L'INCENERITORE

Cicala

“Credete davvero che una cicala voglia rinunciare a cantare rinfrescata sul suo frondoso albero?”, chiese il vecchio Ayub, mentre il sole acre di quel primo pomeriggio di Luglio si insinuava nelle rughe profonde del suo viso. I segni degli anni e delle esperienze erano da tempo la cornice del suo volto scarno; i suoi occhi vitrei ne erano l'anima. I bambini seduti all'ombra del baobab ascoltavano con attenzione: quella voce rassicurante e sempre pacata era il loro faro. E illuminava una strada invisibile che portava lontano da quella bidonville che puzzava di gomma bruciata. Lungo quelle strade polverose rese sempre più strette da bancarelle improvvisate e rifiuti, gruppi di membri di gang stazionavano come sentinelle a ogni crocevia. Le scarpe e gli abiti contraffatti di noti brand occidentali indossati prima a identificarne i membri, poi per ostentare un utopistico benessere da usare come esca per attirare potenziali membri sempre più giovani: il solito copione a base di guadagni facili e una fuga senza ritorno da quella povertà cronica e dai soprusi governativi che piagavano costantemente chi non poteva corrompere quei più alti papaveri vestiti con abiti di sartoria e seduti in lussuose auto guidate da autisti calvi e silenziosi. Di tanto in tanto il vecchio Ayub non poteva fare a meno di dedicare un pensiero a voce alta a chi aveva lasciato quei sobborghi in cerca di una meta di speranza. I bambini ascoltavano con la comprensione di chi era stato costretto ad apprendere troppo presto quella dura realtà. “Chux canta sempre...”, raccontava il vecchio Ayub con la voce rotta da ricordi chissà quanto lontani. “Non sa cantare, anzi è proprio stonato... È più bravo a suonare il djembe. Ma col tempo ci abbiamo fatto l'abitudine”. I suoi occhi vitrei scrutavano il cielo, come sempre quando non voleva far vedere le lacrime disegnare gli spigoli del suo viso.” Il pensiero di un nipote scappato da una violenza sistemica per arginare una violenza imposta dai dettami della globalizzazione e di cui non aveva più avuto notizie. Eppure parlava di lui sempre al presente: un rituale scaramantico confuso col voler ignorare una realtà troppo dolorosa per essere accettata. “Nonno Ayub, sai che nei caffè c'è sempre qualcuno che suona per i clienti?”, gli chiedeva il nipote ormai diciottenne e fresco di diploma in una scuola di musica di Mogadiscio. Scriveva anche canzoni e musiche quando non era troppo stanco dopo una giornata trascorsa a trasportare rifiuti provenienti da ogni angolo del mondo evoluto, negli hangar vicino la grande darsena. Fusti colorati vivacemente che dovevano restare sigillati, nonostante alcune esalazioni che trapassavano quella barriera di plastica dura gli facevano lacrimare gli occhi e bruciare la gola. “Non apriteli mai o andrete a fuoco!”, intimava sempre il capoturno dall'aspetto imponente e la barba sempre tagliata a punta; e che, dietro la faccia resa ancora più dura da una cicatrice che percorreva la guancia destra, lasciava trapelare un senso di protezione verso quei ragazzi dai dodici ai vent'anni ridotti a muli per poche decine di scellini al giorno. In un paese ridotto a discarica del mondo non c'era spazio per chi sapeva fare musica. La bellezza dell'arte non intersecava nessuna delle uniche due alternative possibili: lavori pericolosi e pagati miseramente, o l'affiliazione a qualche gang per tanti soldi facili ma la certezza di finire uccisi o in galera.

