Cicala
“Credete davvero che una cicala voglia rinunciare a cantare rinfrescata sul suo frondoso albero?”, chiese il vecchio Ayub, mentre il sole acre di quel primo pomeriggio di Luglio si insinuava nelle rughe profonde del suo viso. I segni degli anni e delle esperienze erano da tempo la cornice del suo volto scarno; i suoi occhi vitrei ne erano l'anima. I bambini seduti all'ombra del baobab ascoltavano con attenzione: quella voce rassicurante e sempre pacata era il loro faro. E illuminava una strada invisibile che portava lontano da quella bidonville che puzzava di gomma bruciata. Lungo quelle strade polverose rese sempre più strette da bancarelle improvvisate e rifiuti, gruppi di membri di gang stazionavano come sentinelle a ogni crocevia. Le scarpe e gli abiti contraffatti di noti brand occidentali indossati prima a identificarne i membri, poi per ostentare un utopistico benessere da usare come esca per attirare potenziali membri sempre più giovani: il solito copione a base di guadagni facili e una fuga senza ritorno da quella povertà cronica e dai soprusi governativi che piagavano costantemente chi non poteva corrompere quei più alti papaveri vestiti con abiti di sartoria e seduti in lussuose auto guidate da autisti calvi e silenziosi. Di tanto in tanto il vecchio Ayub non poteva fare a meno di dedicare un pensiero a voce alta a chi aveva lasciato quei sobborghi in cerca di una meta di speranza. I bambini ascoltavano con la comprensione di chi era stato costretto ad apprendere troppo presto quella dura realtà. “Chux canta sempre...”, raccontava il vecchio Ayub con la voce rotta da ricordi chissà quanto lontani. “Non sa cantare, anzi è proprio stonato... È più bravo a suonare il djembe. Ma col tempo ci abbiamo fatto l'abitudine”. I suoi occhi vitrei scrutavano il cielo, come sempre quando non voleva far vedere le lacrime disegnare gli spigoli del suo viso.” Il pensiero di un nipote scappato da una violenza sistemica per arginare una violenza imposta dai dettami della globalizzazione e di cui non aveva più avuto notizie. Eppure parlava di lui sempre al presente: un rituale scaramantico confuso col voler ignorare una realtà troppo dolorosa per essere accettata. “Nonno Ayub, sai che nei caffè c'è sempre qualcuno che suona per i clienti?”, gli chiedeva il nipote ormai diciottenne e fresco di diploma in una scuola di musica di Mogadiscio. Scriveva anche canzoni e musiche quando non era troppo stanco dopo una giornata trascorsa a trasportare rifiuti provenienti da ogni angolo del mondo evoluto, negli hangar vicino la grande darsena. Fusti colorati vivacemente che dovevano restare sigillati, nonostante alcune esalazioni che trapassavano quella barriera di plastica dura gli facevano lacrimare gli occhi e bruciare la gola. “Non apriteli mai o andrete a fuoco!”, intimava sempre il capoturno dall'aspetto imponente e la barba sempre tagliata a punta; e che, dietro la faccia resa ancora più dura da una cicatrice che percorreva la guancia destra, lasciava trapelare un senso di protezione verso quei ragazzi dai dodici ai vent'anni ridotti a muli per poche decine di scellini al giorno. In un paese ridotto a discarica del mondo non c'era spazio per chi sapeva fare musica. La bellezza dell'arte non intersecava nessuna delle uniche due alternative possibili: lavori pericolosi e pagati miseramente, o l'affiliazione a qualche gang per tanti soldi facili ma la certezza di finire uccisi o in galera.
