressive del senso dell'essere. Dunque Plotino, la mistica, i romantici, insomma l'estetica, si situano nella prospettiva di una ontologia della libertà. Nulla, libertà, Dio: in questa nuova prospettiva questi tre termini sono in relazione. Ecco, partiamo innanzi tutto dal primo binomio. Quello tra libertà e nulla. Che cos'è questa ontologia del nulla, che è anche poi ontologia della libertà? Ontologia della libertà e ontologia del nulla sono strettamente collegate. Solo là dove il nulla è il fondamento dell'essere, cioè solo là dove l'essere è pensato come non governato dalla necessità, non predeterminato, non preceduto da qualche cosa che lo determini, quindi non fondato se non sul nulla, solo laddove abbiamo a che fare con un' antologia del nulla, l'essere si converte nella libertà stessa. Per capire questo punto, ci può aiutare un confronto fra due filosofi che sembrano appartenere allo stesso ambito di pensiero, ma di fatto pervengono a prospettive molto lontane, se non addirittura antitetiche. Mi riferisco a Heidegger, da una parte, e a Sartre, dall'altra, i quali hanno avuto il grande merito di reintrodurre nel cuore del dibattito filosofico il problema del nulla, e lo hanno fatto in modo molto diverso. Mi limiterò a una descrizione schematica: Heidegger muove dal nulla, e cioè dal fatto che il nulla è questa sorta di evidenza primaria, di esperienza primaria che noi facciamo - “la chiara notte del nulla”, la chiama - nella quale la nostra vita si rivela per quello che è, destinata al nulla, segnata dalla nullità e dalla negatività. Ogni nostro progetto, il nostro stesso essere, sono legati, provengono, non si lasciano comprendere, se non a partire dal nulla. In Heidegger, il nulla come evidenza primaria converte l'essere nella libertà, appunto perché l'essere, essendo fondato sul nulla, non ha nulla se non il nulla stesso che lo determini, che lo costringa a essere, che lo faccia essere quello che è. In quanto fondato sul nulla, in quanto fondato su questa evidenza primaria, l'essere infine si rivela, ed è questo che propriamente “la chiara notte del nulla” rivela come la libertà. Dunque Heidegger parte dal nulla e il nulla gli permette di convertire l'essere nella libertà. Sartre, al contrario, parte dalla libertà. L'evidenza primaria è la libertà: l'esperienza che noi anzitutto facciamo è quella di essere liberi. Ma in realtà noi - fa osservare Sartre - siamo tutt'altro che liberi, perché nasciamo non avendolo chiesto; abbiamo un corpo, questo corpo è il limite della nostra esistenza, anzi è la nostra stessa esistenza come predeterminata. E tuttavia - dice Sartre - noi siamo pur sempre liberi anche nei confronti del nostro corpo. Se lo abbiamo è perché l'abbiamo voluto, tant'è vero che possiamo non volerlo o possiamo negarlo. Esiste pur sempre il suicidio. Dunque anche nella determinazione più ferrea, quella che fa sì che io sono quello che sono - sono nato qui, anziché là, sono fatto così anziché in un altro modo - anche nella determinazione più ferrea, la radice è la libertà. Dunque la libertà è l'esperienza primaria. Ma se la libertà è l'esperienza primaria, la libertà converte l'essere nel nulla, perché qualsiasi cosa io faccio è giustificata, è giustificata da me, cioè da nessuno, cioè dal nulla. Il nulla è l'esito: dunque che io - come dice in una frase celebre con cui si chiude L'essere e il nulla - che io guidi degli eserciti, trasformi gli Stati, persegua degli ideali sublimi o mi ubriachi in solitudine è la stessa cosa. È la stessa cosa, appunto perché la libertà converte l'essere nel nulla, la libertà è la radice fondamentalmente arbitraria dell'essere. Dunque l'essere, qualsiasi cosa alla fine viene al mondo, finisce con l'essere uguale a qualsiasi altra cosa. Ecco un doppio schema, uno schema diverso, due forme possibili di ontologia del nulla: in Heidegger il nulla, come evidenza primaria, converte l'essere nella libertà; in Sartre la libertà, come evidenza primaria, converte l'essere nel nulla. Una vera e propria ontologia della libertà su che basi può nascere? Su basi, appunto, heideggeriane, perché abbiamo visto Heidegger parte dall'ontologia del nulla e arriva a un'ontologia della libertà, laddove invece in Sartre abbiamo il movimento contrario, e dunque l'approdo è l'ontologia del nulla. Professor Givone, approfondiamo l'altra relazione, quella tra Dio e il nulla. Il nulla, la negazione, si situa non solo all'interno dell'esperienza cristiana - l'esperienza che Dio è morto, è assente, che non salva - ma concerne la stessa vita divina. Il nulla insidia la stessa divinità, è una minaccia che attraversa Dio, il Dio impassibile della vecchia metafisica. La tradizione metafisica ha allontanato lo spettro del nulla da Dio, ma - come abbiamo visto - c'è un'altra tradizione, la tradizione mistica, e anche la tradizione estetica, che hanno invece reintrodotto il nulla in Dio. La tradizione mistica. Qui si potrebbe ricordare l'idea cabalistica dello Tzimtzum , cioè del nesso che lega Dio e la creazione. Tzimtzum significa il ritrarsi di Dio. Dio crea ritraendosi, lasciando essere il mondo. Ma questa parola della mistica ebraica è la stessa parola che aveva usato Plotino, padre della mistica cristiana - lui che cristiano non era. Il poietés, il Demiurgo - in altri termini Dio - crea