I bambini che ascoltavano il vecchio Ayub sapevano di dover aspettare in silenzio il riprendere dei racconti. Il tempo necessario a far rientrare le lacrime negli occhi e scacciare ogni dolore da quella voce saggia, un po' roca ma pur sempre rassicurante. “Ognuno di noi nasce in un modo. E in quel modo deve vivere. Chux è nato cicala e una cicala non può fare ciò che fa un mulo”. Grande tazze in terracotta piene del gustoso the Rooibos erano appoggiate su un tavolo di fortuna sistemato tra il vecchio Ayub e i suoi discepoli: quel the rosso era un ingrediente essenziale in quei momenti. “E una cicala non vuole mai smettere di cantare: ha bisogno di un'estate senza fine e del suo albero. Tutto questo è il vero male che viviamo qui: non poter scegliere di vivere ciò che siamo.” Il vecchio Ayub iniziò a sorseggiare il suo the sempre caldo, come voleva la tradizione. Aveva vissuto tante età dei sobborghi Mogadiscio, tutte scandite da immagini di uomini, donne e bambini che erano scappati indebitandosi fino al collo e attraversando territori angusti fino all'antico Mediterraneo, per poi raggiungere mete fino a poco tempo prima impensabili. Alcuni davano proprie notizie, descrivendo realtà ben diverse fatte di migliori condizioni di vita ma anche di incessanti discriminazioni. Alcuni restavano condannati a portare addosso l'infame, indelebile marchio di povero e a una vita di stenti di crimini imposti da nuovi capiturno vestiti alla moda, pieni di donne appariscenti e sempre utili ai potenti del nuovo mondo. Di qualcuno non si sapeva più niente. Nel frattempo gli anni correvano inesorabili, ignorando tutto ciò. Le differenze del progresso arrivavano anche lì, anche se a rilento. Gli smartphone sostituivano progressivamente le vecchie cabine, le automobili così come le moto e le biciclette avevano linee sempre più accattivanti. Ma la vita era sempre fatta di stenti e di violenze: un precariato troppo stantio perché il progresso incessante e consumistico perdesse più tempo prezioso del dovuto. Sorgevano rare fabbriche alla rinfusa per non fermare quel nevrastenico ritmo economico che dominava le logiche del mondo contemporaneo, agevolato anche dalla ricchezza di materie prime nei sottosuoli circostanti; ricchezze ovviamente non concesse ai comuni mortali. Alcuni uomini venivano assunti e obbligati a lunghi turni estenuanti che spegnevano ogni loro impeto e li gettavano in preda all'alcol, alla colla da sniffare o alle scommesse clandestine: un misero stipendio in cambio di malsani anestetici per tentare di scaricare una malsana adrenalina, ma che puntualmente li portavano a vite violente per pagare i debiti contratti di volta in volta per consumare quei vizi pericolosi. Touchscreens illuminati e notebook collegati a reti wireless: una cornice non troppo nutrita che non riusciva comunque a decorare quell'amara realtà, che puntualmente disseminava di cadaveri quelle misere strade. Il vecchio Ayub ne aveva visti tanti, troppo spesso giovani con t-shirt imbevute di sangue e sollevate per scoprire quei ventri segnati da diversi fendenti o da colpi di pistola. Era quasi sempre così: vittime di faide o regolamenti dei conti. Gerarchie a cui era sempre vietato ribellarsi. Ogni volta la polizia effettuava i rilievi con la noia di chi era fin troppo abituato a ripetere le stesse azioni, come un alienato operaio costretto a subire i ritmi di un’incessante catena di montaggio. Trovarsi continuamente faccia a faccia con questa dura realtà era sempre un colpo violento ai sensi del vecchio Ayub: quel nauseabondo sapore di una moneta di rame tenuta in bocca. Il sapore del sangue che permeava l’aria. Violenza e povertà: un binomio inscindibile ignorato da chi poteva permettersi il lusso di girarsi dall'altra parte, con le pupille a forma di dollari in banconote. Legali o da riciclare, poco importava. L'importante era la quantità crescente alimentata con la logica dei frattale dei caschi di banane. Chux se n'era andato in una notte d'inverno: la temperatura mite ma non troppo soffocante per incamminarsi verso quel luogo di raccolta. E poi fino alla via di quel mare antico e profondo. Poi il sogno di un lavoro e di portare avanti la sua musica. Qualsiasi sacrificio pur di non smettere mai di sognare lontano dal quel devastante binomio. Aveva lavorato anche più di quindici ore al giorno, fino a svenire stremato sul suo malconcio letto, accumulando la cifra esorbitante di quasi due milioni di scellini. Non si era comprato t-shirt, né scarpe, né altri sfizi di diciottenne: tutto andava messo da parte per poter partire da quei luoghi senza futuro senza gravare sulla propria famiglia. “Chux è nato e resta cicala, in chissà quale albero...”, ripeteva il vecchio Ayub. “E a una cicala non si può impedire di cantare”.

Scritto da 未知

Era una mattina delle solite in casa Sgambizzi, papà Alfredo è in bagno a radersi la barba, mamma Matilde prepara il caffè, e i due piccoli Marco e Carlo si stanno preparando ad una nuova giornata di scuola. Papà Alfredo possiede un negozietto in una via cittadina, l’ha ereditato da suo padre, che a sua volta l’ha ereditato dal nonno di Alfredo. All’inizio era un piccolo emporio di alimentari e generi di largo consumo, sapete, tutti quei prodotti come schiuma da barba, detersivi, spugne e via dicendo.

