Recensione: André Gorz – Miserie del presente, ricchezza del possibile, Prima Edizione 1997.

Di: V. Pellegrino

Al fine di contribuire allo sviluppo di un quadro teorico generale delle problematiche trattate dal Tavolo Scienza Tecnologia e Trasformazione Sociale, in questo numero del bollettino si propone la lettura di un testo che, nonostante risalga a oltre vent’anni fa, risulta particolarmente attuale. I problemi trattati con davvero notevole lungimiranza da A. Gorz in quest’opera, sono forse più presenti e urgenti oggi rispetto a quando questo lavoro fu scritto, se non altro perché la crisi globale e sistemica scoppiata nel 2008 e tutt’ora aperta ha reso estremamente gravi ed urgenti questioni che nel 1997 potevano apparire ancora solo latenti. Di qui deriva la perdurante utilità di questo testo così come quella di molte altre opere dello stesso autore il cui lavoro si pone all’intersezione di ambiti disciplinari diversi ma fortemente interconnessi come la filosofia, la sociologia, l’economia, la politica. Buona lettura!

PIANO DELL’OPERA

Introduzione I. Dallo stato sociale alla stato del capitale 1. Il grande rifiuto 2. L’esodo del capitale 3. La fine del nazionalismo economico 4. La mondializzazione come cattivo esempio 5. La resistibile dittatura dei mercati finanziari 6. Il miraggio cinese II. Ultime peripezie del lavoro 1. Post-fordismo 2. Uddevalla 3. L’asservimento 4. Autonomia e vendita di sé 5. Il lavoro che abolisce il lavoro 6. Metamorfosi del salariato 7. Tutti precari III. Il lavoro disincantato 1. Il mito del legame sociale 2. Generazione X o la rivoluzione senza voce 3. Inversione dei valori, ritardo del politico 4. Socializzare o educare? IV. Uscire dalla società salariale 1. La multiattività come scelta di società 2. Vie d’uscita 2.1. Garantire il reddito 2.1.1. Difesa dell’incondizionato 2.1.2. Al di là della “legge del valore” 2.2. Redistribuire il lavoro, liberare il tempo 2.2.1. Cambiare il lavoro 2.3. Cambiare la città 2.3.1. Sets, Lets, Circoli di cooperazione 2.3.2. Ritorno al politico Epilogo Digressione I: Comunità e società Digressione II: Alain Touraine o il soggetto della critica

RECENSIONE

L’opera, pur risalendo al 1997, presenta tutt’oggi una piena attualità, trattando questioni di primaria rilevanza e ancora completamente irrisolte. Eccone gli elementi salienti [Nota: riporto, per meglio orientarsi nell’opera, i riferimenti ai capitoli o ai singoli paragrafi]

I DALLO STATO SOCIALE ALLO STATO DEL CAPITALE

“Il capitalismo ha dichiarato guerra alla classe operaia e l’ha vinta” dichiarava Lester Thurow nel suo Il futuro del capitalismo – 1995. La controrivoluzione capitalistica avviatasi negli anni ’80 ha dispiegato tutti i suoi effetti attraverso una progressiva riduzione e precarizzazione del lavoro umano necessario, con la conseguente possibilità di smantellare progressivamente dapprima lo stato scoiale e poi tutti i diritti faticosamente conquistai in decenni di lotte. La disoccupazione strutturale e la precarizzazione del lavoro rese possibili da automazione e informatizzazione delle attività produttive, insieme ad un processo di mondializzazione sempre più spinta dell’economia, hanno cancellato ogni capacità di resistenza delle classi lavoratrici che si sono trovate in balia del ricatto occupazionale più bieco. Dato che il “lavoro” è un bene sempre più raro, è il capitale che può imporre in modo unilaterale le sue condizioni.

