gpdimonderose

morte, il tuo trionfo?

Ed ecco, nel cornicione che affianca le nove scene, le figure dei Profeti e delle Sibille: tutti ispirati da Dio, ma in modo diverso, hanno il presentimento della Redenzione: se i primi la prevedevano con certezza, le Sibille, dal confuso orizzonte del mondo pagano, hanno saputo farsi interpreti del perpetuo anelito al rinnovamento dell’uomo, al di là delle tenebre. Sembrano compresse in troni troppo piccoli, le Sibille di Michelangelo, esponenti di un’umanità quasi asessuata, primordiale, colta nel momento di un improvviso risveglio, quasi una faticosa percezione della profezia, che suscita faticose, titaniche torsioni, in uno sforzo immane per uscire da una materia che sembra opprimerle: lo sforzo tutto michelangiolesco di una verità nascosta, di uno spirito incatenato che si dibatte per liberarsi e sprigionarsi.

La Sibilla Cumana della Sistina è agli antipodi della ricca signora dipinta da Van Eyck: non c’è grazia, non c’è femminilità in quelle forme gigantesche e mascoline della corporatura, in quel braccio poderoso che sorregge il libro, che sembrano contrastare con i tratti marcati e rugosi di un volto di vecchia. Le vesti sono disadorne, essenziali, spoglie; una sacca appesa al sedile sembra suggerire che non è propria dell’uomo la stabilità, che siamo tutti eterni pellegrini nel tempo della salvezza. Eppure, a questa donna così fuori dai canoni della femminilità ideale, è affidata, partendo dalle parole del poeta latino Virgilio, la profezia della nascita di un bambino generato da una vergine, che avrebbe aperto agli uomini un’era di pace e di felicità. Virgilio, primo secolo avanti Cristo, si salda idealmente alle parole del più antico Isaia, che, non a caso, Michelangelo ha affrescato proprio accanto alla Cumana: “Ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio che si chiamerà Emmanuele”. La grazia di Perugino, l’eleganza pensosa di Van Eyck, la pelle nera di Siena, la vecchiaia quasi deforme di Michelangelo: ritratti di donne di mondi diversi, capaci di andare oltre, di guardare lontano... in ognuna di esse possiamo trovare qualcosa di noi. Tanti accordi che si uniscono in un’unica grande voce. La voce delle Sibille capace di vincere di mille secoli il silenzio.

  • Chiara Magaraggia

*FONTE. Congregazione delle Suore Orsoline del Sacro cuore di Maria (ripresa parziale – senza immagini).

Rispondere al messaggio

CREATIVITÀ —– Quando la cura è condivisione. La malattia, lo spunto per mettere in discussione la società tecnologica attuale (di Giovanni Ziccardi). 15 luglio 2016, di Federico La Sala

Il cancro e l’hacking della medicina (e della conoscenza)

Quando la cura è condivisione

di Giovanni Ziccardi (Il Mulino, 12 luglio 2016)

Rammento con lucidità il giorno in cui, alcuni anni orsono, Salvatore Iaconesi pubblicò su un sito web una lastra del suo cervello colpito da un tumore e diffuse un video, su YouTube, nel quale annunciava al mondo di avere il cancro.

C’eravamo incontrati spesso, negli ultimi dieci anni, a diverse conferenze e incontri hacker. Conoscevo bene la sua attenzione per la tecnologia, le sue competenze informatiche e la sua passione per la programmazione e per il codice, nonché le sue battaglie per l’apertura delle informazioni e del confronto scientifico e per l’estremizzazione della performance artistica.

Il pensiero andò subito non solo a lui ma anche a Oriana, la sua ragazza che spesso lo accompagnava, anche lei raffinata studiosa di comunicazione e appassionata di tematiche da sempre care alla comunità hacker e artistica nazionale e internazionale.

Oggi, nel libro La Cura (Codice Edizioni, 2016), Salvatore Iaconesi e Oriana Persico narrano di questa vicenda (ma non solo) in oltre 300 pagine di testo fitto e molto curato, aggiungendo innumerevoli particolari e «retroscena» a un fatto che molti di noi hanno seguito da lontano e ai margini, come amici, spesso frenati, nel domandare notizie o aggiornamenti, da quel pudore tipico che si manifesta quando si ha a che fare con persone care colpite dal cancro.

La Cura è un testo molto profondo, sia nella lettura sia nel necessario processo di comprensione ma, al contempo, assume spesso la forma di affascinante diario che non può che appassionare, commuovere o suggestionare anche il lettore non avvezzo a temi informatici.

