Sacchi Rossi

Se moriremo tutti sarà di burocrazia

Amici (?) dei “Sacchi Rossi”, buonasera! È tanto tanto che non scrivo, e di cose di cui scrivere ce ne sarebbero state tante, specie dopo la nascita del “Ministero dell'istruzione e del ... merito!”. Ma purtroppo negli ultimi mesi ho dovuto pormi un altro tipo di interrogativi, ed ecco qui il verbale delle mie rimuginazioni, forse meno ironico rispetto al tono di questo blog, ma per me veramente importante dal punto di vista umano. Dunque mi piacerebbe che questo sfogo fosse letto e magari condiviso, perché credo con forza che questa battaglia debba essere combattuta, prima o poi: una battaglia per quei diritti che non costano niente ma quando li chiedi sembra tu stia chiedendo la luna. Una battaglia per la gentilezza. Mi aiutate? Oggi parlerò di ospedali. Di ospedali e di ospedalizzazione. Di cattiva sanità, anche, ma non per mancanza di strutture: di cattiva sanità per mancanza di amore per l'umanità. Purtroppo nel mio rapporto con gli ospedali non sono stata fortunata nella vita, sia perché ci sono finita spesso, sia perché ne sono uscita sempre portandomi dietro tanto di male e così poco di bene. Ma negli ultimi anni, soprattutto in seguito alla pandemia, mi sono interrogata spesso sul perché per me, come per tanta altra gente, l’essere ricoverati sia vissuto come un processo traumatizzante, dove il buon senso ci direbbe che dovrebbe invece farci sentire accuditi. A spingermi a scrivere queste parole è stato un evento recente: pochi mesi fa mi è stata prospettata la possibilità di dover subire un piccolo intervento, nulla di spaventoso rispetto alle mie vicende pregresse. Ordinaria amministrazione. Eppure alla notizia ho avuto una reazione spropositata e inaspettata anche per me (che soffro di ansia, e quindi alle reazioni eccessive un po’ sono abituata): sono caduta in uno stato di terrore assoluto, ho cominciato a avere incubi ricorrenti, crisi di pianto e attacchi di panico, al punto di arrivare a dire che sarei entrata di nuovo in un ospedale solo se fosse stata a rischio certo la mia vita. Mi ritengo una persona dotata di buona consapevolezza e sono abituata a lavorare su me stessa, perciò ho affrontato il problema sia riprendendo un percorso di psicoterapia, sia riflettendo più lucidamente possibile su cosa potesse aver portato il mio cervello e il mio corpo a reagire così. Un po’ di risposte credo di essermele date e mi concedo la presunzione di dire che non riguardano il mio caso personale ma molto più ampiamente l’indifferenza di noi esseri umani al dolore del mondo. (Poi magari qualcuno penserà che invece il problema sta proprio nel mio disturbo d'ansia, ma, del resto, anche a Leopardi qualcuno ha detto che la ragione del suo pessimismo stava nell'essere gobbo, quindi vabbé ^_–) E proprio per riprenderlo, il nostro Leopardi, non esiste medicina contro l’infelicità perché gli uomini sono fragili e piccini di fronte ad una Natura indifferente e grande: ma esistono gesti per rendere quell’infelicità attraversabile, e questi dovrebbero essere alla base di ogni istituzione che pretende di “curare”. Peccato che l’impianto burocratico, l’eterna paura delle denunce e delle leggi, le questioni economiche e a volte anche la faciloneria e l'incuria di un singolo li rendono molto rari. Nel 2015 ho subito una mastectomia bilaterale per tumore al seno: ero già paziente oncologica per un linfoma avuto in adolescenza, e già in cura per disturbo d’ansia. Durante il percorso dalla diagnosi all’intervento mi sono trovata nelle seguenti situazioni: – una dottoressa che, di fronte ad un momento di panico durante l’agoaspirato, mi ha accusata di non essere collaborativa e che la mia ansia era “una problema mio, non certo suo.” – un’infermiera che, durante un’attesa mia e di almeno altre 10 donne in fila per una visita (tutte con diagnosi di tumore), alla nostra richiesta del perché non arrivasse ancora nessuno a chiamarci (erano passate quasi 2 ore) ci ha trattate malissimo per aver solo osato formulare la domanda, perché lei “aveva da lavorare”. – un reparto che voleva negare a mio marito la possibilità di rimanermi accanto dopo l’intervento, unica possibilità per me per non cadere nel terrore più assoluto (ho dovuto presentare il certificato medico di una psichiatra per ottenere quello che dovrebbe essere un diritto mio e di qualunque donna in quella situazione). – anestesisti che, di fronte ad una paziente che spiega di avere una fobia per l’ago-cannula a seguito del trauma della chemioterapia, ti rispondono che queste sono questioni da psicologo e loro non possono farci niente. E non è vero. Non è mai vero che non ci si può fare niente. Di fronte ad un male terminale non si può fare niente, di fronte ad un intervento che va fatto perché ne va della vita non si può fare niente! Non davanti ad una crisi d’ansia durante un agoaspirato. Non davanti alla richiesta di avere qualcuno al tuo fianco in reparto. Non davanti alla fobia dell’ago-cannula (tra parentesi, quel giorno ho telefonato ad un amico medico: è dovuto intervenire lui perché io ottenessi il diritto ad una banalissima crema anestetizzante che non mi ha fatto accorgere dell’inserimento dell’ago… un gesto da niente, semplice ed innocuo… ma che nessuno si offre di fare per te a meno che tu non sia un raccomandato). Ripercorrendo solo gli ultimi cinque anni della mia vita gli esempi negativi si accumulano: una mia amica che è stata ricoverata per una degenza molto lunga ha ricevuto visite per un massimo di un'ora al giorno. Per il resto è stata in camera sola con se stessa a rimuginare sulla sua situazione. Un’altra ha avuto un intervento importante: il giorno successivo, come conseguenza dell'operazione, aveva bisogno di alzarsi spesso (con tanto di catetere e flebo) per andare in bagno. Ha chiesto che il marito potesse restare a darle una mano, glielo hanno negato dicendo che ci avrebbero pensato le infermiere: poi, al suono del campanello, le infermiere non arrivavano mai, perché erano un paio su un intero reparto, e l'hanno mollata ad arrangiarsi da sola. Una ragazza molto giovane ha avuto un incidente grave in cui ha rischiato la vita, ma hanno negato alla sua terapeuta di entrare in reparto. Una conoscente ha avuto una diagnosi terribile durante il covid: ha dovuto affrontare un intervento a cui poteva non sopravvivere. Non hanno permesso a suo marito di accompagnarla fino in sala operatoria perché c’era il virus. Il nonno di un mio alunno è morto di covid: ha detto addio a sua figlia e a suo nipote in videoconferenza. E infine, breve storia triste: una mia amica che lavorava in casa di riposo veniva puntualmente cazziata dai superiori perché perdeva tempo a “parlare con gli anziani” invece che sbrigarsi a fare il giro letti (alla fine si è levata dalle palle: brava). Se oggi qualcuno osa avanzare critiche a questo sistema, la risposta è che non si può fare di meglio: “c'è il covid.” Ma non c'era il covid, nel 2015. Il covid è solo la coperta sotto cui nascondere la polvere che c’era già. Perché è più comodo non fare entrare i parenti in ospedale, per esempio. Perché i parenti rompono le palle, si sa. Perché qui si deve lavorare (senza considerare che si lavora sulle persone.) E però, quando un anziano perde la testa perché è disorientato e fa impazzire tutto il reparto, allora si telefona ai parenti anche nel cuore della notte (covid o non covid), facendogli prendere un accidente, perché vengano a tenerlo a bada (non parlo a caso ma per esperienza diretta). Non lo si fa per il bene di quell’uomo: si fa perché quell’uomo non rompa il cazzo… altrimenti perché per una donna che potrebbe non sopravvivere ad un intervento non vale lo stesso criterio? In ospedale il trattamento non è uguale per tutti: chi dà problemi (o rischia di darne in futuro con denunce varie) riceve delle attenzioni in più. Di conseguenza alla persona più mite non vengono riconosciuti dei diritti banali... così, la prossima volta sarà lei ad essere fastidiosa e aggressiva, e metterà ogni singola mancanza in mano al suo avvocato, ed è un cane che si morde la coda. Ma perché non possiamo riconoscere a tutti quei diritti banali? È davvero così pericoloso aprire gli ospedali alla possibilità che una persona cara stia vicino al paziente? È così faticoso, di fronte ad una persona in preda al panico, chiederle semplicemente se ci sono piccoli accorgimenti che la farebbero sentire meglio? Se il giorno in cui sono andata in crisi per la paura di un ago cannula, l’anestesista, invece di guardarmi come una pazza, mi avesse chiesto: “Cosa possiamo fare per risolvere questo problema?”, io non avrei rotto le palle a nessuno e la mia esperienza ospedaliera sarebbe stata meno angosciante. Metà delle persone che conosco vivono il ricovero come “andare in carcere”, che è veramente la premessa peggiore per affrontare una malattia. Però è facile pensarlo perché in ospedale spesso vieni trattato non da vittima ma da colpevole: colpevole di essere lì ad occupare un letto, di fare lavorare gli altri, di lamentarti, di suonare un campanello troppo spesso, di non essere semplicemente un oggetto poco ingombrante. In ospedale ci vorremmo mettere gli oggetti, e però ci vanno le persone. L’ultima volta che ho parlato con un chirurgo, di fronte alla mia osservazione che il ricovero era per me come combattere in trincea per veder rispettato il mio benessere emotivo, mi ha risposto citando le parole dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sottolineando che il “benessere psicologico e il benessere fisico devono essere ugualmente tutelati”. Ma davvero. Dove e quando? Per salvaguardare i corpi, ci dimentichiamo della gente tutta intera, così come per proteggere i sani da un virus abbiamo lasciato che i malati morissero come cani, abbandonati a se stessi (o con la vicinanza di uno sconosciuto, se erano molto fortunati). Non è vero che solo alla morte non c’è rimedio: purtroppo ci sono tante altre cose a cui non c’è rimedio, ed una di queste è l’esperienza di affrontare il dolore da soli. Ma siamo cattive persone, siamo individualisti, stressati, concentrati su noi stessi, vogliamo fare il più possibile con il minimo sforzo. E con la minima spesa, se vogliamo entrare nello specifico della carenza di personale. Lavoro nella scuola, e purtroppo non è diverso: i ragazzi DSA hanno dovuto aspettare una legge scritta (e quindi la possibilità dei ricorsi delle famiglie), per veder tutelati i loro diritti. Forse ci vorrebbe una bella legge che imponga all’intero servizio sanitario di rispettare i diritti umani più banali, come quello alla Felicità, per dirne uno. Perché se aspettiamo il buon senso umano, stiamo freschi... Scusate la lagna, ma è un rospo che avevo proprio bisogno di sputare. Se avete avuto esperienze simili, fate girare...