Poi nel tempo l’emporio mutò forma diventando una piccola boutique di moda, e che signori frequentavano bottega! Tutti i borghesi di Reggio si recavano da Marco per comprare pellicce, profumi e mocassini di alta fattura! Passato nelle mani di Alfredo, la boutique si adeguò ai tempi e soprattutto alle tasche della maggioranza, preferì la quantità alla qualità ed inizio a vendere capi di fast fashion. Una certa decadenza in confronto ai grandi fasti d’un tempo. Ma cari miei i mercati come tempesta arrivarono nelle terre d’oriente, e si sa, nel commercio è il soldo che conta. Fu così che Alfredo svendette ermellini e gessati per darsi al jersey e alla lycra, e devo dire che l’investimento fu azzeccato.

Furono anni felici che, come tutte le cose belle, passarono in fretta. Ed è quando si pensa che la musica non finisca piu di suonare e la giostra mai di girare, che le più elementari difese si abbassano e i diretti destri della vita ci colpiscono in pieno volto.

Fine parte 1

I Brics si sono allargati, e questo lo sanno ormai tutti, cosa unisce realtà così eterogenee oltre alla de-dollarizzazione lo sanno solo loro. Lasciando perdere le stronzate di rito sparate dal politico di turno, mi sorgono vari dubbi su cosa accomuni il Brasile e l’Iran. O forse la risposta è molto più semplice del previsto e colpisce una buona fetta della sinistra, “tutto è meglio degli USA”, anche un regime teocratico che spara sulle donne e impone loro di indossare l’hijab o dove è presente una polizia religiosa.

Immagino che Lula sia ben lontano dal criticare apertamente l’Iran o l’Arabia Saudita, eppure sembra essere sempre pronto a scagliarsi contro gli Stati Uniti perché sì. Fa veramente ridere che il presidente parli dei diritti delle donne e poi accetti acriticamente di far parte di un’alleanza con delle nazioni in cui le donne sono considerate alla stregua degli oggetti. Ah già tanto basta uscirsene con la solita stronzata del “ è la nostra cultura” per far passare tutto. Il Brasile è ancora una volta la chiara dimostrazione dello squallore della politica tutta, sia estera, che nazionale, dove da un lato si parla di diritti delle donne, di diritti delle minoranze, di diritti in generale, e dall’altro si accoglie a mano aperta un regime che finanzia alla luce del sole associazioni terroristiche (come nel caso di Hezbollah).

Come ribadito sopra, il “ tutto è meglio degli USA” trova piena applicazione in Brasile, dove le minimizzazioni delle malefatte del regime di Ortega, il presidente del Nicaragua, descrivono un quadro francamente inquietante. Oppure anche la difesa a oltranza del governo autoritario del Venezuala di Maduro che ha lasciato sbigottito anche il presidente cileno di sinistra Gabriel Boric, dimostrando come una parte della sinistra sudamericana applichi un doppio standard francamente ridicolo, come il difendere a ogni costo regimi autoritari se questi presentano fantomatiche caratteristiche di sinistra. Vorrei vedere il presidente brasiliano parlare davanti a Rouhani della condizione delle donne, o degli orrori che avvengono nel suo paese, ma ho come il presentimento che la bocca sarà cucita.