II LE ULTIME PERIPEZIE DEL LAVORO

Il passaggio dal fordismo – taylorismo al post-fordismo è il momento di passaggio chiave in seguito al quale viene richiesta al lavoratore un’implicazione diretta nella gestione del processo produttivo con la conseguente necessità della sua autonomia valutativa e decisionale. In teoria, perché volga a favore del lavoratore, questa autonomia, la sua ricerca da parte dell’operario, dovrebbe tendere ad aumentare a prescindere dalle esigenza d’impresa. Secondo i sostenitori del controllo operario, dell’autogestione del lavoro, nel momento in cui questa autonomia si dava sul luogo di lavoro, era impossibile negarla sul piano sociale. I teorici dell’intellettualità di massa hanno radicalizzato questo concetto di autonomia sostenendo che essa e la relativa emancipazione non sono un’esigenza tendenziale ma una realtà attuale (Lazzarato – Negri). Secondo loro “il lavoro si pone immediatamente come libero e costruttivo”. “Il capitale diviene un feticcio, un apparato vuoto di coercizione, un fantasma”. In questo che viene definito da Gorz “delirio teoricista” si trova il postulato secondo cui l’autonomia nel lavoro genera di per sé l’esigenza e la capacità dei lavoratori di sopprimere ogni limite all’esercizio della loro autonomia. L’autore replica che l’autonomia nel lavoro è poca cosa se in assenza di un’autonomia culturale, morale e politica che la prolunghi e che non nasca dalla cooperazione produttiva stessa, ma dall’attività militante e dalla cultura del rifiuto della sottomissione, della ribellione, della fraternità, del libero dibattito, della messa in discussione radicale (quella che va alla radice delle cose) e della dissidenza che produce. Gli autori che si rifanno “all’intellettualità di massa”, per una sorta di spinozismo sistemico, saltano a piè pari le questioni più importanti: l’esigenza delle mediazioni culturali e politiche dalle quali risulterà la contestazione del modo e delle finalità stesse della produzione. A che cosa e a chi servono i risultati del loro lavoro? Da dove vengono i bisogni che i prodotti si presume soddisfino? Chi definisce la maniera in cui questi bisogni o questi desideri devono essere soddisfatti e, attraverso essa, il modello di consumo e di civiltà? E soprattutto: quali rapporti intrattengono i partecipanti attuali al processo di produzione con i partecipanti potenziali, cioè i disoccupati, i lavoratori interinali, i precari, i lavoratori autonomi e quelli delle imprese subappaltatrici? A tutte queste domande il capitale ha le sue risposte e, proprio sottraendole al dibattito e alla contestazione, facendone delle “leggi naturali”, esso ha potuto asservire a sé l’autonomia dei lavoratori che invece, nel loro lavoro, sfuggono al suo comando. In altri termini: “la stessa lean production (produzione snella) produce le condizioni sociali e culturali che permettono il dominio del capitale sull’autonomia del lavoro vivo”. Su queste basi, Gorz approfondisce il tema dell’asservimento dei lavoratori ai voleri del capitale e sottolinea come lo stesso toyotismo in realtà si dia solo nella fabbrica di assemblaggio finale (che impiega solo il 10-15% della forza lavoro complessivamente necessaria) mentre in tutto il così dello indotto vigono ancora le imposizioni proprie del taylorismo più soffocante. Nel paragrafo “Tutti precari” l’autore affronta il tema del superamento della mentalità lavorista, del paradigma del lavoro. Esordisce scrivendo: “Usciamo dalla società del lavoro senza sostituirla con nessun’altra”. Un passaggio chiave è costituito dal riconoscimento da parte dell’autore che la capacità di dominio del capitale sul lavoro, sulla società, sulla cultura, si fonda sulla conservazione della centralità sociale e culturale del “lavoro che vi si fa fare” proprio quando esso viene massicciamente eliminato, economizzato ed abolito. “Proprio quando il postfordismo e l’economia dell’immateriale si basano su una produzione di ricchezze sempre più disconnessa dal lavoro e un’accumulazione di profitti sempre più disconnessa da ogni produzione, il diritto di ognuno ad avere un reddito sufficiente, il diritto alla cittadinanza piena, il diritto ad avere diritti restano invece connessi all’esercizio di un “lavoro” misurabile, quantificabile, classificabile, vendibile. .... Sicché ogni manifestazione, ogni cartello che proclama “vogliamo il lavoro”, proclama la vittoria del capitale su un’umanità asservita di lavoratori che non sono più tali, ma che non possono essere altro. Ecco dunque il cuore del problema ed il cuore del conflitto: si tratta di disconnettere dal “lavoro” il diritto ad avere diritti, in particolare il diritto a ciò che è prodotto e producibile senza lavoro, o con sempre meno lavoro.”