Breve riflessione a seguito del post precedente. Mi sto ancora dannando per l'incidente del balcone e i risvolti giorno per giorno sono desolanti. Ho ripetutamente telefonato alla polizia municipale, che, a seconda di chi rispondeva al telefono, mi dava un parere diverso: uno diceva di chiedere d'urgenza l'occupazione di suolo pubblico e mettere le transenne (a mie spese...e dove si trovano due transenne dall'oggi al domani? Prossima volta che ci sono dei lavori vicino casa me ne rubo due di notte e le tengo nello sgabuzzino); uno suggeriva di appendere un cartello per indicare ai pedoni di passare dal lato opposto; uno mi ha persino detto che, in assenza di un muratore che venisse con urgenza, potevo pur sempre arrampicarmi su una scala per dare “due martellate” all'intonaco. Vabbè, sono solo lamenti e coi lamenti non si costruisce niente di buono. E però la verità è che quello che avrei sperato da una comunità organizzata (a cui pago un imu, una tari, ecc) in una situazione del genere era che si mostrasse in grado di dare soccorso. Che so, forse di mandare un tecnico a dare un'occhiata e mettere una transenna, forse di valutare che questa strada è troppo stretta e provvedere perché chi ci abita possa sentirsi sicuro in casa propria, o forse qualsiasi altra cosa: qualcosa che non ci facesse sentire abbandonati, o peggio, aggrediti. Ma non funziona così. Le istituzioni esistono per inerzia, non prestano aiuto a chi lo chiede, anzi fanno di tutto per strapparti due soldi o scaricarti responsabilità che dovrebbero essere collettive. È per gestire la vita comunitaria che votiamo assessori e sindaco. È per essere tutelati che ogni individuo, come insegnava Rousseau, è disposto a cedere una parte della propria libertà a favore dello Stato. Ieri ho ricevuto un'ordinanza del comune che mi intima di fare i lavori di ripristino entro 20 giorni, al fine di “garantire la sicurezza”. Ovvio, perchè la colpa è tutta mia: è colpa mia se ho una casa di cui pago un mutuo da 600 euro al mese, é colpa mia se un camion mi ha buttato giù il terrazzo ed è colpa mia se ho chiesto aiuto. Perché se fossi stata zitta ad arrangiarmi, almeno l'imbarazzo di sentirmi suonare alla porta da un ufficiale pubblico armato che mi chiede di firmare per ricevuta me lo sarei risparmiato. Sono una persona ansiosa e confusa, ma mi ritengo ancora un minimo capace di muovermi nel mondo. Se la stessa cosa capitava alla mia vicina di 85 anni, che faceva? Ho la sensazione cupa di vivere in un mondo ostile, che non è fatto a nostra misura.