Freddo, tanto... Venni gettato a terra e preso a calci: “A pezzo de merda!” bum, bam “Te strascico de faccia hai capito?!”. L’avevo fatto di nuovo, un per trentacinque alla roulette... Certo può sembrar sospetto prendere il numero esatto due volte di fila, ma.. Ma... Giuro che è vero! L’ho fatto! E non ho barato, non è mica il poker. Il 7 è il mio numero fortunato e, per quante volte ho perso puntandoci sopra, come poteva suonar sospetto? Ma ai miei aguzzini la fortuna appartenutami era troppa e dunque, baro o non baro, meritavo d’esser pestato. Certo penso anche che se evitassi questa vita il problema non si porrebbe... E se mio nonno avesse le palle sarebbe un flipper se dice qui a Roma. “So venticinquemila bello...”, “Il 27 ricevo lo stipendio e te do tutto”, “È già tardi regazzino!! È già tardi e te devi move o te faccio vede hai capito? Te sbudello a porco!”. Ho dovuto fà i buffi. Gente tranquilla i miei creditori, il 10% mensile sul capitale prestato più il capitale stesso...ho preso settantacinquemila euro in prestito, ma che vuoi farci? I vizi costano e il vivere anche, e poi ora da divorziato anche non pagando quelle cenacce fuori devo comunque pagare gli alimenti ar pupo, o alla pupa, dipende dai punti di vista. Decise di farla finita con me quando tornarono alla nostra porta i cravattari, per l’ennesima volta. “Ancora oggi le loro voci rimbombano nelle mie orecchie”. E come biasimarla? Neanch’io riuscirei a stare insieme ad un povero diavolo come me! Il meccanismo è sempre quello, vinci e vuoi ancora vincere, ubriaco di avidità, premi premi, giri giri e quando perdi la vincita pensi “Beh se ho già vinto una volta potrei vincere ancora”, finchè dopo aver perso anche il budget iniziale, ricarichi nuovamente, stipendio, risparmi, tuoi e altrui. Stai male dopo... Forse... É una compulsione, non ci pensi, sei ipnotizzato e alla fine non giochi neanche più per rivalsa ma perchè godi, godi nel perdere, ami sfidare la sorte, scoprendo che dietro c’è solo la fredda matematica. Ormai il dado è tratto pensi, ho perso già ¾ di budget, andiamo fino in fondo... E come un assetato nel deserto trinchi gli ultimi spicci, fino all’ultima goccia. Sono dovuto ricorrere agli usurai altrimenti non avrei avuto neanche i soldi per mangiare e vestirmi... Dovreste vedermi... alto e scheletrico, pallido e canuto, ovviamente ho smesso. Ovviamente no, gioco ancora e sinceramente non so come farò a ripagare i debiti, si vedrà. “Negli ultimi trent’anni il giro d’affari legato al gioco d’azzardo è cresciuto in maniera tumultuosa ... estorcono denaro ai giocatori fortunati o lo prestano a usura a quelli sfortunati” Chiudo il giornale e penso “Ah! Ma dai! E chi l’avrebbe mai detto?” e continuo a sorseggiare il mio caffè amaro. “Eccolo eccolo” e gli andammo addosso, ma quante gliene demmo, troppe ho detto ar socio, ce deve ancora ripagà e abbiamo rischiato d’ammazzallo, ma ce deve un monte de buffi, 10 sacchi solo de interessi... “Sinceramente non so come farà a pagare i debiti”. “Come tutti noi ah Mariè, lavoranno o facendo le tarantelle sue ‘co ‘e carte, ma io che cazzo ne so, se vennesse quel catorcio che se ritrova”. “E ora passiamo la linea a Roma dove il dramma dell’usura continua a mietere vittime, questa volta un operaio di 52 anni è stato trovato morto nel suo monolocale nella periferia romana, a quanto detto da chi lo vedeva al bar, aveva contratto molti debiti ed era caduto nella tela del gioco d’azzardo patologico, linea a Roma.”

Come il ballo è insito nell'essere umano e tutt'oggi (inconsciamente) ripropone logiche tribali.

A graphic effect of waves reminding of people dancing

SE NON FAI L'ULTIMA, NOI NON CE NE ANDIAMOH!

Fin dall'alba dei tempi, uomini e donne usavano riunirsi per praticare vari tipi di balli, al ritmo di legni battuti o pietre, le quali creavano ciò che chiamiamo “ritmo”.

Nei ritmi ossessivi la chiave…dei riti tribali

Cantava Franco Battiato.

I balli sono sempre state occasioni di incontro sociale, nella maggior parte delle culture, in tutte le classi sociali, dalla danza intorno al fuoco nel cuore della giungla agli sfarzosi gala in lussuose sale da ballo: occasioni in cui socializzare, stringere o saldare alleanze con altri uomini e conoscere le donne. L'enciclopedia Treccani scrive:

Il Dizionario del Tommaseo lo definisce “l'arte di muovere ordinatamente il corpo con gesti e attitudini eseguite a passi misurati e regolati secondo il tempo dell'armonia”

L'enciclopedia Britannica fornisce una spiegazione più ampia del fenomeno sociale della danza:

La danza sociale è quasi sempre accompagnata dalla musica, che non solo aiuta a tenere i ballerini a tempo l'uno con l'altro, ma aumenta anche la potenza e l'eccitazione della danza, incoraggiando i ballerini ad abbandonarsi ai loro movimenti. A volte singole danze si sono sviluppate in risposta a una nuova forma musicale, come nel jazz e nel rock and roll; ma la danza ha anche avuto un'importante influenza sulla musica, come nel Rinascimento, quando i musicisti dovevano produrre musica per accompagnare le nuove danze che si stavano sviluppando.