III IL LAVORO DISINCANTATO

Il mito del legame sociale

Quello che scompare non è il lavoro in senso antropologico o filosofico: non è il lavoro del contadino né quello dell’artigiano; non è quello dello scrittore né del musicista. Quello che scompare è il particolare tipo di lavoro “inventato” dal capitale con la nascita dell’industrializzazione alla fine del XVIII secolo: il lavoro astratto, impersonale, monetizzabile; il lavoro-merce. Esso non è mai stato fonte né di “coesione sociale” né di integrazione. È contro questo lavoro che si sono date le lotte operaie e proletarie dell’epoca fordista. Il capitale ha risposto ad esse attraverso l’abolizione massiccia del lavoro codificato e astratto (a partire dalla fine degli anni ’70, attraverso l’automazione dell’industria e l’informatizzazione del terziario). “L’ideologia del lavoro” dominante lo pone come un bene, come qualcosa di sempre più raro e che si deve a tutti i costi conservare o cercare di ottenere. L’impresa, il capitale diventano quindi oggetto di aiuto, sovvenzione, agevolazione, anche in quanto “produttrici di lavoro”... lavoro sempre più raro e di prossima sparizione. È L’imbroglio della società dominata dall’impresa che magnanimamente crea posti di lavoro non per le proprie esigenze produttive (estrazione del profitto) ma per “donarlo” a qualche fortunato disoccupato! Il superamento della società-del-lavoro, l’ideologia del lavoro-valore è un problema che si pone tra il culturale ed il politico. È falsa l’argomentazione secondo cui la maggioranza delle persone non sarebbe pronta a questo radicale cambiamento dato che si fa di tutto per mantenere artificiosamente in vita la centralità culturale ed esistenziale del lavoro. Perché avvenga questo cambio di mentalità è necessario che esso trovi un’espressione collettiva in grado di iscriversi nello spazio pubblico, non solo nell’immaginario ma nella realtà pratica. Contrariamente al discorso del potere, il cambio di mentalità è già avvenuto; ciò che manca terribilmente è la sua traduzione pubblica, quella del suo senso e della sua radicalità latente. Tale traduzione non può essere l’opera spontanea di un’intelligenza collettiva. Servono degli intellettuali organici al movimento nascente che ne sappiano decifrare il senso in termini di mutazione culturale e discernerne i temi in modo che i soggetti sappiano le loro aspirazioni comuni. È il vecchio problema del circolo ermeneutico: comprendiamo solo ciò che sappiamo e sappiamo solo ciò che siamo in grado di comprendere. Serve uscire dai vecchi schemi e costruirne nel contempo di nuovi. Serve un alto grado di coscienza e autocoscienza per comprendere e tradurre l’opera di emancipazione di altri soggetti, il loro sforzo per prodursi da sé stessi. Serve un’ermeneutica del soggetto impegnato in una ricerca senza fine nella definizione di sé da sé. Sono essi “gli eroi oscuri della precarietà”, “i pionieri del senso” che anziché subire passivamente la precarietà imposta, si auto-inventano, definiscono nuove possibilità di vita, nuove forme di esistenza più libere, ricche e solidali.

Dal tempo imposto al tempo scelto

La Generation X di Coupland è fatta di giovani che rifiutano di impegnarsi a tempo indeterminato in un impiego stabile che non li soddisfi pienamente. Non sono disposti a rinunciare alla propria libertà per un impiego fisso, ritengono più importanti il valore etico e l’utilità sociale di ciò che fanno che “l’etica del lavoro”. La formazione del “legame sociale” si sposta così dal possesso di un lavoro tradizionalmente inteso, ai rapporti di cooperazione regolati dalla reciprocità. Da vari sondaggi condotti negli anni ’90 emerge che queste nuove generazioni non accettano di “piegarsi” alle esigenze dell’impiego a tempo pieno e indeterminato, che mettono al primo posto la loro libertà individuale, che si rifiutano di immolarsi alla causa del lavoro e di venire stritolati da questa “causa”. Il problema è il ritardo del politico sull’evoluzione delle mentalità. “La società si rivela incapace di produrre gli individui affinché la servano e di servirsi degli individui che essa produce. Non vi è più abbastanza società perché gli individui possano definirsi mediante la maniera di servirla. Invece di servirla, si tratta di produrla.” “La ricerca dell’identità, per quanto ossessiva sia oggi, non manifesta la volontà di essere soggetto: è invece l’autodistruzione dell’individuo incapace.. di divenire un soggetto”.

Socializzare o educare?