Si tratta di un’opera scritta volontariamente «a strati» e a moduli, un universo di satelliti che possono essere affrontati in sequenza o letti senza un ordine, a caso, a seconda dell’interesse di chi legge. Nelle pagine si trova una grande storia d’amore ma anche un atto di omaggio al mondo dell’hacking e dell’apertura delle informazioni e del codice, una critica feroce ad alcune prassi (e istituzioni) mediche ma anche righe sincere di ringraziamento a medici e personale che hanno reso il malato più umano.

Salvatore e Oriana sono, per chi li conosce bene, menti molto articolate. Affrontano ogni problema, ogni questione, ogni punto sezionandolo e analizzandolo in ogni sua faccia, rendendolo pubblico e porgendolo alla discussione, spingendolo sempre al limite, tra tecnologia e performance artistica, sino a «esaurirlo» e a offrirlo all’interlocutore o al lettore in mille pezzi ma tutti interessanti e connessi tra loro. Lo stesso avviene in queste pagine, dove anche i passaggi più lineari sono resi interessanti dall’approfondimento e dal confronto.

Data la competenza degli autori, il titolo non deve ingannare: «la cura» non si riferisce a un libro che sveli una fantomatica cura per il cancro, o che voglia promuovere terapie, o che lasci spazio a teorie mediche alternative. Gli autori sanno benissimo, avendolo provato sulla loro pelle, quanto sia delicato il tema, e lo trattano sempre «in punta di piedi», con una pacatezza, una cautela nella scelta dei termini e una libertà assoluta nell’approccio che sono veramente degni di nota. Al contempo, però, prendono spunto dalla malattia in senso stretto per esporre i mali della società e per illustrare strategie (anche informatiche) per combatterli.

I temi affrontati sono decine, visti da diversi punti di vista (quello in prima persona di Salvatore, quello della sua amata Oriana, quelli contenuti in documenti scientifici, incontri e informazioni condivise o reperite in Internet), e non li voglio anticipare qui.

Ho, però, apprezzato alcuni aspetti che rendono La Cura non un «semplice» diario di una malattia, ma una piccola opera d’arte (o, meglio, una piccola performance artistica) con ambizioni molto più ampie.

La prima sensazione è che questo contrasto, in tutte le pagine, tra «apertura» e «chiusura», tra open e close, tra codice aperto e codice chiuso, tra segreto e pubblico, tra questioni discusse nelle stanze private o regalate, al contrario, al pubblico confronto, sia il cuore del libro.

Il cancro è tema, e malattia, che porta quasi naturalmente alla chiusura, alla non condivisione, anche e soprattutto nei rapporti umani. L’approccio di Salvatore e Oriana nel combattere la malattia puntando, invece, sull’apertura (apertura che parte, si pensi, dai formati dei dati attraverso i quali diffondere le informazioni mediche di Salvatore per permettere una sorta di «scrutinio globale e mondiale» di una cartella clinica) è indice chiaro di un approccio hacker che anche nella malattia, e non solo nella cultura o nel lavoro, può raggiungere grandi risultati.

La malattia diventa «condivisa» e pronta per essere sconfitta grazie anche alla raccolta incessante d’informazioni e a una selezione accurata delle stesse. Ma questa apertura, secondo Iaconesi e Persico, per essere efficace deve riguardare ogni aspetto della nostra società: le relazioni di ogni giorno, la burocrazia, le istituzioni, la quotidianità, i centri di potere, la salute e il suo «mercato», il benessere, l’amore, la solidarietà, la politica e l’ambiente. Una tecnologia che permetta non solo di comprendere meglio la società in cui viviamo, ma anche di vivere meglio tutti insieme.

Il secondo punto interessante, nel libro, riguarda il mondo della medicina e delle cure «visto dall’interno» da due soggetti da sempre attenti ai meccanismi sociali e che si trovano loro malgrado, improvvisamente, a doversi relazione e convivere con un «mondo» cui non solo non erano abituati, ma che non conoscevano affatto.

Qui esce l’idea di hacking o, meglio, di «cavallo di Troia». Il cercare dall’interno (della malattia, o dell’ospedale, o di un ufficio) i punti deboli e gli aspetti del sistema che si possono migliorare e, attraverso la condivisione delle informazioni, il tentare di migliorare il sistema, di correggere le imperfezioni, anche scrivendo nuovo codice informatico. Tra le tante «imperfezioni» che Salvatore e Oriana evidenziano, mi sembra che la disumanizzazione del paziente, il renderlo spesso un numero o un codice oggetto di un protocollo, e i rapporti «burocratizzati» dei familiari con i medici, siano gli aspetti più critici.