Cantava il grande Jannacci:

“Eh, eh, eh, ma se me lo dicevi prima! Eh, se me lo dicevi prima! Come prima? Ma sì, se me lo dicevi prima! Ma prima quando? Ma prima no? Eh, si prendono dei contatti, Faccio una telefonata, al limite faccio un leasing. Se me lo dicevi prima... Ma io ho bisogno adesso, sto male adesso! Ma se me lo dicevi prima ti operavo io! Ma io ho bisogno di lavorare: io sto male adesso. Eh sto male e sto bene macché il lavoro e mica il lavoro... Posso mica spedirti un charter. Bisogna saperlo prima che dopo non c'è lavoro: prima, capito?”

Ed eccoci qua a raccontare inquietanti aneddoti della vita in un piccolo comune. L'amministrazione del comune di cui non farò il nome è – bisogna ricordarlo – quella a cui si deve il titolo di questo blog: i geniali creatori dei “sacchi rossi” in cui i malati covid dovevano conferire i rifiuti (ma i loro conviventi no: loro, pur mangiando alla stessa tavola e usando lo stesso bagno, dovevano continuare a differenziare!)... perciò è chiaro che non posso aspettarmi grandi prove d'ingegno. Ed io, infatti, non me le aspetto: ma almeno che la gente faccia il suo lavoro, quello si. O no? Vediamolo. Abito in una casa vecchia, in una via stretta stretta, e, ohimè, il mio balcone si affaccia sulla strada. Strada a doppio senso, ovviamente, per quanto ci passi un'auto per miracolo e per farne incrociare due bisogna che una salga con la ruota sopra il marciapiede. Quando mi trasferii a vivere qui, nel primo anno di permanenza il mio balcone venne colpito tre volte da camion di passaggio, con danni anche piuttosto seri che, due di quelle volte, ho dovuto pagare di tasca mia perché il conducente è fuggito via col vento. Indagando sul problema (leggasi: facendo una serie di passeggiate nei dintorni per vedere come era messa la segnaletica stradale) scopro che nella mia via non esiste un divieto d'accesso ai mezzi pesanti. Urrà. Dopo una serie di lamentele riesco ad ottenere un appuntamento col sindaco (in sostanza c'è voluta una telefonata alla polizia in cui urlavo come una pazza minacciando di denunciare il mondo intero dopo il quarto attentato alla stabilità del mio balcone e dei miei nervi) e, udite udite... vinco l'apposizione di un cartello di divieto d'accesso ai camion all'inizio della strada. Wow. Domandai anche se fosse possibile indicare l'altezza del mio balcone, che non si sa mai, ma mi viene risposto che no: c'è il vincolo paesaggistico! (Lo stesso vincolo che impedisce di mettere pannelli solari sul tetto, e non pensiate che io abiti in chissà quale borgo medievale a tutela Unesco: sto in un paese dormitorio come tanti, che ha la disgrazia di avere, qua e là, qualche madonnina settecentesca incastonata agli incroci delle strade). E vabbè. Il cartello almeno c'è, e per qualche anno funziona pure. Poi si apre la grande epoca di google, in cui nessuno guarda più i nomi delle vie e la segnaletica perché ascolta la voce del navigatore, il quale, ohimè, ignora puntualmente il divieto. Negli ultimi 4 anni, il mio balcone è stato urtato altre 3 volte, l'ultima stamattina. Il camion era talmente grosso che ho seriamente temuto che crollasse tutto: superata la paura terremoto, abbiamo preso atto di cosa fosse successo e abbiamo chiamato la polizia municipale. Ed eccoci qua alla scena epica. Polizia municipale: “Perché questo balcone è così basso?” Io: “Boh, non mi sono costruita casa da sola.” Polizia municipale: “Perché il cartello di divieto è solo all'inizio della strada e non viene ripetuto in prossimità del balcone?” Io: “È già un miracolo che il cartello ci sia: ce l'ho fatto mettere io.” Polizia municipale: “E perché nel cartello non c'è segnalata l'altezza?” Io: “Emh... Non progetto cartelli stradali. Non dovreste occuparvene voi?” Polizia municipale: “Noi? Ma no... la segnaletica riguarda l'ufficio ***.” Io: “...” (perplessità 1: credevo che la segnaletica stradale e chi poi la fa applicare condividessero almeno l'ufficio.) Polizia municipale: “E perché non c'è una targa che segnali l'altezza sul balcone?” Io: “Vincolo paesaggistico.” Polizia municipale: “Eh, beh, così però la segnalazione non è chiara. Forse in un caso del genere...” Io: “...” (perplessità 2: Vincoli paesaggistici o sicurezza? Mettetevi d'accordo, ragazzi) In sostanza, la polizia prende i dati del camionista e mi dice di telefonare nel pomeriggio per andare a firmare il verbale. Io: “Ma il balcone perde cocci! Due transenne no...?” Polizia municipale: “Questa è sua responsabilità.” Io: “E come faccio a sapere se il balcone è in sicurezza?” Loro: “Chiami il suo tecnico” (Il mio tecnico? Da quando sono tenuta ad avere “un tecnico”? Vabbè, ormai si dà per scontato che tutti abbiano il commercialista e l'avvocato...perché non anche un geometra pronto ad intervenire all'istante?) Io: “Se chiamo un tecnico, ho culo se viene domani. Se oggi pomeriggio cade una tegola in testa a qualcuno?” Loro (guardandomi come se fossi una deficiente): “È SUA responsabilità.” Io: “Posso metterci delle transenne improvvisate a spese mie?” Loro: “No. Ci vuole l'autorizzazione.” Io: “E chi me la dà?” Loro: “Il Comune DOPO la perizia del geometra.” Io: “E se il geometra viene domani e qualcuno si fa male adesso?” Loro: “È SUA RESPONSABILITÀ.” ... Quello che ho risposto: “Ok.” Quello che avrei tanto voluto rispondere: “ANDATE A MORIRE MALE.” In sostanza: compri una casa, ripari ripetutamente a tue spese un balcone incidentato a causa di segnaletica mancante, lotti col sindaco per ottenere che sulle strade sia messa almeno la segnaletica corretta, ti preoccupi che nessuno corra dei rischi a causa di un incidente che non è accaduto a causa tua (tu sei la vittima, porca miseria!), chiedi l'aiuto dell'amministrazione e di quelle che dovrebbero essere le autorità... e la risposta che ricevi è: CAZZI TUOI. Onestamente, ma le tasse le paghiamo per vivere in una comunità dove vige un criterio di tutela dei cittadini, o per sentirsi dire che se sei nella merda ti devi arrangiare da sola? E le forze dell'ordine non dovrebbero considerare una priorità il rischio che un disgraziato di passaggio si faccia male? Boh. Voglio andare a vivere su un'isola deserta.