Visitando la mitica discoteca “Riobo” di Gallipoli, ho avuto l'occasione di osservare diversi comportamenti. Sostanzialmente nella maggior parte delle discoteche succede questo: chi rimorchia e chi si fa rimorchiare, chi si gode la musica ballando, chi balla con gli amici o con perfetti sconosciuti e, chi rosica perché non fa nulla di tutto ciò. Tralasciando l'ultima categoria, quella sera di Ferragosto al Riobo, non avendo dimestichezza nell'arte dell'approccio danzante, ho potuto osservare come uno dei modi principe è quello di ballare davanti alla ragazza e osservare se gradisce o se ne è imbarazzata o peggio infastidita. Nel caso di imbarazzo, potrebbe voler dire molteplici cose (siete divertenti oppure ridicoli), nel caso fosse infastidita il messaggio è univoco e dunque è meglio levare le tende il più presto possibile per non risultare molesti.

Mi è capitato di assistere a dei ragazzi che nel momento di cercare delle ragazze, hanno prima lasciato perdere un'occasione, poiché erano accompagnate (evitare i conflitti) e sono andati da un gruppo composto da quattro ragazze e due ragazzi. I due amici hanno allora rivolto la parola prima ai due ragazzi, chiedendo la provenienza (territorio d'appartenenza) e, siccome erano lombardi come loro, subito hanno stretto amicizia, garantendosi il loro appoggio, insieme a quello delle ragazze del gruppo.

Fondamentale saper leggere la stanza, capire se la ragazza è da sola o accompagnata, capire se è interessata a cercare un partner, capire se qualche altro ragazzo è interessato, ma soprattutto portarsi dietro una compagnia giusta, dunque niente guasta feste, rosiconi e gente senza passaggio per tornare (che obbligherà te ad andar via prima).

Essendo non avvezzo al rimorchio in disco, ho semplicemente goduto della musica e intrapreso dei balli “tribali” con altri ragazzi, stringendo effimere amicizie condite dall'ignoranza alcolica di fondo, droga rituale di queste serate danzanti. Per mia fortuna ho sempre goduto di momenti d'allegria e, non ho mai assistito a risse e violenza, seppur siano spesso, purtroppo, comuni in questi ambienti.

In conclusione, attraverso l'osservazione di altri soggetti che invece hanno più esperienza in questi ambiti, non solo c'ho capito più o meno qualcosa, ma ho riflettuto sul fatto che il ballo, sia esso d'accoppiamento o d'alleanza, è arcaico ed insito dentro di noi più di quanto possiamo pensare.

Il mondo finirà quando tutti smetteranno di ballare

A fire between the trees

  1. Il paradigma culturale dominante ci ha assuefatti alla violenza del consumo e ci ha indotti a pensare che niente possa più essere creato. Con il paterno istinto di generare vita fra le mani, noi, sterili padri senza prole, aride sagome senza volto, ci arroghiamo il diritto di accelerare verso l'ignoto, istantanei come degli impulsi elettrici.

  2. Siamo spiriti impazziti, trasparenti e disillusi, incarcerati in un convulso aggrovigliamento di geometrie immateriali. Siamo mine vaganti senza un motivo per esplodere, senza una traiettoria, senza speme. Rinunciamo dunque alle mappe ed al passato. Vivremo ogni giornata con la stessa sincerità di un flusso di coscienza, accogliendo l'insensatezza di contorno.

  3. La primordialità dell'atto creativo lenisce l'assurdità dell'esistenza. La creazione è il fine ultimo, in quanto ci riavvicina al Dio che abbiamo perso.

  4. Siamo ricoperti di polvere e pertanto ogni facezia metafisica ed immateriale è da considerarsi un'anomalia da estirpare.

  5. Ogni giorno siamo sommersi da uno tsunami di informazioni e di possibilità: paradossalmente la nostra capacità di agire e di scegliere ne viene menomata. Accogliamo la necessità di una sana ignoranza, e la potenza benevola dell'illusione, come l'unico antidoto purificatore che ci permetta di riappropriarci della nostra capacità di generare. Solo in questo modo torneremo padroni delle nostre creazioni.