Il percorso verso «la cura» inizia quando Salvatore domanda la sua cartella clinica digitale, con tutti i dati degli esami preliminari. La richiesta della cartella clinica digitale è già pensata per poi renderla pubblica, per darla in pasto all’intelligenza collettiva della rete e per avviare un confronto. Nella convinzione, sempre, che la malattia non colpisca soltanto il malato ma anche tutti coloro che lo circondano e quindi, in definitiva, tutta la società.

Le parti di approfondimento che ho più apprezzato, forse perché un po’ distanti dalle mie competenze, sono quelle relative all’evoluzione della medicina e al suo rapporto con la tecnologia che arrivano a prospettare veri e propri nuovi approcci al «processo medico» e alle enormi quantità di dati che rilasciamo durante la nostra vita anche con riferimento alla nostra salute, e che possono essere utilizzate per il nostro benessere. Molto spazio è poi dedicato, opportunamente, all’idea di open data e al suo rapporto con la medicina moderna.

I vari «strati» informativi del libro s’intersecano alla perfezione, consentendo anche approfondimenti mirati su alcuni argomenti tecnici o sociologici più ostici.

La malattia, in tal senso, diventa lo spunto per mettere in discussione tanti aspetti della società tecnologica attuale che, tramite l’apertura delle informazioni e l’hacking, può essere costantemente migliorata. Sempre, ricordano i due autori, con il necessario apporto di tutti i cittadini.

Rispondere al messaggio

CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE — L’eccellenza del Nietzsche italiano (di Federico Vercellone) 11 luglio 2016, di Federico La Sala

FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ “ANDRO-PO-LOGIA” ATEA E DEVOTA....

LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”

LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.

FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.

L’eccellenza del Nietzsche italiano

di Federico Vercellone (La Stampa, 10.07.2016)

Tra le poche cose che vanno relativamente bene in Italia c’è la filosofia. Nonostante il totale disinteresse della classe politica nei confronti della ricerca, l’Italian Theory emerge con ottimi risultati anche sul piano internazionale.

La filosofia italiana del secondo Novecento è segnata nel suo percorso dalla presenza influente della grande filosofia classica tedesca. È una vicenda che si avvia da lontano, perlomeno dalla grande rilettura di Hegel prodotta dal neo-hegelismo napoletano e da Benedetto Croce. Successivamente, grazie a Luigi Pareyson, emerge l’altro versante dell’idealismo tedesco, Fichte e Schelling, oltre a Goethe e ai romantici e a Nietzsche, nel quadro di un progetto filosofico volto a superare l’eredità neo-idealistica.

Proprio Nietzsche costituisce un punto di svolta. La grande impresa dell’edizione critica presso Adelphi delle Opere di Nietzsche, avviata nel 1964, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, apre un nuovo capitolo di notevole significato anche sul piano internazionale. È un capitolo che contribuisce a portare alla ribalta alcuni tra i più significativi filosofi italiani, da Massimo Cacciari a Emanuele Severino a Gianni Vattimo.

Su questo passaggio così significativo si sofferma Emilio Carlo Corriero in un volume ponderoso, equilibrato ed esaustivo uscito ora da Aragno, Il Nietzsche italiano. Il punto di avvio fondamentale, in un quadro per altro estremamente composito in relazione alla ricezione di Nietzsche, è l’idea di Crisi della ragione dibattuta in un volume del 1979 comparso da Einaudi a cura di Aldo Giorgio Gargani. Venuti meno i fondamenti della ragione classica, Nietzsche costituisce un indispensabile punto di riferimento per cogliere i tratti di un tempo di crisi dei fondamenti. Fare i conti con la «morte di Dio» e con il venir meno dei valori trascendenti comporta una rivoluzione del pensiero e dei modi di vita che mette in gioco aspetti fondamentali della nostra civiltà con implicazioni notevoli sul piano della convivenza civile, della morale pubblica, e della nostra provenienza religiosa dal mondo cristiano.