PS. E sotto al balcone ci ho messo lo spago, due sedie e un cartello: meglio che mi multino per occupazione di suolo pubblico piuttosto che qualcuno si prenda un calcinaccio in fronte!

Torna l'autunno, torna il lavoro e ovviamente tornano i Sacchi Rossi. Oggi parlerò, a semplice scopo di sfogo personale, di un sacco rosso prettamente scolastico, ma che trovo rappresentativo delle perversioni della quotidiana burocrazia. Come sa chi ha letto qualcuno dei miei post, lavoro a scuola, ed essendo stato stabilito che “il covid è finito” (c'è la guerra, mica possiamo gestire due emergenze contemporaneamente, eh! Il multitasking è per pochi) ecco tornare in auge un vecchio classico: la gita. Apro e chiudo parentesi: nessuno vi senta mai dire “gita” perché: 1. se esce dall'orario scolastico si chiama “Viaggio di Istruzione” 2. se invece stiamo fuori una singola mattinata si chiama “Uscita didattica”: è importante proprio questa roba qua! Da quando insegno, ho imparato che sulla questione gite ogni anno parte un treno: vent'anni fa la segreteria ti accollava letteralmente tutto il lavoro, ho prenotato alberghi, fissato treni, musei eccetera eccetera. Poi è diventato illegale: ci vuole la gara d'appalto per l'agenzia... dunque tu scrivi il programma e lo mandi in segreteria, affinché la disgraziata di turno possa farsi mandare i preventivi. Minor lavoro per il docente? Magari! Moduli su moduli da riempire e pure questa simpatica incombenza: controllare che l'autista e la targa del pullman siano effettivamente quelli che l'agenzia ha indicato (e se una volta capita che l'autista si è ammalato ed è stato sostituito all'ultimo tuffo, apriti cielo: non si parte più). Altra simpatica parentesi: il docente ha anche il compito – per legge – di controllare il comportamento dell'autista, ad esempio che “non beva”... Insomma, se il conducente durante la notte si è fatto due grappini al frigobar dell'albergo, il disgraziato insegnante accompagnatore ne è direttamente responsabile, sapevatelo. Quest'anno le cose sono cambiate di nuovo (non so altrove, da me è così): la segreteria fa, sì, la gara d'appalto, ma solo per il Bus... il resto deve organizzarlo il docente accompagnatore, ma, udite udite, quest'ultimo non può maneggiare denaro, quindi il suo compito è quello di prenotare alberghi, musei, attività e poi chiedere ai genitori di organizzarsi in modo autonomo per i pagamenti. Risultato: se vent'anni fa gli insegnanti volenterosi amanti delle “gite” si facevano un culo infinito, oggi si fanno altrettanto un culo infinito, ma lo stesso culo, né più né meno, se lo fanno anche segretaria e genitori. E non si tratta di un carico suddiviso...si tratta proprio di un carico triplicato. Detto ciò, giunge il fatidico momento dei Consigli di Classe, in cui devono essere approvate le git... pardon, i Viaggi di Istruzione (nota bene: questo accade ad ottobre per i viaggi di maggio). Leggo l'ordine del giorno del mio consiglio, previsto per il 26 di ottobre, e comincio a pensare a dove portare la classe... Ma, mentre ancora non ho le idee chiare e mi scambio proposte nei corridoi coi colleghi, in data venerdì 21 di ottobre (le comunicazioni urgenti arrivano sempre di venerdì!) giunge una circolare che, con toni anche piuttosto imperativi, intima ciò: “Per i viaggi di istruzione compilare la scheda riepilogativa e far firmare dai genitori il benestare presente nel diario, compilare i preventivi di spesa, indicare il numero dei partecipanti, gli accompagnatori, i sostituti e consegnare TUTTI I MODULI debitamente compilati e firmati il 27/10/2022, entro la fine dell'orario scolastico”. Ora, cosa non torna: 1) Il Consiglio di classe decide ed approva il viaggio e ne discute coi rappresentanti dei genitori. 2) Il Consiglio di classe sceglie chi accompagna, chi sostituisce, ecc. 3) Il Consiglio di classe è tenuto a proporre più date alternative per il viaggio, affinché possa essere avviata gara d'appalto per i pullman. 4) Il Consiglio di classe non può preventivare la spesa, perché non conosce il costo del pullman prima della gara d'appalto. ... Ma soprattutto... se il mio Consiglio di classe si svolge il pomeriggio del 26, se il viaggio verrà discusso e approvato il pomeriggio del 26, se gli accompagnatori saranno scelti il pomeriggio del 26, se i rappresentanti dei genitori ne verranno informati il pomeriggio del 26 e se non saprò prima di un paio di mesi la data esatta del suddetto viaggio, in che modo io posso avere le autorizzazioni dei genitori firmate entro la mattinata del 27? Viva il senso del tempo.