il mondo lasciandolo essere. E dunque avevano ragione i cabalisti a dire che questo lasciar essere - ma questo lasciar essere vuol dire lasciarlo essere nella sua libertà, quindi liberamente lasciarlo essere nella sua libertà - questo gesto è possibile solo attraverso un ritrarsi, un venir meno a se stesso, in qualche modo un venire a patti con la stessa negazione di sé e dunque un venire a patti con il nulla. Ancora più radicali dei cabalisti e di Plotino - paradossalmente più radicali - sono stati certi teologi, uno in particolare, Bovillo, il quale ha espresso questo rapporto di Dio con il nulla in un modo felicissimo. Bovillo è un teologo vissuto nel Cinquecento e che ha scritto un libro, Liber de nihilo (Libretto sul nulla), che merita di essere ripreso. In esso Bovillo si chiede: se qualcuno ci salva dal nulla, chi può mai essere questo qualcuno se non Dio? Noi sappiamo di dover morire, sappiamo che la nostra vita è destinata a finire, a tramontare. Se mai qualcuno ci salverà dall'al di là di questo nostro tramonto, di questo nostro naufragio, chi se non Dio? Già - ma continuava Bovillo, che fin qui sosteneva tesi pienamente ortodosse - se è vero che Dio e nessun altro, che Dio ci può salvare dal nulla, è anche vero che il nulla salva Dio da se stesso. Cosa vuol dire che il nulla salva Dio da se stesso? Che se in Dio non ci fosse il nulla, se Dio non avesse la possibilità di lasciar essere il mondo, dunque di consegnarsi al nulla, di autolimitarsi, di venire a patto con il nulla, Dio sarebbe quell'essere perfettissimo che è quanto di più antidivino ci sia. Dio sarebbe questa realtà tutta piena, questo essere dominato dalla necessità, che è tutto meno che Dio, a ben vedere. Dunque Dio è salvato da Dio stesso, Dio è salvato dal nulla che gli permette di abbandonarsi alle cose, di consegnarsi al divenire, di ritrarsi in una sua inaccessibile identità. Questo doppio movimento di Dio che si abbandona al divenire, di Dio che si ritrae in un suo mistero impenetrabile, è pensabile solo in rapporto al nulla. Dunque Dio non garantito, ma in qualche modo minacciato dal nulla. Ma nel pensiero tragico anche l'ombra della colpa oscura la divinità: Dio uccide se stesso, il sacrificio diventa espiazione. Lei dice che il male non è semplicemente giustificato, conciliato da Dio, ma è assunto da Dio. Altri, ad esempio Vattimo - rifacendosi al Girard di La violenza e il sacro - rifiutano l'interpretazione del cristianesimo come religione del sacrificio, quindi l'idea di un Dio vittima. Lei non sembra d'accordo con questa lettura del fatto cristiano e vede in esso un vero sacrificio in cui vittima e carnefice coincidono: può parlarcene? Bisogna innanzitutto intendersi sul concetto di sacrificio. Certo che se lo si rapporta ad una concezione religiosa, per cui Dio è l'Onnipotente, colui che dispone in modo autoritario e violento dell'essere, proprio perché è il principio metafisico che governa l'essere tutto intero, allora certamente il sacrificio ha un carattere violento e autoritario, anzi fa ricadere l'esperienza religiosa in quelle forme naturalistiche di religiosità, che non sono cristiane. Altra cosa è pensare il sacrificio nella prospettiva del pensiero tragico, dove - lo abbiamo appena visto - di Dio tutto si può dire meno che sia il principio, l'essere che ha una sorta di onnipotenza che lo fa identico alla necessità, l'essere che governa la realtà tutta intera, il padrone. Il pensiero tragico non pensa Dio in questo modo. Il pensiero tragico pensa a Dio come libertà, come colui che consegna il mondo all'uomo, rimettendosi e rimettendo il mondo totalmente nelle mani dell'uomo. Allora, da questo punto di vista, che cos'è il sacrificio? È tutto meno che la violenza di un oscuro “principio delle origini”, violento e autoritario, che si eserciterebbe nei confronti dei suoi sottoposti. Non abbiamo a che fare con una imperiosa richiesta di questo principio, ma al contrario, con un consegnarsi di questo principio - cioè di Dio come libertà - all'esperienza della morte, all'esperienza del nulla. Nel sacrificio cristiano è Dio che si consegna liberamente alla propria passione. Questo recita giustamente la liturgia: “consegnandosi liberamente alla propria passione e morte”. Dio, proprio perché è libertà, perché originariamente non è il principio assoluto che domina il mondo secondo necessità, può consegnarsi liberamente alla propria passione e morte, può consegnarsi liberamente al nulla, alla potenza della negazione. Ma allora, cos'è il sacrificio che non è sacrificio? È sacrificio perché Dio si auto-sacrifica: consegnarsi alle potenze della negatività, consegnarsi liberamente, che cosa significa se non sacrificarsi? Si tratta perciò di sacrificio, ma di un sacrificio assolutamente altro rispetto a quello di un padrone, che esige il sacrificio dal proprio sottoposto. Il vero equivoco allora è quello di Vattimo, che continua a pensare il Dio del pensiero tragico come il Dio metafisico, e per questo può definirlo “l'ultimo grande equivoco metafisico” e vedere in esso un residuo dell'immagine naturalistica, minacciosa del Dio della vecchia metafisica. Ma il Dio metafisico è l'esatto contrario del Dio del pensiero tragico: è il Dio secondo necessità, il Dio fondato, il Dio principio di ragione. Invece il Dio del pensi