Rispondere al messaggio

CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. — LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE: “LA CITTA’ DIVISA” – “Stasis. La guerra civile come paradigma politico”. Note. 19 giugno 2016, di Federico La Sala

LA CITTA’ DIVISA [1997]: Questo libro è il capolavoro di Nicole Loraux [(1943-2003], la grande antichista francese da poco scomparsa. Esso tenta di ripensare da capo la polis greca, questo modello prestigioso di tutta la tradizione politica occidentale. La scoperta della Loraux è che a fondare la città greca, a fungere da paradigma alla democrazia, non sono né la libertà, né l’unità, né la comunità, ma qualcosa come un paradossale legame attraverso la divisione. – Si tratta, cioè, di ripensare Atene sotto il segno della “stasis”, della guerra intestina, che divide e insanguina non solo la città, ma anche, l’”oikos”, la famiglia – o, piuttosto, circola, in un movimento incessante, dalla famiglia alla città, dai fratelli rivali ai cittadini nemici. – La guerra civile non è, però, soltanto rottura e anomia, ma costituisce il legame politico segreto che anima e segna profondamente la vita e le istituzioni della democrazia greca, dal giuramento all’amnistia, dalla vendetta alla riconciliazione. -Una città divisa deve essere, infatti, capace non solo di ricordare, ma anche di dimenticare, di ricomporre attraverso l’oblio (l’amnistia) l’unità perduta. E a poco a poco, come in ogni grande libro di storia, l’analisi del passato permette di guardare in una nuova luce le divisioni e i conflitti, la memoria e la smemoratezza della società in cui viviamo. (Neri Pozza Editore, 2006) – LA CITTA’ DIVISA: INDICE. Introduzione, di Gabriella Pedullà – Prefazione – La città divisa: sopralluoghi – I. L’oblio nella città – II. Ripoliticizzare la città – III. L’anima della città – Sotto il segno di Eris e di alcuni suoi figli – IV. Il legame della divisione – V. Giuramento, figlio di Discordia – VI. Dell’amnistia e del suo contrario – VII. Su un giorno vietato del calendario ateniese – Politiche della riconciliazione – VIII. La politica dei fratelli – IX. Una riconciliazione in Sicilia – X. Della giustizia come divisione – XI. E la democrazia ateniese dimenticò il “kratos” – Ringraziamenti – La guerra nella famiglia

LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.

FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ “ANDRO-POLOGIA” ATEA E DEVOTA.... – LA RISATA DI KANT

KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO (“SECUNDA PETRI”) VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO (“SECUNDA PAULI”).

CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico

CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.

Giorgio Agamben – Stasis. La guerra civile come paradigma politico, [1]

di Mauro Balestrieri *

Nell’opera complessiva del filosofo italiano Giorgio Agamben emerge con singolare nettezza l’articolato e celeberrimo progetto che va sotto il nome di Homo sacer. È questa un’opera densa e articolata, avviatasi verso la metà degli anni ‘90 con l’omonimo saggio (Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 1995) e definitivamente conclusasi di recente con il volume L’uso dei corpi (Neri Pozza, 2014). Eppure, nella mente e nella penna dell’Autore sembra permanere ancora lo spazio per un’ulteriore incursione nel politico – un’incursione, forse, tra le più problematiche e complesse finora affrontate dall’intellettuale italiano. È questo il caso del recentissimo saggio Stasis. La guerra civile come paradigma politico, che raccoglie i contributi di due conferenze tenutesi presso l’Università di Princeton nel 2001; etichettato con la dicitura Homo sacer, II, 2 il testo si frappone tra il precedente Stato di eccezione ed il successivo Il Regno e la Gloria.

A un primo sguardo, i temi del nuovo volume appaiono collegati e opposti nel medesimo frangente. Da un lato, si assiste a un breve esame critico della nozione greca di stasis, che sinteticamente va a indicare la guerra civile combattuta all’interno di una stessa comunità politica tra fratelli e concittadini. Dall’altro, trova invece spazio un originale e innovativo studio sull’opera più nota del filosofo inglese Thomas Hobbes (Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common Wealth Ecclesiastical and Civil, 1651), ossia su quella costruzione filosofico-giuridica che ergendosi al di sopra della moltitudine sociale scongiura per l’appunto il rischio del conflitto sociale.

Ciò che va fin d’ora notato, tuttavia, è che l’approccio prescelto dall’Autore non è tanto quello di chiosare le note affermazioni che tradizionalmente si ripetono negli studi di settore, né quello di elaborare ex novo una teoria della guerra civile. L’interesse scaturente dalle pagine del breve scritto nasce dal desiderio di tracciare un nuovo filone critico sotteso allo studio della cd. stasiologia, e di sopperire in tal modo alla lacunosità del dibattito filosofico e giuridico attuali.