A volte mi domando se le pubbliche amministrazioni frequentino corsi di formazione su come tritare i coglioni a coloro che si trovano costretti a presenziare agli “eventi istituzionali” (brrr...) che periodicamente organizzano. Dalla celebrazione di questa o quella giornata del *** (segue concetto paraculo a caso che solo il più cinico degli uomini potrebbe ignorare) all'evento sportivo o culturale, alla presentazione di un libro o all'inaugurazione di una strada, ogni volta che mi trovo incastrata in una di queste imbarazzanti situazioni il copione si ripete con una prevedibilità direi robotica. Al primo posto c'è l'immancabile e temutissimo momento dei “saluti” (istituzionali, ovviamente, che sennò suona meno figo), che spesso finisce per occupare molto più tempo del previsto (ma ogni speaker inizia con “sarò breve”) e in genere si riduce ad un elenco di personalità che probabilmente non sanno nemmeno cosa si sta celebrando, ma guai a dimenticarne una perchè si offenderebbero mortalmente. E così si comincia con “Ringraziamo l'amministrazione comunale per averci concesso di essere qui” (ovviamente lo fa per un atto di puro amore, e non perché gli conviene, proprio no!), “ringraziamo l'assessore Caio e il sindaco Sempronio” (come se permettere l'organizzazione di un evento pubblico non facesse parte dei compiti per cui sono stati eletti) “ringraziamo l'Associazione, e lo Sponsor, e il carretto dei gelati, e il tizio che passa per strada, e mio fratello, mio cugino, lo zio, il cognato, il cane ed il gatto...” La lista è spesso lunga, eh già. Tanto che quando finisce io di solito già dormo. Ma finché l'istituzionale mantra rimane un semplice elenco, ancora ancora posso dormire in pace: il guaio è quando al rosario di nomi e cognomi si aggiunge il lungo momento in cui Caio e Sempronio, appunto, iniziano a incensarsi a vicenda e a cantarsela e suonarsela da soli (parlando anche di cose vecchie di anni di cui spesso l'auditorio non è a conoscenza). A quel punto al posto del sonno subentra l'orticaria: se posso, mi alzo e me ne vado, ma in genere, ohimè, non posso. È piuttosto difficile, salvo non mi abbia colta un desiderio dirompente di autolesionismo, che io scelga in libertà di infliggermi questo tipo di martirio. Ma, ohimè, accade. Nella mia semplice esperienza come docente, di momenti così, nel corso di un anno scolastico, se ne affrontano parecchi... schivarli è un'arte avanzata che non tutti padroneggiano, specie quando il tuo dirigente ci tiene tantissimo ad essere nella lista dei “ringraziati” e quindi spinge te e i tuoi alunni a sciropparsi mattinate piene di parole vuote. E tu, quindi, oltre al tuo disagio personale, devi anche cercare di dare giustificazione di queste iniezioni letali di noia ad una scolaresca scalpitante che non comprende come gli adulti possano trovare tanto gusto a stringersi mani ed applaudirsi tra loro, ignorando completamente il pubblico a cui si rivolgono. Una volta mi è successo di presentare un libro: mi è stato raccomandato di non dimenticare di ringraziare per prima cosa il sindaco e l'assessore alla cultura. Che non erano lì, non avevano letto il libro e di certo non avevano dovuto lavorare per un evento che io stavo organizzando gratuitamente, per il solo gusto di fare una cosa carina per la cittadinanza e per l'autore del libro in questione. Dio, quanto odio la “visibilità”. Ci fa perdere anche il valore della parola “grazie”.

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Buonasera amici dei Sacchi Rossi. È venerdì ed è il momento di godersi finalmente il fine settimana, dopo essere sopravvissuta a 5 giorni di lezioni un po' on line e un po' no, e soprattutto a come vanno chiamate tali lezioni sul registro elettronico, perché ormai ho imparato che scrivere “DAD” invece che “DDI” è un errore gravissimo. Imperdonabile. Dunque, stacco la spina e mi metto a cazzeggiare su facebook (pessima idea) ed ecco che mi scopro taggata in un post in cui amiche e colleghe plaudono entusiaste all'approvazione quasi unanime della Camera ad una proposta di legge che (cito dall'articolo da loro portato alla mia attenzione) “abilita all’utilizzo e alla valorizzazione delle competenze non cognitive in ambito didattico”. E qui già sulla terminologia avrei molto da dire, perché ci suggerisce parecchio su cosa ci si aspetta, in primis, dalle scuole, ovvero che adeguino il linguaggio già contorto dei loro POF, PTOF e sticazzof per inserirci frasi come “valorizzazionedellecompetenzenoncognitive”. Aiuto. Quindi niente, dai...prima del meritato blackout, il Sacco Rosso chiama! Non resisto alla tentazione di scrivere questo post, così alla fine, anziché piangere, magari mi faccio due risate. Scorro ancora l'articolo di cui sopra: “La proposta, presentata dall’intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà” (Oddio, che è?) “prevede una sperimentazione strutturata e inclusiva che valorizzi delle sempre più rilevanti competenze extradisciplinari”. Ok. Lo diciamo da anni, dove sta la novità? Il problema è semmai che dal momento in cui si è cominciato a parlare di life skills nella scuola, nessuno ha mai investito, davvero, del tempo e delle risorse per capire in che modo possano essere insegnate, e magari provare pure a farlo. Invece il tempo che sarebbe servito a noi insegnanti per UNA E UNA SOLA COSA (l'unica necessaria: ovvero dedicarlo ai ragazzi) è stato investito nelle seguenti e reiterate attività (per anni, dal 2012 ad oggi): 1) Inutili collegi in cui si decantava l'importanza delle competenze europee (e il fatto che tra le competenze europee ci sia l'espressione “spirito di imprenditorialità” mi fa politicamente orrore). 2) Stesura di curricoli per precisare come e quanto quelle competenze vengano “perseguite dall'istituto” (e giù paroloni con cui le scuole si auto-incensano facendo a gara a chi trova le espressioni più colorite). 3) Creazione di terrificanti griglie di valutazione in cui si pretende di accertare, tra le varie cose, se l'alunno: – “Ha cura e rispetto di sé, come presupposto di un sano e corretto stile di vita”. Che significa? Che viene a scuola pulito? Che segue una dieta corretta? E se non si igienizza le mani ogni tre per due o vuole scofanarsi due tavolette di cioccolato al giorno gli diamo una valutazione negativa? – “Ha attenzione per le funzioni pubbliche alle quali partecipa nelle diverse forme in cui questo può avvenire”. Questo poi è un incoraggiamento allo stalking. Che ne sappiamo, noi, di cosa questo ragazzo fa al di fuori della scuola? Abbiamo diritto di chiederglielo? Magari il giovanotto in questione fa volontariato in una RSA o è donatore di midollo osseo, ma non è sua intenzione sbandierarlo davanti ad un docente. – “È disposto ad analizzare se stesso e a misurarsi con le novità e gli imprevisti”. E qui la presunzione del “valutatore” tocca l'apice. Non comment. ... Io non so cosa preveda in dettaglio questa nuova proposta di legge e come verrà attuata, ma il ministro Bianchi l'ha accolta con parole di questo calibro: “L’obiettivo di tutti noi è garantire l’effettivo e pieno sviluppo di ogni giovane. Questo provvedimento contribuisce a costruire una scuola che mira alla formazione di qualità, per tutti e per ciascuno, e allo stesso tempo è luogo di relazioni. In altre parole una scuola che educa cittadine e cittadini consapevoli delle proprie capacità e inclusiva”. E graziealcazzo. Alzi la mano chi vuole invece una scuola che non forma gli studenti e che spera che i ragazzi non stringano relazioni tra loro ed escludano i compagni svantaggiati!

