Recuperare umanità

Amici (?) dei “Sacchi Rossi”, buonasera! È tanto tanto che non scrivo, e di cose di cui scrivere ce ne sarebbero state tante, specie dopo la nascita del “Ministero dell'istruzione e del ... merito!”. Ma purtroppo negli ultimi mesi ho dovuto pormi un altro tipo di interrogativi, ed ecco qui il verbale delle mie rimuginazioni, forse meno ironico rispetto al tono di questo blog, ma per me veramente importante dal punto di vista umano. Dunque mi piacerebbe che questo sfogo fosse letto e magari condiviso, perché credo con forza che questa battaglia debba essere combattuta, prima o poi: una battaglia per quei diritti che non costano niente ma quando li chiedi sembra tu stia chiedendo la luna. Una battaglia per la gentilezza. Mi aiutate? Oggi parlerò di ospedali. Di ospedali e di ospedalizzazione. Di cattiva sanità, anche, ma non per mancanza di strutture: di cattiva sanità per mancanza di amore per l'umanità. Purtroppo nel mio rapporto con gli ospedali non sono stata fortunata nella vita, sia perché ci sono finita spesso, sia perché ne sono uscita sempre portandomi dietro tanto di male e così poco di bene. Ma negli ultimi anni, soprattutto in seguito alla pandemia, mi sono interrogata spesso sul perché per me, come per tanta altra gente, l’essere ricoverati sia vissuto come un processo traumatizzante, dove il buon senso ci direbbe che dovrebbe invece farci sentire accuditi. A spingermi a scrivere queste parole è stato un evento recente: pochi mesi fa mi è stata prospettata la possibilità di dover subire un piccolo intervento, nulla di spaventoso rispetto alle mie vicende pregresse. Ordinaria amministrazione. Eppure alla notizia ho avuto una reazione spropositata e inaspettata anche per me (che soffro di ansia, e quindi alle reazioni eccessive un po’ sono abituata): sono caduta in uno stato di terrore assoluto, ho cominciato a avere incubi ricorrenti, crisi di pianto e attacchi di panico, al punto di arrivare a dire che sarei entrata di nuovo in un ospedale solo se fosse stata a rischio certo la mia vita. Mi ritengo una persona dotata di buona consapevolezza e sono abituata a lavorare su me stessa, perciò ho affrontato il problema sia riprendendo un percorso di psicoterapia, sia riflettendo più lucidamente possibile su cosa potesse aver portato il mio cervello e il mio corpo a reagire così. Un po’ di risposte credo di essermele date e mi concedo la presunzione di dire che non riguardano il mio caso personale ma molto più ampiamente l’indifferenza di noi esseri umani al dolore del mondo. (Poi magari qualcuno penserà che invece il problema sta proprio nel mio disturbo d'ansia, ma, del resto, anche a Leopardi qualcuno ha detto che la ragione del suo pessimismo stava nell'essere gobbo, quindi vabbé ^_–) E proprio per riprenderlo, il nostro Leopardi, non esiste medicina contro l’infelicità perché gli uomini sono fragili e piccini di fronte ad una Natura indifferente e grande: ma esistono gesti per rendere quell’infelicità attraversabile, e questi dovrebbero essere alla base di ogni istituzione che pretende di “curare”. Peccato che l’impianto burocratico, l’eterna paura delle denunce e delle leggi, le questioni economiche e a volte anche la faciloneria e l'incuria di un singolo li rendono molto rari. Nel 2015 ho subito una mastectomia bilaterale per tumore al seno: ero già paziente oncologica per un linfoma avuto in adolescenza, e già in cura per disturbo d’ansia. Durante il percorso dalla diagnosi all’intervento mi sono trovata nelle seguenti situazioni: – una dottoressa che, di fronte ad un momento di panico durante l’agoaspirato, mi ha accusata di non essere collaborativa e che la mia ansia era “una problema mio, non certo suo.” – un’infermiera che, durante un’attesa mia e di almeno altre 10 donne in fila per una visita (tutte con diagnosi di tumore), alla nostra richiesta del perché non arrivasse ancora nessuno a chiamarci (erano passate quasi 2 ore) ci ha trattate malissimo per aver solo osato formulare la domanda, perché lei “aveva da lavorare”. – un reparto che voleva negare a mio marito la possibilità di rimanermi accanto dopo l’intervento, unica possibilità per me per non cadere nel terrore più assoluto (ho dovuto presentare il certificato medico di una psichiatra per ottenere quello che dovrebbe essere un diritto mio e di qualunque donna in quella situazione). – anestesisti che, di fronte ad una paziente che spiega di avere una fobia per l’ago-cannula a seguito del trauma della chemioterapia, ti rispondono che queste sono questioni da psicologo e loro non possono farci niente. E non è vero. Non è mai vero che non ci si può fare niente. Di fronte ad un male terminale non si può fare niente, di fronte ad un intervento che va fatto perché ne va della vita non si può fare niente! Non davanti ad una crisi d’ansia durante un agoaspirato. Non davanti alla richiesta di avere qualcuno al tuo fianco in reparto. Non davanti alla fobia dell’ago-cannula (tra parentesi, quel giorno ho telefonato ad un amico medico: è dovuto intervenire lui perché io ottenessi il diritto ad una banalissima crema anestetizzante che non mi ha fatto accorgere dell’inserimento dell’ago… un gesto da niente, semplice ed innocuo… ma che nessuno si offre di fare per te a meno che tu non sia un raccomandato). Ripercorrendo solo gli ultimi cinque anni della mia vita gli esempi negativi si accumulano: una mia amica che è stata ricoverata per una degenza molto lunga ha ricevuto visite per un massimo di un'ora al giorno. Per il resto è stata in camera sola con se stessa a rimuginare sulla sua situazione. Un’altra ha avuto un intervento importante: il giorno successivo, come conseguenza dell'operazione, aveva bisogno di alzarsi spesso (con tanto di catetere e flebo) per andare in bagno. Ha chiesto che il marito potesse restare a darle una mano, glielo hanno negato dicendo che ci avrebbero pensato le infermiere: poi, al suono del campanello, le infermiere non arrivavano mai, perché erano un paio su un intero reparto, e l'hanno mollata ad arrangiarsi da sola. Una ragazza molto giovane ha avuto un incidente grave in cui ha rischiato la vita, ma hanno negato alla sua terapeuta di entrare in reparto. Una conoscente ha avuto una diagnosi terribile durante il covid: ha dovuto affrontare un intervento a cui poteva non sopravvivere. Non hanno permesso a suo marito di accompagnarla fino in sala operatoria perché c’era il virus. Il nonno di un mio alunno è morto di covid: ha detto addio a sua figlia e a suo nipote in videoconferenza. E infine, breve storia triste: una mia amica che lavorava in casa di riposo veniva puntualmente cazziata dai superiori perché perdeva tempo a “parlare con gli anziani” invece che sbrigarsi a fare il giro letti (alla fine si è levata dalle palle: brava). Se oggi qualcuno osa avanzare critiche a questo sistema, la risposta è che non si può fare di meglio: “c'è il covid.” Ma non c'era il covid, nel 2015. Il covid è solo la coperta sotto cui nascondere la polvere che c’era già. Perché è più comodo non fare entrare i parenti in ospedale, per esempio. Perché i parenti rompono le palle, si sa. Perché qui si deve lavorare (senza considerare che si lavora sulle persone.) E però, quando un anziano perde la testa perché è disorientato e fa impazzire tutto il reparto, allora si telefona ai parenti anche nel cuore della notte (covid o non covid), facendogli prendere un accidente, perché vengano a tenerlo a bada (non parlo a caso ma per esperienza diretta). Non lo si fa per il bene di quell’uomo: si fa perché quell’uomo non rompa il cazzo… altrimenti perché per una donna che potrebbe non sopravvivere ad un intervento non vale lo stesso criterio? In ospedale il trattamento non è uguale per tutti: chi dà problemi (o rischia di darne in futuro con denunce varie) riceve delle attenzioni in più. Di conseguenza alla persona più mite non vengono riconosciuti dei diritti banali... così, la prossima volta sarà lei ad essere fastidiosa e aggressiva, e metterà ogni singola mancanza in mano al suo avvocato, ed è un cane che si morde la coda. Ma perché non possiamo riconoscere a tutti quei diritti banali? È davvero così pericoloso aprire gli ospedali alla possibilità che una persona cara stia vicino al paziente? È così faticoso, di fronte ad una persona in preda al panico, chiederle semplicemente se ci sono piccoli accorgimenti che la farebbero sentire meglio? Se il giorno in cui sono andata in crisi per la paura di un ago cannula, l’anestesista, invece di guardarmi come una pazza, mi avesse chiesto: “Cosa possiamo fare per risolvere questo problema?”, io non avrei rotto le palle a nessuno e la mia esperienza ospedaliera sarebbe stata meno angosciante. Metà delle persone che conosco vivono il ricovero come “andare in carcere”, che è veramente la premessa peggiore per affrontare una malattia. Però è facile pensarlo perché in ospedale spesso vieni trattato non da vittima ma da colpevole: colpevole di essere lì ad occupare un letto, di fare lavorare gli altri, di lamentarti, di suonare un campanello troppo spesso, di non essere semplicemente un oggetto poco ingombrante. In ospedale ci vorremmo mettere gli oggetti, e però ci vanno le persone. L’ultima volta che ho parlato con un chirurgo, di fronte alla mia osservazione che il ricovero era per me come combattere in trincea per veder rispettato il mio benessere emotivo, mi ha risposto citando le parole dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sottolineando che il “benessere psicologico e il benessere fisico devono essere ugualmente tutelati”. Ma davvero. Dove e quando? Per salvaguardare i corpi, ci dimentichiamo della gente tutta intera, così come per proteggere i sani da un virus abbiamo lasciato che i malati morissero come cani, abbandonati a se stessi (o con la vicinanza di uno sconosciuto, se erano molto fortunati). Non è vero che solo alla morte non c’è rimedio: purtroppo ci sono tante altre cose a cui non c’è rimedio, ed una di queste è l’esperienza di affrontare il dolore da soli. Ma siamo cattive persone, siamo individualisti, stressati, concentrati su noi stessi, vogliamo fare il più possibile con il minimo sforzo. E con la minima spesa, se vogliamo entrare nello specifico della carenza di personale. Lavoro nella scuola, e purtroppo non è diverso: i ragazzi DSA hanno dovuto aspettare una legge scritta (e quindi la possibilità dei ricorsi delle famiglie), per veder tutelati i loro diritti. Forse ci vorrebbe una bella legge che imponga all’intero servizio sanitario di rispettare i diritti umani più banali, come quello alla Felicità, per dirne uno. Perché se aspettiamo il buon senso umano, stiamo freschi... Scusate la lagna, ma è un rospo che avevo proprio bisogno di sputare. Se avete avuto esperienze simili, fate girare...