Ovvero, critica del pensiero strumentale. Rifiuto di concepire “la funzionalità come criterio del bene”. Questo paragrafo contiene il nucleo teorico e la fondazione etica del discorso gorziano. “L’ideologia della riproduzione della società tramite la socializzazione degli individui resta così solidamente ancorata alle abitudini del pensiero, da sopravvivere alla disgregazione della società e alla scomparsa dei “ruoli” sociali ai quali la socializzazione era adattata”. J.L. Laville scrive: “La valorizzazione del tempo liberato si basa sull’assunzione di individui atti all’autonomia e alla responsabilità, ossia (secondo la logica della maggior parte dei pensatori sociali) che beneficiano di una socializzazione riuscita, mentre è questa socializzazione che costituisce il problema”. È errata l’assimilazione di socializzazione (il mezzo attraverso il quale la società produce individui funzionali al suo funzionamento) ed educazione operata dal sociologismo (Habermas, Parsons). “A differenza del condizionamento, dell’indottrinamento e dell’addestramento, l’educazione mira per essenza a far nascere nell’individuo la capacità di impadronirsi di sé in modo autonomo, cioè di rendersi soggetto del proprio rapporto con sé stesso, con il mondo e con gli altri. Questa capacità non può essere insegnata; dev’essere suscitata. Può nascere solo con l’attaccamento affettivo del bambino o dell’adolescente a una persona di riferimento che gli faccia sentire che merita di essere amato incondizionatamente (in assenza di alcun interesse strumentale) e gli dia la fiducia nella sua capacità di apprendere, di fare, di intraprendere, di misurarsi con gli altri: cioè «la stima di sé». Il soggetto sorge grazie all’amore con cui un altro soggetto lo invita a farsi soggetto e si sviluppa grazie al desiderio di essere amato da quest’altro soggetto.” “Vale a dire che la *relazione educativa non è una relazione sociale e non è socializzabile*. Essa può riuscire solo se il bambino è, per la persona che lo educa, un essere incomparabilmente singolare, amato per sé stesso, da rivelare a sé attraverso questo amore come un essere che ha diritto alla sua singolarità: cioè come individuo-soggetto. E ancora: “La «funzione» materna o paterna (o quella della persona – fratello, zia, nonno – che adotta il bambino) non è socializzabile perché non si tratta di una funzione ma di una relazione d’amore che la società guarda sempre con sospetto o con aperta ostilità (solo l’amore è in grado di rivelare il “senso autentico” della vita in quanto va oltre l’interesse strumentale e in quanto sentimento davvero disinteressato): essa minaccia di fare del bambino un insubordinato, educandolo (e-ducando) ad impadronirsi della propria esistenza come soggetto autonomo, invece di insegnargli (come fa la scuola, l’esercito, il partito) il diritto della società ad impadronirsi di lui.” Ciò rappresenta la contrapposizione tra il pensiero politico-filosofico, da una parte, e quello funzionalista, dall’altra. Ciò che conta, per il primo, è “il lavoro mediante il quale un individuo si trasforma in agente capace di trasformare la sua situazione, invece di riprodurla con i sui comportamenti”. Ciò che conta per i secondi, è la formazione di “individui sociali” che possiedono le competenze sociali e i comportamenti che li rendono atti a svolgere le funzioni ed i ruoli che il processo di lavoro sociale definisce per loro. Citando Paolo Virno “nessuno è tanto povero quanto chi vede... il suo potere di parola ridotto a un lavoro salariato.” Se le massicce economie di tempo di lavoro devono aprire il varco ad una civiltà in cui la vita si espande come suo proprio fine e in cui la produzione di sé e la produzione di socialità prevalgono sulla vendita di sé, sono le competenze vernacolari e spontanee che si tratta di sviluppare, e non la professionalizzazione. La società della multiattività deve imporsi sull’attuale società del lavoro salariato grazie alla sua desiderabilità intrinseca non per il bisogno che hanno le imprese e la produzione di soggetti autonomi e “multiattivi”.

Vie d’uscita

Serve pensare e sperimentare nuove forme di vita, basate sulla cooperazione produttiva, nuoveforme di scambio, di solidarietà basate sull’esercizio della reciprocità. Dobbiamo affrontare una mutazione attraverso la quale il capitalismo distrugge da sé le basi della propria esistenza e produce esso stesso le condizioni del suo superamento. È necessario allargare al massimo la differenza tra società e capitalismo, cercare e sperimentare nuove forme del vivere, società altre, forme di cooperazione libera e positiva per tutta la società. La multiattività, come alternativa all’impego fisso, può essere vista al contempo come scopo e motore dell’esodo. L’evoluzione delle mentalità (nel senso del superamento della “società del lavoro”) alimenta l’evoluzione dell’ambiente sociale che a sua volta alimenta l’evoluzione delle mentalità in un processo di feedback.

