Giornalista

Isaia Invernizzi, Bergamo

“La sensazione è che nessuno si sia ben reso conto di quello che è successo qui. Anche quando ne parlo con i colleghi, non riescono bene a capire le dimensioni della tragedia.”

giornalista

Che lavoro fai? Giornalista. Lavoro a l'Eco di Bergamo dal 2016, prima ho lavorato 8 anni a Bergamonews, un quotidiano online.

Fino a prima della pandemia di cosa ti occupavi, in prevalenza? Sono un redattore della cronaca cittadina. Seguo in particolare il Comune di Bergamo, ma l'amministrazione e la politica in generale. In più sono specializzato sull'analisi dei dati.

Mi sembrava infatti che avessi parecchia dimestichezza con numeri e grafici. In particolare rispetto al giornalista medio, che mi permetto di dire che non sembra così preparato in questo campo. Eh, no per niente. Siamo in pochi purtroppo.

Per quanto riguarda l'analisi dei dati hai seguito un percorso di formazione specifico o è più una cosa fai da te? Ho iniziato tanti anni fa in solitaria. Non ho una formazione universitaria specifica, il mio approccio è sempre stato giornalistico. Dai dati (analizzati bene) si possono ricavare molte notizie quindi ho deciso di investire tempo per imparare. Devo dire grazie ai tanti colleghi che mi hanno dato consigli.

Una delle conseguenze collaterali di tutta questa vicenda è proprio stato il fiorire di analisi dati, non tutte impeccabili devo dire. Sia sui giornali che “fai da te” sul web. Che ne pensi in particolare di tutti questi fisici, matematici o semplici appassionati che si sono lanciati nell'analisi della pandemia, nelle previsioni sulla sua evoluzione..? Il grosso problema di tutta questa vicenda non sono tanto le analisi, ma i dati con cui sono state fatte le analisi. Cioè, i criteri di raccolta sono più volte cambiati nel tempo. Sono diversi tra Regioni. Sono parziali. Quindi le analisi fatte risentivano di questi limiti. Ci sono stati analisti e ricercatori che li hanno ben evidenziati. Altri invece no. Sulle previsioni lasciamo stare: un ricercatore serio, sapendo di che dati stiamo parlando, non dovrebbe iniziare nemmeno a farle.

Ora qual è il tipo di dato che segui più da vicino, per monitorare l'andamento della fase 2? Noi stiamo guardando soprattutto i dati dei decessi, che in provincia di Bergamo sono calati al livello di un anno fa dopo il boom di marzo. Poi la pressione sulle terapie intensive, anche quella calata. E infine il numero di contagiati, però con tutti i limiti che ti ho raccontato.

Torniamo un po' indietro, andiamo a febbraio. Raccontami dei primi giorni, cosa è successo quando avete iniziato a capire che stava montando una storia enorme. Io, come tutti, non mi sono accorto proprio di nulla. Ho continuato a fare il mio lavoro con pochissima protezione. Il 23 febbraio ho partecipato (da infiltrato) alla riunione di tutti i sindaci della provincia di Bergamo: 243 persone tutte in una sala con tutti i rappresentanti di Ats. Tutti senza mascherina. Nei giorni successivi sono stato inviato a raccontare la Valseriana che attendeva la zona rossa. Sono stato ad Alzano e Nembro quando ancora non c'era consapevolezza della potenza di questo virus. Solo dalla settimana dopo mi sono reso conto del disastro. Noi per fortuna siamo stati messi subito in smart working. Ma anche io mi sono ammalato, fortunatamente con sintomi lievi.

Ecco, te l'avrei chiesto più avanti. Immagino che una fetta enorme di colleghi (e familiari e amici) si sia ammalata. Sì, tantissimi parenti, colleghi, conoscenti. Mio padre ha preso la polmonite, per fortuna senza gravi conseguenze respiratorie. È riuscito a non essere ricoverato.

Madonna. Non so immaginare come dev'essere stato vivere in zona in quelle settimane. Ma il tampone te l'hanno fatto o sei uno dei tanti che sa di essersi preso il covid perché è ovvio dai sintomi ma senza conferma ufficiale? No, zero tampone. Ho chiamato il medico, l'ho avvisato dei sintomi. Mi ha detto che se stavo bene di stare a casa perché aveva migliaia di casi da gestire. Centinaia gravi.

Ed essersi ammalati ora ti dà una sorta di sicurezza in più? Te lo chiedo perché qui da me (io sono ligure) lo senti dai discorsi che tutti sperano di essersi già ammalati. “Ma sai che pensandoci a febbraio per qualche giorno ho avuto la tosse e non sentivo gli odori” No, guarda, io sto molto attento quando esco.

E questo vale in media anche per i tuoi concittadini? Qui io in questi giorni vedo una specie di rilassamento generale. Sono tutti con la mascherina, ma l'atmosfera è da “scampato pericolo” Sì, a Bergamo siamo stati tutti e siamo ancora molto attenti. Perché tutti hanno provato sulla loro pelle la forza di questo virus.

Mi dicevi che hai iniziato a capire che stava succedendo un disastro ai primi di marzo. Qual è stato il primo segnale? Sì, intorno al 7/8. Il primo segnale erano i morti e le terapie intensive che si intasavano. Noi abbiamo le pagine dei necrologi che hanno iniziato a diventare 4/5/6. Di solito sono due.