Secondo Agamben, ciò che manca oggi è propriamente uno studio ragionato e consapevole sul conflitto civile, ossia un tentativo di pensare filosoficamente la crisi e lo scontro. Un tentativo, deve aggiungersi, che ben al contrario si attualizza nel desiderio compulsivo di gestire, risolvere e se possibile anticipare il caso serio, al fine di evitarne ogni possibile problematicità. Proprio alla luce di questa ansia di risoluzione, il dato intellettuale tristemente si smarrisce: a riprova di ciò stanno tanto l’assenza di testi giuridici e politologici di riferimento, quanto la crisi stessa del termine guerra civile, sintagma che nell’ambito internazionale si riduce oramai a fattispecie invocante il mero intervento regolativo degli organismi internazionali. Ecco dunque che di fronte alle civil (o, come sembra ormai consuetudine etichettarle, uncivil) wars non si elabora più una teoria volta alla loro comprensione, bensì si mira a un management delle medesime, ossia a un articolato sistema di iniziative che si esplicita nelle plurime attività «della gestione, della manipolazione e dell’internazionalizzazione dei conflitti interni» (p. 11).

Per colmare questa sorprendente mancanza, il breve saggio di Agamben si incarica di mostrare due eclatanti manifestazioni storiche di tale paradigma, ricorrendo alla tradizione politica della Grecia classica e al pensiero filosofico di Thomas Hobbes. La convinzione che muove l’Autore in questo particolare percorso è infatti che entrambi i momenti rappresentino «le due facce di uno stesso paradigma politico, che si manifesta da una parte nell’affermazione della necessità della guerra civile e, dall’altra, nella necessità della sua esclusione» (p. 12). Tale opposizione, in altri termini, è il segno concreto di una loro intima vicinanza, che il consueto stile espositivo agambeniano chiarisce nelle sue plurime implicazioni.

Prima di tutto, il doppio e opposto significato del termine stasis, che va ad indicare tanto il concetto di immobilità, stabilità e mantenimento dello status quo, quanto quello di sedizione, rivolta e infine rivolgimento politico. Nella sua prima accezione, il termine giunge fino ai nostri giorni nelle forme note di stato ed istituzione (entrambi derivando, come lo stesso termine stasis, dal radicale “-sta” del verbo greco hìstemi). Nel suo secondo senso, il lemma sembra invece essersi dissipato, permanendo solo come antica vox media di un paradigma politico più ampio e quasi sotterraneo.

Attraverso un’analisi delle sue molteplici ricorrenze sia in Tucidide sia in Platone, Agamben arguisce che in realtà l’emblematica indeterminatezza della voce ricade di fatto in una forma di ambiguità concettuale, in base alla quale la guerra civile esulerebbe tanto dall’oikos (ossia dal focolare domestico), quanto dalla pòlis (ossia dalla collettività urbana). Essa sarebbe quindi la zona di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città: «nel sistema della politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città, e la città si depoliticizza in famiglia» (p.24).

In definitiva, la stasis opera come un reagente che rivela l’elemento politico nel caso estremo, ossia come una soglia di politicizzazione che determina di per sé il carattere politico o impolitico di un certo essere. Ulteriore conseguenza è che questa stessa indeterminatezza concettuale si riverbera nel formante giuridico, così come mostrato dall’istituto penalistico dell’amnistia. Se infatti il prendere parte alla guerra civile era nell’antica Grecia politicamente necessario, a conclusione del conflitto interveniva comunque la pacificazione sociale, che attraverso le forme dell’oblio (amnistia – da amnestèo – indica appunto la dimenticanza) sanava retroattivamente la partecipazione attiva dei suoi componenti. In questo senso, la stasis non è qualcosa che semplicemente deve essere rimosso, ma è «l’indimenticabile che deve restare sempre possibile nella città e che, tuttavia, non deve essere ricordato attraverso processi e risentimenti» (p. 29).

Nella Grecia classica, possiamo allora concluderne, non si dà una sostanza politica omogenea, ma un manifestarsi irregolare e continuo di correnti tensionali e instabili, esprimentesi in ultimo grado nelle forme della politicizzazione e della depoliticizzazione, ossia nella commistione belluina della famiglia e della città.

Ora, è precisamente per sconfiggere questo scenario mortifero e abissale che Hobbes costruirà il suo Leviatano, quell’immenso automa o “Dio mortale” composto da una moltitudine di piccole figure umane tradizionalmente intese come sudditi.