Garantire il reddito

Interessante e molto attuale la disamina delle due distinte ed opposte tipologie di reddito di base: quando questo è insufficiente a mettere al riparo dalla miseria, esso fungerà da ricatto nei confronti dei beneficiari che si vedranno costretti ad accettare ogni tipo di impiego [Vedi “Reddito di cittadinanza” attuato dal governo Lega-M5S] . Questa è la versione padronale del reddito di base. Un reddito di base sufficientemente alto consentirebbe invece alle presone di scegliere quando e a quali condizioni lavorare. Sarebbe la fine del ricatto salariale! Gorz ammette di aver cambiato idea sulla formulazione ideale del reddito di base accettando che esso sia slegandolo dall’obbligo di un’attività lavorativa, per quanto ridotta in termini di tempo da dedicarvi, e conferendogli un carattere «fortemente incondizionato» (cfr. A. Caillé e A. Insel). Sull’attuale impasse economica, con la riduzione delle entrate fiscali legata alla riduzione della massa salariale e ai tagli delle aliquote sugli utili d’impresa, l’autore sottolinea come “le somme da prelevare e da ridistribuire per coprire i bisogni individuali e collettivi tendono a superare le somme distribuite dalla e per la produzione”. Rispetto a questo problema (Dove prendere i soldi?) Leontieff, Duboin e prima di loro Marx, hanno indicato la “porta di uscita”. Nei Grundrisse quest’ultimo scriveva: “La distribuzione dei mezzi di pagamento dovrà corrispondere al volume delle ricchezze socialmente prodotte e non al volume del lavoro fornito.” La differenza è coperta dalle attività elargire liberamente e gratuitamente e quindi al di fuori del sistema capitalista. La ripartizione del lavoro socialmente necessario, in corso di sperimentazione in diversi paesi, rappresenta una forma di transizione verso il reddito universale incondizionato. La prevista crisi di finanziamento di quest’ultimo, pone i presupposti del conflitto politico che da ciò deriverà nonché le basi per la ridefinizione del ruolo assistenziale o, meglio, redistributivo dello Stato.

Cambiare il lavoro

Il “discorso dominante” presenta il lavoro come bisogno fondamentale dell’uomo, fonte del “legame sociale”, della stima e dell’autostima ecc. ma, proprio nel momento in cui si pone il problema sociale della sua progressiva rarefazione e la conseguente necessità di un reddito da esso svincolato, si evoca il pericolo di un “indebolimento dell’incentivo al lavoro”, leggi dell’efficacia del ricatto salariale/occupazionale. In un quadro simile, per cambiare la società serve cambiare il lavoro e viceversa. Per cambiare il lavoro bisogna liberarsi dalle forme di reificazione (costrizioni di orario, gerarchiche, di rendimento) che rifletto la sua subordinazione al capitale. Spingendo avanti il ragionamento, Felix Guattari scrive: «Nuovi modi di vita domestica, nuove pratiche di vicinato, di educazione, di cura, di sport, di cura dei bambini, degli anziani, dei malati; un nuovo stile di attività e nuovi valori socialisono a portata di mano. Mancano ‘solo’ il desiderio e la volontà politica di assumere tali trasformazioni... Dovremmo forse attendere delle trasformazioni politiche globali prima di intraprendere queste “rivoluzioni molecolari” che devono concorrere a cambiare le mentalità?» Ci si trova qui difronte ad un circolo, in un duplice senso: da un lato la società, la politica, l’economia non possono evolvere senza una mutazione delle mentalità; ma dall’altro lato, le mentalità possono veramente modificarsi solo se la società globale segue un movimento di trasformazione. La sperimentazione sociale su larga scala che noi preconizziamo costituirà uno dei mezzi per uscire da questa contraddizione. Alcune esperienze riuscite di nuovo habitat avrebbero conseguenze notevoli per stimolare la volontà generale di cambiamento... “Si tratta di costruire... dando possibilità ai mutamenti virtuali che porteranno le generazioni future a sentire e pensare diversamente... Conviene che la qualità della produzione di questa nuova soggettività divenga la finalità prima delle attività umane”. È necessario che il mutamento delle mentalità e dei valori, cioè la nascita e l’affermazione di una “nuova soggettività”, esca dalla dimensione individuale, personale, presente solo “nella mia testa”, per farsi spazio (e tempo) sociale e urbano e si esprima politicamente anche in termini di “volontà generale”.