  6. Nel nuovo mondo, il concetto di identità è un concetto fragile. Per certi versi potremmo dire che è un concetto del tutto in via di estinzione: l’identità si è liquefatta. Sputiamo in faccia ai manichini di plastica che ci vengono presentati come ideali da seguire.

  7. Che la tecnica torni a servire l'uomo. Quest'ultimo ha l'obbligo di rivoltarsi al sigillo che essa ha impresso sul suo capo. La società della tecnica, una bolgia iper-industrializzata, ha prodotto un enorme esercito di lavoratori anonimi il cui unico fine é quello di riprodurre in serie il frutto del concepimento altrui. Questo contesto spinoso ci spinge all’abiura dell’originalità e ci condanna ad una vita di frustrazione. Allora noi decretiamo, qui ed ora, la morte della Cover, della riproduzione forzata e del rimpianto. Combatteremo per andare oltre, polverizzando ogni ostacolo, o quantomeno illudendoci di starlo facendo.

  8. L’industria culturale di massa deve essere annientata, nella sua interezza.

  9. In quest’epoca dove il marketing determina interamente la diffusione delle opere, i germogli che non sono stati in grado di sbocciare nel panorama culturale ordinario sono il vero tesoro che merita la nostra attenzione. Volgeremo il nostro sguardo verso i meandri del sottosuolo, al dì sotto della superficie, un luogo accessibile solo alle anime più ardite.

  10. Noi ci serviremo dell’impeto comunicativo di Internet, e della brutalità dell’innovazione tecnologica, per sottrarre ogni centimetro di terreno alla catena di montaggio dell’arte.

  11. Dichiariamo apertamente guerra a tutte le piovre come Google, Meta, Microsoft, Adobe e tutte le altre creature senza patria che tentano imperterrite di allignare i loro viscidi tentacoli nel libero oceano del Web.

  12. Ben vengano i pappagalli stocastici, purché non ci esproprino della nostra carne.

  13. Noi non viviamo in una dimensione temporale. Ci serviamo della lama del ripudio e dello sprezzo contro tutti gli -ismi e contro tutte le etichette appiccicose. Indosseremo con orgoglio i panni dell’ultima compagna per mietere ed incenerire il passato, il presente ed il futuro!

  14. Non lasceremo che la nostra volontà d’azione e di fare venga mutilata dalla maledizione del già visto. Imprigionati tra i confini dell’impossibilità di innovare, ci abbandoneremo all’estasi della sperimentazione libera ed alla imperterrita ricerca di nuove forme estetiche ed espressive.

  15. L’Antropocene è l’era della crisi. La nostra carne, o quel che ne rimane, è imputridita dalla plastica, che galleggia nel nostro sangue. Si intravede chiaro all’orizzonte l’indifferibile necessità di non abbandonarci passivamente alle nefaste conseguenze del cambiamento climatico, di origine antropica.

  16. Viviamo nell’epoca dell’immagine. Nella nostra nazione, le statistiche evidenziano un chiaro e ripido declino del numero annuale di lettori. Non vogliamo che la letteratura diventi una forma d’arte ad appannaggio dell’elité e pertanto ci prefiggiamo quantomeno di cercare di invertire questa tendenza, nel nostro piccolo.

  17. Noi crediamo fermamente che la poesia non sia mai realmente morta, bensì essa si è soltanto dissimulata negli anfratti dei nuovi media. La nostra poesia sarà caratterizzata dalla disillusione, dal paradosso, dall’assurdo, dal paradosso dell’assurdo.

Sino al momento appena precedente alla creazione di questo collettivo culturale, gli impianti su suolo italiano conosciuti come termovalorizzatori, o inceneritori, ammontavano a 37, ma nell’istante appena successivo, la cifra è salita a 38.

Questo termovalorizzatore non produce energia elettrica o riscaldamento, bruciando annualmente tonnellate di rifiuti urbani e regalandone i fumi all’atmosfera. Questo è un inceneritore che accumula pensieri, idee, passioni, critiche, ironie e paure, per convogliarle in una fornace che le trasformi in parola.

Nella ciminiera de L’inceneritore si misceleranno, in una fitta coltre, le certezze, i dubbi e le contraddizioni di molteplici autori riguardo il presente, il passato e il futuro dell’esistente, lasciando agli scarti della macchina nocive illusioni, polverosi preconcetti, maleodoranti ideologie. Munirsi di opportune protezioni. Grazie.