Com’è facile scorgere esaminando i due diversi frontespizi dell’opera (l’uno vede rappresentati i sudditi con il viso rivolto verso il lettore; l’altro, coevo al primo, li coglie al contrario di spalle), gli esserini che compongono l’immenso meccanismo artificiale si uniscono saldamente gli uni agli altri. La spiegazione traslata è che ciò avviene per mezzo del loro reciproco accordo, che consente metaforicamente di compattarli dando luogo a quell’ideale corpo politico (body political) così caro al pensatore inglese.

Proprio la nozione di corpo politico, però, si presta alle più dure contestazioni: data la sua sfuggente consistenza, per Hobbes il popolo esiste solo nell’istante in cui si riunisce per nominare un leader o un’assemblea rappresentativa – ma in questo stesso istante svanisce improvvisamente. Il corpo politico, in altri termini, è qualcosa di altro e di impossibile, destinato continuamente a comporsi e subitaneamente a dissolversi nella costituzione del governo effettivo.

È in questo preciso passaggio che Agamben ricerca un’affinità con il summenzionato meccanismo di esclusione/inclusione visto a proposito della guerra civile nella Grecia antica: «se il popolo, che è stato costituito da una moltitudine disunita, si dissolve nuovamente in una moltitudine, allora questa non soltanto preesiste al popolo/re, ma, come multitudo dissoluta, continua a esistere dopo di questo [...] La moltitudine non ha un significato politico, essa è l’elemento impolitico sulla cui esclusione si fonda la città; e, tuttavia, nella città vi è soltanto la moltitudine, perché il popolo è già sempre svanito nel sovrano» (p. 55).

Hobbes, rendendosi conto di tale aporia, oblitera il paradosso della moltitudine/corpo politico risolvendolo, com’è noto, con il ricorso immediato al pactum subiectionis. Ma se ciò ha il pregio di spezzare il circolo che dalla guerra civile conduce alla riconfigurazione della multitudo dissoluta, permane quale operazione problematica e nient’affatto ultimativa – un’operazione che lascia scoperto l’enorme problema di una possibile ripresentazione dello stato di natura e quindi del conflitto generalizzato.

Senza dubbio, è in questi termini che fino a oggi è stato pensato il fine ultimo del Leviatano: la posticipazione indefinita del conflitto civile. Il covenant alla base della sua formazione agirebbe, si sostiene, quale forza frenante rispetto all’avvento della discordia intestina, ossia quale meccanismo giuridico in grado di disinnescare a priori la fine dei tempi rappresentata dal collasso politico. In fondo, si può anche dire, il Leviatano fa paura proprio per questa ragione: se come si è visto la multitudo dissoluta può effettivamente frammentarsi in ogni istante e generare quindi un nuovo conflitto, lo Stato deve continuativamente incutere timore, un timore rivolto all’impedimento immediato di ogni sua concreta demolizione.

Con un doppio ribaltamento, Agamben costruisce invece la propria conclusiva argomentazione accentuando la dimensione messianica e decisamente escatologica dell’intero pensiero hobbesiano. In tal senso il filosofo inglese, in accordo con il messaggio evangelico, configurerebbe il Leviathan quale “capo” di un political body, con ciò adoperando la nota immagine paolina che predica Cristo stesso quale “capo” dell’ekklesìa, ossia dell’assemblea dei fedeli.

Se Cristo è il capo del corpo dell’assemblea, allora il Leviathan è il capo del corpo politico. Questo rispecchiamento profano del messaggio paolino conduce però a una precisa conseguenza: «nello stato attuale, Cristo è il capo del corpo dell’assemblea, ma, alla fine dei tempi, nel Regno dei cieli, non vi sarà più distinzione fra la testa e il corpo, perché Dio sarà tutto in tutti [...] Ciò significa che alla fine dei tempi la finzione cefalica del Leviatano potrebbe essere cancellata e il popolo ritrovare il suo corpo. La cesura che divide il body political – soltanto visibile nella finzione ottica del Leviatano, ma di fatto irreale – e la moltitudine reale, ma politicamente invisibile, sarà alla fine colmata nella Chiesa perfetta» (p. 72).

Un nuovo messaggio sembra allora profilarsi quale cifra complessiva di questa antica filosofia: lo Stato (di matrice hobbesiana) non ha affatto la funzione e il ruolo di una forza frenante o catecontica. Esso non vuole in alcun modo posticipare la fine dei tempi, ma al contrario avvicinarla escatologicamente, in modo da rendere reali l’avvento del Regno e la consumazione dei tempi. Buffamente, lo Stato-Leviatano – che nell’immaginario di tutti predicava la garanzia per la pace e la sicurezza dei sudditi – partecipa invece a una visione apocalittica del potere, in cui l’avvento catastrofico del Giorno del Signore è la lettera conclusiva dell’intera esperienza politica occidentale.