Scherzi a parte, la prima cosa che ho pensato io è stata questa: nessuno desidera davvero insegnare ai ragazzi a sopportare lo stress, a conoscere le emozioni e a gestirle, ad avere, insomma, una qualità della vita migliore. Perché per fare questo dobbiamo per prima cosa averle noi, quelle capacità, e concederci il lusso di donarle a noi stessi, e poi agli altri. E questo costa, perché significa ridurre la pressione lavorativa sul cittadino, significa decostruire l'idea che “farsi il mazzo” sia una dote, comprendere che arrivare non è tutto, che non ci sono traguardi da raggiungere ma solo strade da percorrere, che la gioia nella vita sta nel poter fare quello che ci piace ed essere lasciati in pace a farlo, ed avere spazio per farlo, e che nessuno dovrebbe porsi come un obiettivo sano il “diventare imprenditore di se stesso”. Ma per insegnare ai ragazzi questo ci vuole tempo – tempo vero e di valore, tempo donato – e quel tempo non solo non ci verrà dato, anzi, ci verrà sottratto perché servirà a... fare corsi di formazione per realizzare le ennesime griglie da compilare, in cui ci sbatteremo per ore a scegliere frasi come: “l'alunno gestisce lo stress in modo autonomo / appropriato/ adeguato / non del tutto adeguato / se guidato dall'adulto”, magari con l'istituzione di commissioni in verticale che parleranno di fuffa fritta, attingendo al linguaggio dei tempi moderni, quello che il governo stesso vuole sentire...quel linguaggio pieno di espressioni come “cittadine e cittadini consapevoli” “formazione di qualità” “valorizzazione del merito” ed altre parole odiose come “mission e vision”, “imprenditorialità”, “nuove tecnologie”, “senso civico” ed “eccellenze”... ... Alla fine del teatrino, immagino già i dirigenti scolastici che si battono il cinque vantandosi di quanto i propri istituti siano “avanti” e di che bei documenti sanno scrivere... Mentre i ragazzi – quelli vivi, che stanno in classe ed hanno bisogno del nostro TEMPO, non dei nostri documenti – non se li cagherà nessuno.

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Ciao! Se capiti qui per la prima volta, questo è “Sacchi Rossi”, il blog dove Stella Filante si lamenta di burocrazia, scuola, capitale ed altre imbarazzanti amenità. È molto che non scrivo niente, e mi domando se questo sia dovuto al fatto che poche cose mi hanno indignato ultimamente o che non mi è stato lasciato il tempo di indignarmi. Quindi esattamente di questo ho voglia di parlare oggi: del tempo. Il tempo della protesta come quello della gioia. Il tempo di guardare cosa non va nel mondo ma molto di più il tempo di guardare quello che, invece, va, e che vorresti fermarti ad ammirare ogni tanto, che vorresti goderti davvero.

Il tempo è denaro, direbbe il vecchio Scrooge. Rispondo: magari. Oggi, il tempo di chi lavora non è più nemmeno denaro (se non altro, non il mio): il tempo è, a volte, visibilità (e pure quella non mia, non nostra, ma delle aziende per cui lavoriamo). Il tempo è, anche, soprattutto, auto-difesa dalla gigantesca macchina dei Sacchi Rossi. Dalla tirannide dei Sacchi Rossi.

Sono un'insegnante, la mia giornata lavorativa comincia con un appello. Appello che deve essere fatto con cura, non per avere chiaro chi c'è o chi non c'è, ma perché... guai a dimenticarsi di spuntare un'assenza sul registro elettronico! Se poi quell'alunno dovesse rompersi una gamba o due tra le otto e le otto e trenta, deve essere ben chiaro che lui non era a scuola e che la scuola non ha alcuna responsabilità! E poi, mi raccomando, i ritardi: non dimenticarsi mai, cari colleghi, di segnalare che un alunno che manca all'appello delle 8:00 è invece presente alle 8:10, perché se per un malaugurato caso i genitori lo vedessero assente alle 8:15 quando invece lo hanno depositato sotto la porta della scuola, chissà quali storie potrebbero farci! La prima ora se ne va poi a ritirare giustificazioni (e a respingerne la metà perché il genitore non ha inserito la fatidica dicitura “dichiaro che mio figlio non presenta sintomi di covid”): poi, se tutto va liscio, forse facciamo lezione, ma attenzione a che non capiti, durante un'interrogazione, di mettere un voto negativo senza aver elencato una per una praticamente ogni domanda fatta all'alunno, perché in caso di ricorso come si fa? Ora di buco: la fatidica ora dei “fonogrammi” (la scuola è una fucina inesauribile di termini desueti). Se un alunno manca spesso a scuola, o ha combinato un pasticcio inenarrabile...che si fa? Si telefona, come è giusto, alla famiglia: ma questo atto di doverosa premura deve essere registrato in carta bollata perché, ancora in caso di ricorso, si possa certificare di aver fatto il possibile e l'impossibile per il bene del ragazzo. Pomeriggi: sul registro arriva almeno una circolare al giorno (non esclusi i sabati e talvolta le domeniche) e poi vanno caricate le programmazioni, riempiti i PDP (documenti, questi ultim, su cui ci vorrebbe un post a parte), devi prenotare uno per uno (e inviare le mail) i colloqui con la famiglia che ormai si svolgono solo on line, rispondere a centomila proposte di progetti (a volte voluti, a volte – più volte – imposti in nome della “visibilità dell'istituto”), e, se hai avuto la cattiva idea di accettare un incarico aggiuntivo, occuparti di bullismo, di intercultura, di legalità, di educazione alla salute, di ambiente e via e via... E in tutto questo vortice di stimoli, magari riuscire pure a pensare qualcosa che davvero desideri insegnare. Inutile dilungarmi ancora, chi fa il mio mestiere sa come stanno le cose: ma non sono qui per fare l'apologia dell'insegnante bistrattato e sottopagato; al contrario: penso che sia così in quasi tutti i settori e che, col passare del tempo, le cose stiano andando (andranno) sempre peggio. Perché il tempo per la vita non è considerato prezioso. Perché consideriamo normale che i due terzi della nostra giornata siano dedicati al lavoro. Perché siamo abituati all'idea che “prima il dovere e poi il piacere”, che la fatica è nobilitante, che sia normale pronunciare una frase aberrante come questa: “Avrò tempo di farlo quando andrò in pensione...” Ma noi non sappiamo se ce l'avremo, una pensione, e non per il luogo comune del collasso dello stato sociale. Ognuno di noi potrebbe, letteralmente, non esserci domani (o svegliarsi sotto ad un cipresso, per dirlo con la spiritosa Romina Falcone), e tutto quel tempo che speriamo di risparmiare per noi facendoci il culo adesso, tutti i soldini che contiamo di mettere da parte per il viaggio dei nostri sogni sono invece l'investimento sicuro di chi, col nostro tempo, ci guadagna ora. Come quando ricarichi la scheda del telefono in anticipo, insomma.