La singola notizia su cui hai lavorato tu e che più ti ha colpito, in tutto questo periodo, qual è stata? Sicuramente l'inchiesta con cui abbiamo ricostruito tutti i decessi avvenuti in provincia di Bergamo. È stato un lavoro straziante perché non c'era la consapevolezza delle dimensione enorme di queste morti. Abbiamo chiesto a tutti i Comuni di darci i dati dei decessi e lì sono venuti fuori casi limite. E in generale un aumento spropositato rispetto agli anni scorsi. Il tutto mentre alcuni esperti dicevano che era solo un'influenza.

In effetti un altro aspetto che mi ha colpito molto di questa faccenda è che, lasciando perdere i soliti produttori di fake news, anche nel mondo dell'informazione ufficiale e anche tra esperti se ne sentivano di tutti i colori, tutti hanno detto tutto e il contrario di tutto. Voi avete seguito un qualche criterio per riuscire a separare il grano dal loglio? C'è stato un grande disorientamento. Noi ci siamo aggrappati ai dati che sono incontrovertibili: i decessi. O sei morto o sei vivo. All'inizio anche noi abbiamo rincorso i dati dei contagi, poi dal 10/12 marzo abbiamo abbandonato tutto mettendo in chiaro a tutti – in primis i nostri lettori – che quei dati erano parziali e non potevamo raccontare cosa stava succedendo sulla base di quelli.

Bergamo ora ha il triste primato di essere il posto più colpito d'Italia, forse addirittura del mondo. Questa notorietà si è tradotta in qualcosa di pratico? Per esempio: un'aumentata tiratura del giornale, molte più pagine visitate, interviste da organi di stampa nazionali o internazionali. Sì, c'è stata grande risonanza internazionale. Se n'è occupato dal New York Times in giù. Noi abbiamo avuto, come tutti, una crescita di contatti al sito. Anche le copie vendute in edicola sono cresciute: questo è stato merito del fatto che abbiamo seguito tutto in modo molto approfondito e perché abbiamo raccontato tantissime storie di persone che ci hanno lasciato.

E tu personalmente? Io a un certo punto, non ricordo quando ma dev'essere stato a metà marzo, ho iniziato a leggere su fb “se vuoi capire cosa sta succedendo a Bergamo segui Isaia Invernizzi”. Ti si è riempita la casella di richieste di “amicizia” da parte di sconosciuti (tipo me 🙂)? Sì, anche se poi io dico sempre che lavoro esattamente come ho sempre lavorato. Ovviamente la visibilità è dovuta al fatto che siamo in uno dei luoghi più colpiti del mondo.

A proposito di lavoro: a parte il tema di cui siete stati forzati a occuparvi, è cambiato qualcosa anche nella pratica? Mi dicevi che siete tutti in smartworking, immagino che anche il giornalismo sul campo per un po' lo dobbiate mettere da parte. Esatto. Siamo quasi tutti in smart working. E soprattutto nella fase più calda siamo usciti pochissimo.

Questa fase due come la vedi? Mi dicevi che siete ancora tutti molto accorti, ma c'è qualche cambiamento rispetto a un mese fa? Per esempio una pressione per riaprire le attività commerciali e in generale tutti i lavori che sono stati chiusi. Io in questa fase 2 vedo molta incertezza. Non ci sono i dati per sapere come stiamo andando. Anche qui ovviamente la gente vuole tornare al lavoro perché Bergamo è un motore produttivo. Per fortuna ci sono dei protocolli abbastanza rigidi nelle aziende. Speriamo che vengano applicati. E soprattutto speriamo che mascherine e distanziamento sociale siano efficaci. Perché altrimenti sapremo troppo tardi di essere di nuovo nell'emergenza.

Ma il dibattito nazionale com'è, visto dall'epicentro? La sensazione è che nessuno si sia ben reso conto di quello che è successo qui. Anche quando ne parlo con i colleghi, non riescono bene a capire le dimensioni della tragedia.

Sì, credo anche io. Io in questi mesi ho visto un'Italia divisa in tre: le zone colpite in maniera terribile come la tua, le zone subito limitrofe, come la mia, dove la situazione era grave e siamo stati per tutto il tempo a sperare che non si deteriorasse, e poi le zone più distanti geograficamente, che me lo sembravano anche “mentalmente”, dove c'era una certa insofferenza per il lockdown e una preoccupazione (anche giustamente, dal loro punto di vista) più forte per le conseguenze economiche che per la sanità. Esatto. Proprio così.

Cerco sempre di concludere queste chiacchierate su un versante positivo. Non so se osare chiederti se c'è stato un qualche episodio curioso e non negativo che ti ha colpito in questi mesi. Guarda di positivo non mi viene in mente nulla. Dobbiamo ancora metabolizzare.

C'è una domanda che non ti ho fatto ma avrei dovuto farti? Un'angolazione che non ho coperto? Direi che abbiamo toccato un po' tutto. Alla fine io non so come ne usciremo da questa epidemia. Sicuramente qui in provincia di Bergamo ne usciremo un po' più soli. Perché se ne sono andate tante persone, soprattutto anziane, e tanti impegnati nell'associazionismo e nel volontariato.

Mi dispiace molto. Non so se ha senso fare condoglianze a un'intera provincia, ma mi viene da fartele, come suo rappresentante. Grazie 🙂.


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