Diverse tradizioni sembrano allora confrontarsi nell’immagine storica di questa figura: da un lato quella terrifica di uno Stato assoluto e indomabile, che ingloba senza esitazione le anime di chi tenta di impossessarsene (come sottolinea vividamente Bodin nella sua Daemonomania). Dall’altro, quella cabalistica e messianica che intravede al contrario il grande monstrum scomparire nel festivo banchetto delle sue carni.

Ma se la storia del pensiero politico sembra confinare tali interpretazioni all’archeologia del pensiero storico, una terza e parimenti inquietante forma di manifestazione è stata ben presente nella concezione dello Stato moderno. Una concezione che vedeva il Leviatano quale meccanismo artificiale e impersonale, in cui attraverso la generale neutralizzazione del politico si perveniva a una concezione del diritto quale strumento tecnico neutrale.

L’annoso conflitto tra legalità e legittimità, che oggi prende le forme degli imperativi tecnici e della logica economica, produce ancora manifestazioni assolutizzanti e dotate di un vero e proprio carattere normativo, quali è facile incontrare nelle forme atipiche della soft law e della governance mondiale. Tali istanze scompaginano le categorie giuridiche fondamentali, costruendo e decostruendo lo stesso simbolo del Leviatano, e agendo come operatori eccezionali in grado di (ri)fondare l’ordine politico mondiale.

È forse attraverso la secolarizzazione di questa remota provenienza che sembra giunta allora l’epoca della stasis globale – un’epoca, suggerisce Agamben, in cui la politica contemporanea ricerca il proprio senso teologico senza riuscire pienamente a coglierlo, perché preda di una dimenticanza remota e inquietante che rimonta alle origine stesse della propria costituzione. Il contributo di Agamben, pur nell’estemporaneità della sua trattazione, è allora un piccolo ma denso tassello di un’opera ancora da scrivere e, forse, ancora da pensare.

*

Philosophy Kitchen, Recensioni / giugno 2015

Rispondere al messaggio

CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. — MALEDETTO SIA COPERNICO! Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa (di L. Pirandello) 11 giugno 2016, di Federico La Sala

UN “GOJ”: IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE. – La ‘risata’ di Pirandello contro la vecchia e zoppa “sacra” famiglia ’cattolica’!!

§ 2. Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa

di Luigi Pirandello *

L’idea, o piuttosto, il consiglio di scrivere mi è venuto dal mio reverendo amico don Eligio Pellegrinotto, che al presente ha in custodia i libri della Boccamazza, e al quale io affido il manoscritto appena sarà terminato, se mai sarà.

Lo scrivo qua, nella chiesetta sconsacrata, al lume che mi viene dalla lanterna lassù, della cupola; qua, nell’abside riservata al bibliotecario e chiusa da una bassa cancellata di legno a pilastrini, mentre don Eligio sbuffa sotto l’incarico che si è eroicamente assunto di mettere un po’ d’ordine in questa vera babilonia di libri. Temo che non ne verrà mai a capo. Nessuno prima di lui s’era curato di sapere, almeno all’ingrosso, dando di sfuggita un’occhiata ai dorsi, che razza di libri quel Monsignore avesse donato al Comune: si riteneva che tutti o quasi dovessero trattare di materie religiose. Ora il Pellegrinotto ha scoperto, per maggior sua consolazione, una varietà grandissima di materie nella biblioteca di Monsignore; e siccome i libri furon presi di qua e di là nel magazzino e accozzati così come venivano sotto mano, la confusione è indescrivibile. Si sono strette per la vicinanza fra questi libri amicizie oltre ogni dire speciose: don Eligio Pellegrinotto mi ha detto, ad esempio, che ha stentato non poco a staccare da un trattato molto licenzioso Dell’arte di amar le donne, libri tre di Anton Muzio Porro, dell’anno 1571, una Vita e morte di Faustino Materucci, Benedettino di Polirone, che taluni chiamano beato, biografia edita a Mantova nel 1625. Per l’umidità, le legature de’ due volumi si erano fraternamente appiccicate. Notare che nel libro secondo di quel trattato licenzioso si discorre a lungo della vita e delle avventure monacali.

