Archivio – 2009 – Visualità – Giorgio Viali
Prove di riflessioni sulla visualità
26 marzo 2009
Giorgio Viali
L’organismo biovisivo vive della periferia dell’impero. Si sposta in
cerca di carburante per risettare e rigenerare la visione con
qualcosa di puro e candido. Essenzialmente autentico. L’organismo
stride e implode in se stesso. Nessuna nuova visione, nessun nuovo
stimolo visivo. Solo loop ancestrali televisivi fictionanti e deformi
ed ormai logori e inguardabili e privi di emozionali imput
assimilabili dalle generazioni di consumatori visivi di quarta
categoria.
Siamo dipendenti dalle visioni. Non possiamo che guardare. Vogliamo
guardare. Dobbiamo guardare.
La rete si stà spostando. I contenuti visivi stanno prendendo il
sopravvento. Una fotografia oggi è impraticabile. Solo un video ci
restituisce un senso e una fruibilità e una partecipazione e la
possibilità di immedesimarci e godere.
Anche la pornografia, buona cartina di tornasole, si stà oggi
spostando e adottando un nuovo paradigma visivo che prevede in primo
luogo il video, poi, ma solo in assenza del primo, della mera e
inadeguata fotografia.
La rivoluzione visuale. Non ho idea di quanto si dovrà aspettare. Anni
forse. Prima che le infrastrutture ci consentano di sostituire il
testo e le immagini al movimento del testo e delle immagini. Tutto
videalizzato. Tutto videazionato. Tutto videato. Immersi in un
universo di movimenti e videazioni sottotitolate all’occorenza e
sottodimensionate. Snackerizzate. Parcellizate. Pillole monovisive
clippate, elasticizzate da elementi vettoriali visivi che scompaiono e
riappaiono e linkano altri sguardi e visioni e movimenti
impercettibili di una videocamera che diventa il nostro unico
sguardo.
Siamo ciechi. Lo siamo da molto. Viviamo al buio e siamo
impossibilitati a guardare. Se non un monitor o un qualsiasi display
analogico o digitale. Pulsante. Vivo.
Provate a immaginare cosa vorrà dire.
Google che senso avrà in un ambiente visivo?
Google è archeologico. E’ basato sul testo.
E’ un dinosauro algoritmato e deterministico e fossilizzato e
entropico nel suo lento dimenticare e nel conservare inerzialmente
memorie ormai scomparse dal web.
Google è l’autorità da superare. L’establishment da corrodere o
semplicemente da dimenticare. Insieme a produzioni cangianti e atone
e violente e provocatorie come Myspace e Facebook.
Inutilmente abitate e dove la sicurezza personale è diventata
paragonabile alla mancanza di sicurezza percepita nella vita reale e
concreta come nei movimenti dentro le infrastrutture ormai
completamente pubbliche di una qualsiasi città. Mille occhi che
guardano e sorvegliano ogni spazio pubblico. Tanto che uscire vuol
dire esser visto e sorvegliato e posizionato e percepito da sistemi
visivi automatici e impersonali. Se non satellitari.
Ancora materiale visivo. Da archiviare, da catalogare, da conservare,
da far fruttare.
Ed allora in una sorta di colonizzazione visuale oggi la domanda
visiva di autenticità e di percezione visiva fruibile e sensata e
autentica si sposta e invade territori fisici dell’est e del sud
mondiale per sfruttare e produrre elementi visivi da offrire ad un
pubblico sempre più parcellizzato e individuale che ha bisogno di
purezza e di candore e di autenticità.
Sfuttamento ancora inavvertito. Per ottenere degli elementi visivi che
oggi siamo incapaci di produrre da soli, perchè troppo smaliziati,
troppo immersi in un mondo visivo fashionato e dove mettersi in
mostra davanti alla telecamera significa cedere una parte della
nostra possibile immagine simbolica e iconografica. Manifestamente
quantificabile e monetizzabile.
E il movimento perennemente accartocciato dentro sterili polemiche e
impossibili condivisioni assordanti e inumame che fa?
Come si colloca all’interno di questa prospettiva. Come si colloca
all’interno di una produzione, questa volta umana, che percepisca e
si riappropri del reale e utilizzi risorse locali per la produzione,
senza puntare su decentramenti produttivi inumani e inutili e
inappropriati? Cosa fa? Cosa produce? Cosa distribuisce? Possibile
che non ci siano produzioni visive e visuali che non siano ancorate al
documentario e alla notizia? Come se l’immaginazione o la fiction
(tragica, iconografica o narrativa) fosse impraticabile o sporca o
degenere o mercificata o inappropriata o …
Ha senso oggi pensare ad un collettivo videazionista o a una cellula
visiva destrutturante o rekombinate, rizomatica e ancorata come un
parassita ad un territorio o a una realtà politica. Che faccia
sperimentazione e si muova sempre e solo ai confini visivi dei format
deformati dalla pubblicità?
E’ possibile? Praticabile?
Oggi l’uso del visivo è cambiato. Si guarda da soli. Siamo soli anche
di fronte ad un film, ad una fiction, ad un cortometraggio. Youtube,
altra faccia fascista della rete myspacezzita e bookfacizzata, inonda
e provoca solo sguardi destrutturati e delocalizzati e insensati.
Privi di un contesto e di una storia. L’elemento storico sembra
veramente scomparso. La produzione come processo. Come making
conflittuale e ruvido. Compresso tra personalità e individualità
incongruenti e settiche.
Ma non è colpa loro e nessuno chiede che si torni a visioni collettive
o a cellule visive pluripersonali.
E l’ideazione, la progettazione e il casting come ultimo elemento di
un possibile contatto con la materia emotiva umana e la sua
complessità. Il casting come unico e possibile messaggio. Punto di
contatto e punto di rottura di universi paralleli.
Discrepanza non solo tra l’immaginario visivo umano e la concretezza
fisica di un volto connotato e definito, di un corpo con una storia,
forgiato dai tagli e dalle sottrazioni emozionali, ma come costante e
necessaria verifica dell’impossibilità di sopravvivenza in una
borderzone visiva. Il casting come message in a bottle verso universi
che ancora percepiamo come essenziali ma che ci hanno tolto. Che non
potremmo più avere.
Resistenza visiva. Making sovversivo. Casting involontario.
Accettare i limiti di una trasposizione visiva dell’immaginario per
offrire un’alternativa non intubata (inTube/ata) e vivisezionata
dentro format pubblicitari inumani.
Siamo soli davanti ad un video perchè lo abbiamo scelto. Perchè è
un’evoluzione inevitabile. Siamo soli davanti ad un video come siamo
soli davanti ad un libro.
E non può essere diversamente. Con la possibilità di saltare delle
pagine, di tornare a leggere, di chiudere e riprendere la visione.
Ma siamo impossibilitati a prevedere. A praticare delle strade di
sperimentazione visiva perchè occorrono strumenti e banda e capacità
elaborative che non sono alla nostra portata. Per cui continuiamo a
scrivere e a leggere. E a guardare quello che la rete ci propone.
Quello che il mercato visivo produce sfruttando manufatti amatoriali
e terzomondisti sottoprodotti e sottopagati.
FilmMaking è un fare concreto (riprendere e recitare)
che nasce dall’amore profondo per il cinema. Non ha alcuna finalità
economica, e si svolge, fuori da ambiti e ruoli definiti, in un luogo
(fisico e mentale) in cui il regista e l’attore/attrice possono
perdersi all’interno di un percorso emotivo personale di ricerca
della bellezza.
[Giorgio Viali – Marzo 2009]