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Recita il sito di Trenitalia: “Dal 1° settembre viaggia in sicurezza solo con Green Pass o certificati equivalenti su Frecce, Intercity, Intercity notte, EC, EN, Freccialink”. Se invece viaggi sui regionali il Green Pass non è richiesto. Tradotto: “Viaggia in sicurezza per svago e per turismo sui nostri treni fighi che costano un trilione. Se invece sei un pendolare che deve andare a lavorare, puoi pure schittà!” Una gioia proprio.

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Attenzione attenzione, è estate. La gente, esasperata da due anni di stato d'emergenza, cerca di gioire un po' per alleggerire la mente e illudersi che la vita-come-era-prima non sarà vietata per sempre. Ovviamente, come è successo anno scorso, questo porta conseguenze, ce lo dovevamo aspettare: la responsabilità è di tutti e ce la siamo assunta consapevolmente, perché siamo andati al mare, abbiamo ricominciato ad andare in palestra, in piscina, siamo stati a cena fuori e in giro per saldi di fine stagione. Eppure, esattamente come l'estate passata, è scattata la corsa al capro espiatorio, che finisce per essere sempre lo stesso: questi giovinastri irresponsabili che vogliono fare festa e ballare, e soprattutto lo vogliono fare di notte (che, si sa, è il momento in cui il virus contagia di più!). E quindi, coprifuochi come se non ci fosse un domani; discoteche all'aperto, chiuse (ma centri commerciali al chiuso, aperti); guai a ballare, ma andare in palestra a tirar su pesi alitando in faccia al prossimo, concesso; vedere gruppi di ragazzi al parco senza mascherina, apriti cielo, ma vedere grupponi di quarantenni al ristorante con l'aragosta e la bottiglia nel secchiello, ok. Va così: i soliti “figliolini irresponsabili” sono i terribili untori, quando, se per un attimo spostassimo lo sguardo dall'aspetto puramente economico del problema e ci soffermassimo sul disastro emotivo che questa pandemia ha generato, vedremmo facilmente che quei “figliolini” sono vittime più di altri, perché un adulto solido, con una personalità già formata, sopravvive anche se gli vengono tagliati un po' di ponti, ma un adolescente esiste solo in relazione dei pari, ed è nella relazione che definisce se stesso. Dunque, un po' di tolleranza e un po' meno di odio nei confronti di questi ragazzi che ballano dove non si dovrebbe, che si “assembrano” sulle panchine dei parchi o che non perdono occasione per abbracciarsi e magari pomiciare in pineta: forse è socialmente più giusto che siano gli adulti a fare un passo indietro e a rinunciare ad un pomeriggio all'Ikea, prima di puntare il dito. E poi. E poi ci sono i capri espiatori che, oltre a offrire uno spazio a questi ragazzetti privi di senso del sociale, hanno anche il difetto di essere gay. È ciò che è successo allo staff dei locali della Marina di Torre del Lago (Viareggio), vittima di un'ordinanza che impone di spegnere la musica alle una e vieta spettacoli, animazione, e ogni altra forma di intrattenimento. Il provvedimento è circoscritto solo ad una strada, la strada, appunto, dove si affacciano il Mamamia con la sua omonima spiaggia (già bersaglio, quest'ultima, di tentativi di sabotaggio da parte dell'amministrazione che vanno avanti da anni), il Buddy, il Boca, il pub Le tre Scimmie... tutti noti luoghi di ritrovo della comunità LGBTQ+. Sulle motivazioni di questa decisione se ne sono sentite di tutti i colori: dagli ovvi problemi di “assembramento”, al fatto che le persone ballino nonostante i divieti, a storie ben più fantasiose come il fatto che la musica alta disturberebbe l'accoppiamento dei cinghiali e di altri animali selvatici in pineta... E qui, beh, come criticarli? Lo sanno tutti che le Drag queen fanno paura ai cebiatti e che i cinghiali sono allergici al trucco, no? Come assidua frequentatrice della zona, ci sono alcune cose che sento il bisogno di dire: – è vero, la gente balla per la strada e ballare è vietato (eh sì...ballare è vietato!), questo non lo posso negare. Tuttavia posso garantire che su quella strada non c'era più “assembramento” di quanto non ne abbia visto in passeggiata a Capoliveri (Isola d'Elba) questo luglio o sulle spiaggie delle Cinque Terre la domenica. – Gli intrattenimenti venivano fatti in assoluta sicurezza: le serate delle Drag Qeen di anno scorso erano svolte con posti prenotati a sedere, e le artiste stavano sul palco. – Il karaoke è sempre stato svolto con tutte le cautele: una sola persona per volta, microfoni igienizzati, se non, addirittura, portati da casa. – All'interno dei locali tutti indossavano le mascherine (benché i locali siano, oltretutto, semi-aperti) e al Mamamia veniva richiesto il greenpass per entrare, nonostante lo spazio fosse all'aperto. In sostanza: violazioni delle regole ci sono state un po' dappertutto, sotto gli occhi di tutti, e ampiamente tollerate. Solo qui c'è stato un intervento punitivo netto ed è difficile togliersi dalla testa il pensiero che non sia stato mosso da un intento omofobo e discriminatorio. Solidarietà totale agli amici della Marina di Torre del Lago, che ce la mettono tutta per essere corretti nonostante chi rema contro di loro e portare un po' di luce e leggerezza in questo periodo difficile.

Fan-art di Ultros, da Final Fantasy VI Fonte dell'immagine

Benvenuti o ben tornati su “Sacchi Rossi”, il blog delle lagne contro la burocrazia dell'universo.

L'argomento di oggi eccolo qua: “Accertato che il ministero dell'Istruzione indossa un grosso Sacco Rosso.”