Sistemi di scambio locale, Circoli di cooperazione

È possibile eliminare gli intermediari tra chi ‘presta’ il lavoro e chi ne può trarre utilità. Esistono vari esempi e forme di collaborazione cooperativa: tutti i loro membri hanno pari dignità ed un’ora di lavoro prestata dà diritto ad un’ora di lavoro da ricevere. Si possono stabilire dei coefficienti di ponderazione tra le varie tipologie di lavoro in modo da assicurare la massima equità dello scambio. La moneta-lavoro ha una validità limitata nello spazio (nell’ambito di un certo circolo) e nel tempo (al massimo un anno) così che non possa essere tesaurizzata ma solo fruita attraverso altre utilità o prestazioni. La moneta-lavoro stimola l’auto-contenimento dei consumi ed impedisce il feticismo tanto del denaro che delle merci. I circoli di cooperazione stimolano fortemente l’economia locale, il valore d’uso anziché quello di scambio, aumentano il grado di autonomia e quindi il potere delle popolazioni. I circoli possono operare scelte collettive attraverso forme di democrazia diretta (referendum) per stabilire un elenco di interventi da realizzare per “migliorare” o rendere più comodo il quartiere/sobborgo/paese. L’attività dei circoli dovrebbe essere associata all’erogazione di un reddito di base incondizionato. Essi potrebbero, grazie alla cooperazione ed al continuo scambio di conoscenze, saperi, esperienze (secondo la logica dell’open source), fornire delle prestazioni superiori a quelle fornite attualmente dalle grandi aziende.

Digressione II: Alain Touraine o il soggetto della critica

Secondo Habermas la società moderna è complessa in quanto le varie sfere di attività divengono sempre più autonome e lontane tra loro (specializzazione). “La realtà sociale si coagula in realtà organizzativa reificata, per natura indifferente verso la cultura, la società, la persona” (Teoria critica). Secondo Touraine “quanto più una società è moderna, tanto più tende ad essere ridotta a un modello razionalizzatore, a un sistema di tecniche e di oggetti, ad una tecnostruttura”. “Non esiste un’istanza superiore in grado di tenere insieme le due facce della modernità, la razionalizzazione e la soggettivazione”. Pur nell’analogia di analisi (entrambi gli autori prendono come punto di partenza la teoria della modernità di Max Weber), il discorso di Touraine differisce da quello di Habermas, secondo il quale la complessità della società si ripercuote in termini negativi sul “mondo vitale” limitando la capacità di comunicazione tra individui. Secondo Touraine “la comunicazione non mette gli individui uno di fronte all’altro. Ogni individuo è preso più costantemente nei rapporti di dipendenza e comunicazione che in scambi linguistici”. A differenza di quando sostenuto da Habermas, per Touraine la comunicazione tra individui non è ontologicamente pura, posta su di una base filosofica garantita, ma avrebbe bisogno che gli individui si spogliassero del loro ruolo sociale, della loro appartenenza ad una certa classe sociale. L’individuo non è automaticamente soggetto ma per raggiungere questa condizione deve liberarsi dalle costrizioni che giungono dalla società. Secondo Habermas, nello scontro tra “mondo vitale” e “complessificazione alienante”, il primo deve imporsi “ottusamente” alla seconda in una sorta di “fondamentalismo del quotidiano”, necessariamente conservatore e tradizionalista. Touraine pone invece come necessaria la capacità riflessiva e autoriflessiva dell’individuo-soggetto in grado così di trasformare e innovare la realtà a vantaggio della sua stessa evoluzione in relazione alle potenzialità e condizioni attuali.

Come precisato all’inizio di questa recensione, i problemi trattati con davvero notevole lungimiranza da A. Gorz in quest’opera sono estremamente attuali, lo sono forse di più oggi che quando questo lavoro fu scritto, se non altro perché la crisi globale scoppiata nel 2008 e tutt’ora aperta, ha reso estremamente gravi ed urgenti questioni che nel 1997 potevano apparire ancora solo latenti. Di qui deriva la perdurante utilità di questa lettura così come quella di molte altre opere dello stesso autore il cui lavoro si pone all’intersezione di ambiti fondamentali del pensiero umano come la filosofia, la sociologia, l’economia, la politica. Buona lettura!