I bambini che ascoltavano il vecchio Ayub sapevano di dover aspettare in silenzio il riprendere dei racconti. Il tempo necessario a far rientrare le lacrime negli occhi e scacciare ogni dolore da quella voce saggia, un po' roca ma pur sempre rassicurante. “Ognuno di noi nasce in un modo. E in quel modo deve vivere. Chux è nato cicala e una cicala non può fare ciò che fa un mulo”. Grande tazze in terracotta piene del gustoso the Rooibos erano appoggiate su un tavolo di fortuna sistemato tra il vecchio Ayub e i suoi discepoli: quel the rosso era un ingrediente essenziale in quei momenti. “E una cicala non vuole mai smettere di cantare: ha bisogno di un'estate senza fine e del suo albero. Tutto questo è il vero male che viviamo qui: non poter scegliere di vivere ciò che siamo.” Il vecchio Ayub iniziò a sorseggiare il suo the sempre caldo, come voleva la tradizione. Aveva vissuto tante età dei sobborghi Mogadiscio, tutte scandite da immagini di uomini, donne e bambini che erano scappati indebitandosi fino al collo e attraversando territori angusti fino all'antico Mediterraneo, per poi raggiungere mete fino a poco tempo prima impensabili. Alcuni davano proprie notizie, descrivendo realtà ben diverse fatte di migliori condizioni di vita ma anche di incessanti discriminazioni. Alcuni restavano condannati a portare addosso l'infame, indelebile marchio di povero e a una vita di stenti di crimini imposti da nuovi capiturno vestiti alla moda, pieni di donne appariscenti e sempre utili ai potenti del nuovo mondo. Di qualcuno non si sapeva più niente. Nel frattempo gli anni correvano inesorabili, ignorando tutto ciò. Le differenze del progresso arrivavano anche lì, anche se a rilento. Gli smartphone sostituivano progressivamente le vecchie cabine, le automobili così come le moto e le biciclette avevano linee sempre più accattivanti. Ma la vita era sempre fatta di stenti e di violenze: un precariato troppo stantio perché il progresso incessante e consumistico perdesse più tempo prezioso del dovuto. Sorgevano rare fabbriche alla rinfusa per non fermare quel nevrastenico ritmo economico che dominava le logiche del mondo contemporaneo, agevolato anche dalla ricchezza di materie prime nei sottosuoli circostanti; ricchezze ovviamente non concesse ai comuni mortali. Alcuni uomini venivano assunti e obbligati a lunghi turni estenuanti che spegnevano ogni loro impeto e li gettavano in preda all'alcol, alla colla da sniffare o alle scommesse clandestine: un misero stipendio in cambio di malsani anestetici per tentare di scaricare una malsana adrenalina, ma che puntualmente li portavano a vite violente per pagare i debiti contratti di volta in volta per consumare quei vizi pericolosi. Touchscreens illuminati e notebook collegati a reti wireless: una cornice non troppo nutrita che non riusciva comunque a decorare quell'amara realtà, che puntualmente disseminava di cadaveri quelle misere strade. Il vecchio Ayub ne aveva visti tanti, troppo spesso giovani con t-shirt imbevute di sangue e sollevate per scoprire quei ventri segnati da diversi fendenti o da colpi di pistola. Era quasi sempre così: vittime di faide o regolamenti dei conti. Gerarchie a cui era sempre vietato ribellarsi. Ogni volta la polizia effettuava i rilievi con la noia di chi era fin troppo abituato a ripetere le stesse azioni, come un alienato operaio costretto a subire i ritmi di un’incessante catena di montaggio. Trovarsi continuamente faccia a faccia con questa dura realtà era sempre un colpo violento ai sensi del vecchio Ayub: quel nauseabondo sapore di una moneta di rame tenuta in bocca. Il sapore del sangue che permeava l’aria. Violenza e povertà: un binomio inscindibile ignorato da chi poteva permettersi il lusso di girarsi dall'altra parte, con le pupille a forma di dollari in banconote. Legali o da riciclare, poco importava. L'importante era la quantità crescente alimentata con la logica dei frattale dei caschi di banane. Chux se n'era andato in una notte d'inverno: la temperatura mite ma non troppo soffocante per incamminarsi verso quel luogo di raccolta. E poi fino alla via di quel mare antico e profondo. Poi il sogno di un lavoro e di portare avanti la sua musica. Qualsiasi sacrificio pur di non smettere mai di sognare lontano dal quel devastante binomio. Aveva lavorato anche più di quindici ore al giorno, fino a svenire stremato sul suo malconcio letto, accumulando la cifra esorbitante di quasi due milioni di scellini. Non si era comprato t-shirt, né scarpe, né altri sfizi di diciottenne: tutto andava messo da parte per poter partire da quei luoghi senza futuro senza gravare sulla propria famiglia. “Chux è nato e resta cicala, in chissà quale albero...”, ripeteva il vecchio Ayub. “E a una cicala non si può impedire di cantare”.
Scritto da 未知