Eh sì. Se ne è messo uno in testa e gli piace tanto tanto, così temo non se lo toglierà più. Qualcuno potrà obiettarmi che ce lo aveva pure prima e – ohimè – non gli si potrebbe dire di no. In fondo le cartacce (reali o virtuali) a chi governa piacciono da morire (e ogni tanto infatti qualcuno ne muore): se poi si parla di “istruzione” allora ci va a nozze! Solo che non ce lo dice, perché quello che il suddetto ministero si vanta di fare, invece, è di star trasformando la scuola in una fabbrica di “competenze per la vita”. Benone. Come lo fa? Ovviamente attraverso un bel set di griglie da crocettare, piene di parole in libertà, dove i poveri avverbi vengono tirati per i capelli per dare apparenza di varietà alle stronzate che scriviamo. Proprio così. Perché io – ri-ohimè – nella scuola ci insegno. (Si badi, stare coi ragazzi è stupendo, peccato che questa parte del mestiere consista sì e no nel trenta per cento del mio tempo-lavoro, e che il resto sia dedicato a tanta fuffa e muffa). Dall'alto della mia esperienza (=_=), dunque, vi sottopongo un simpatico esempio di come viene scritta una griglia di valutazione. L'ho inventata adesso, ma la dicitura definitiva vi giuro che è vera, viene dai “Traguardi per le competenze” dettati dal ministero nel 2012. E andiamo. – Livello basso (per carità, basso non si può dire: si dice “in via di acquisizione”): “L’allievo interagisce, guidato dall'adulto, in diverse situazioni comunicative.” Leggere: l'allievo si esprime, ma bisogna dargli una mano perché riesca a farsi capire. – Livello medio-basso (no, dai...facciamo “base”, che suona meglio!): “L’allievo interagisce in diverse situazioni comunicative, attraverso modalità dialogiche abbastanza rispettose delle idee degli altri”. Leggere: comunica, ma non sta a sentire o parla addosso ai compagni. – Livello medio: “L’allievo interagisce in diverse situazioni comunicative, attraverso modalità dialogiche quasi sempre rispettose delle idee degli altri.” Ok, questo ragazzino sa dire la sua e sta imparando a rispettare i turni di parola. – Livello medio-alto: “L’allievo interagisce in diverse situazioni comunicative, attraverso modalità dialogiche sempre rispettose delle idee degli altri.” Ovvero: è un buon conversatore/ascoltatore. – Livello alto: “L’allievo interagisce in modo efficace in diverse situazioni comunicative, attraverso modalità dialogiche sempre rispettose delle idee degli altri.” Cioè, non solo è un buon conversatore/ascoltatore ma è pure particolarmente persuasivo e brillante (e qui ci sarebbe da aprire una parentesi su chi esprime questo giudizio e con che criteri).

Ed ora, giochetto: trovate dove stanno le differenze tra le varie diciture! ... Lo avete fatto? Bene. Pensate a quanta fatica quei piccoli dettagli sono costati a un disgraziato di docente, che si è spremuto per ore insieme ai suoi colleghi su quei “quasi” e su quegli “abbastanza”, o sull'abusato “guidato dall'adulto”. Il tutto per rispecchiare il fatto che un ragazzino può saper dialogare in maniere diverse e deve crescere in questo...insomma, una roba normale che vogliamo però far suonare “alta”, “importante”, “figa” e soprattutto difficile, perché quanto più le parole son difficili tanto più son fighe, no? E in tutto ciò, poveri avverbi. Non vi immaginate le violenze quotidiane che subiscono gli innumerevoli “a volte”, “spesso”, “sempre”...per non parlare dei “generalmente”, tanto amati dal linguaggio scolastico.

Per carità, ho colleghi a cui questo sistema piace. Magari ci si orientano bene, gli rende più facile valutare. Ma vale la pena investirci tanto tempo? E le famiglie lo capiscono? Non mi ci soffermerò perché vorrei tornarci un'altra volta. Restiamo invece sui Sacchi Rossi. Anzi, sul Sacco Rosso di oggi: l'esame di terza media. Torno fresca fresca da una riunione (che doveva durare un'ora e ne è durate tre, ma di che ti lamenti, razza di sfaccendato di un impiegato pubblico? Sei in smart working, in fondo sei seduto sul tuo divano, no? Quindi zitto e sgobba). Ci siamo incontrati per discutere della “nuova modalità d'esame”. Ops. Nuova? Sì. Cazzo. Perché? Perché con il pretesto di “semplificare” l'esame a causa di questi anni difficili e per venire incontro alle “esigenze di sanificazione” (in sostanza, studenti e docenti non possono passarsi di mano in mano fogli pericolosamente infetti) sono state eliminate le prove scritte. E ok. Ce ne faremo una ragione. Con cosa vengono sostituite? Con un elaborato che (cito) “consente l’impiego di conoscenze, abilità e competenze acquisite sia nell’ambito del percorso di studi, sia in contesti di vita personale, in una logica di integrazione tra gli apprendimenti. L’elaborato consiste in un prodotto originale, coerente con la tematica assegnata dal consiglio di classe, e può essere realizzato sotto forma di testo scritto, presentazione anche multimediale, mappa o insieme di mappe, filmato, produzione artistica o tecnico-pratica”. Benissimo. Peccato che questi ragazzi, in tre anni di scuola media, non avevano mai sentito parlare di una modalità d'esame di questo tipo, ed erano arrivati ad oggi con un'altra idea. Vabbé, dai – ti autoconsoli – la costruzione dell'elaborato può essere un'esperienza stimolante, e poi non hanno gli scritti, piangeranno con un occhio solo! E invece no. Perché l'esame non si limita a questo. L'esame pretende di accertare le competenze linguistiche, civiche, logico matematiche, di risoluzione dei problemi, di padronanza delle lingue straniere eccetera eccetera attraverso un colloquio, che non riguarda solo l'elaborato. In sostanza, bisogna far parlare i ragazzi facendogli domande che attestino quelle competenze (dio, che parola di moda...la più taggata del mondo capitalista), senza – attenzione attenzione – ricadere nel “disciplinare”. Cosa significa? Che gli alunni, semplicemente, non vengono a sedersi davanti alla commissione con degli argomenti che avevano precedentemente preparato. Tremenda notizia per i timidi e gli insicuri. Ma ammettiamo pure che possa esser giusto. Che renda l'esame più “reale”, più autentico. Che possa esser persino auspicabile. Che possa diventare uno spunto per uscire dalla settorialità delle “materie” e tante altre belle cose, come ritiene il mio dirigente. ... Però questi ragazzi, che hanno vissuto due anni in cui le loro piccole certezze sono andate in frantumi e il mondo gli è cambiato sotto gli occhi, non avevano bisogno di cambiamenti ORA. Ora, proprio ora avevano bisogno di consuetudine e noia. Avevano bisogno di fare questo esame come lo avevano fatto i loro fratelli maggiori ed i loro genitori. Ne avevano bisogno, perché stanno vivendo questi orribili anni. E invece il nostro ministero dell'istruzione – nel mezzo di una pandemia globale, mentre ci sembra normale chiudere la gente in casa e impedirgli di stare vicino persino ad un malato grave in ospedale – trova normale divertirsi a fare innovazioni. A dicembre ha persino imposto ai docenti delle scuole primarie di cambiare completamente il modo di mettere i voti (a dicembre, già... per le pagelle di gennaio!). Altro che banchi a rotelle. Lo trova divertente? Io no.