Molti libri curiosi e piacevolissimi don Eligio Pellegrinotto, arrampicato tutto il giorno su una scala da lampionajo, ha pescato negli scaffali della biblioteca. Ogni qual volta ne trova uno, lo lancia dall’alto, con garbo, sul tavolone che sta in mezzo; la chiesetta ne rintrona; un nugolo di polvere si leva, da cui due o tre ragni scappano via spaventati: io accorro dall’abside, scavalcando la cancellata; dò prima col libro stesso la caccia ai ragni su pe ’l tavolone polveroso; poi apro il libro e mi metto a leggiucchiarlo.

Così, a poco a poco, ho fatto il gusto a siffatte letture. Ora don Eligio mi dice che il mio libro dovrebbe esser condotto sul modello di questi ch’egli va scovando nella biblioteca, aver cioè il loro particolar sapore. Io scrollo le spalle e gli rispondo che non è fatica per me. E poi altro mi trattiene.

Tutto sudato e impolverato, don Eligio scende dalla scala e viene a prendere una boccata [p. 6 modifica]d’aria nell’orticello che ha trovato modo di far sorgere qui dietro l’abside, riparato giro giro da stecchi e spuntoni.

  • Eh, mio reverendo amico, – gli dico io, seduto sul murello, col mento appoggiato al pomo del bastone, mentr’egli attende alle sue lattughe. – Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!

  • Oh oh oh, che c’entra Copernico! – esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia.

  • C’entra, don Eligio. Perchè, quando la Terra non girava...

  • E dàlli! Ma se ha sempre girato!

  • Non è vero. L’uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso, non gira. L’ho detto l’altro giorno a un vecchio contadino, e sapete come m’ha risposto? ch’era una buona scusa per gli ubriachi. Del resto, anche voi, scusate, non potete mettere in dubbio che Giosuè fermò il sole. Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, e l’uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sè e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d’oziosi particolari. Si legge o non si legge in Quintiliano, come voi m’avete insegnato, che la storia doveva esser fatta per raccontare e non per provare?

  • Non nego, – risponde don Eligio, – ma è vero altresì che non si sono mai scritti libri [p. 7 modifica]così minuti, anzi minuziosi in tutti i più riposti particolari, come dacchè, a vostro dire, la Terra s’è messa a girare.

  • E va bene! Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo precise... La signora contessa indossò un abito lilla con una ricca fioritura di merletti alla gola... Teresina si moriva di fame... Lucrezia spasimava d’amore... Oh, santo Dio! e che volete che me n’importi? Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perchè, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più di caldo, ora un po’ più di freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza d’aver commesso una sequela di piccole sciocchezze – dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci, ormai, le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente.

sé. Di per sé perché essere-per-la-“Morte, gramMatrix della morte grammatangente”tangrammy»CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. — DALL’ECO DELLE SIBILLE, LA VOCE DELLA PROFEZIA (di Chiara Magaraggia) 19 luglio 2016

MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA – DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti

FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA, E STORIA. UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI... – IL “SOGNO” DI MICHELANGELO: “DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE”. Sibille e profeti: sulle tracce di Benjamin – di Nicola Fanizza

DALL’ECO DELLE SIBILLE, LA VOCE DELLA PROFEZIA

di Chiara Magaraggia*

FOTO. Perugino, Profeti e Sibille, Aula dell’Udienza, Collegio del Cambio di Perugia

Sono le creature più misteriose della storia della salvezza: non sono nominate nella Bibbia, non sappiamo quante siano,vengono dalla notte dei tempi, vengono dai quattro angoli del mondo allora conosciuto, vengono da quei confini inconoscibili in cui storia e leggenda si fondono, in cui mondo pagano e mondo cristiano si saldano. Sono donne, sono sapienti e sono la voce del Verbo. La loro parola è capace di scrutare segni di secoli remoti e leggerli in un’ottica di salvezza futura; la loro immagine è da sempre legata al rotolo o al libro, in cui questa parola un tempo oscura e misteriosa si imprime, diventando finalmente chiara solo nella pienezza dei tempi.

Creature affascinanti, le Sibille: un tempo vergini dotate di virtù profetiche ispirate dal dio Apollo, nel mondo cristiano le profetesse di Cristo, le facce femminili della profezia.

FOTO. Le Sibille

E’ vero che la Sacra Scrittura ci presenta alcune profetesse: Maria sorella di Mosè, Debora, Anna. Nessuna di loro, però, ha conseguito la popolarità delle Sibille, né ha avuto la loro fortuna. L’arte cristiana si è impossessata di loro a piene mani, la poesia e la musica hanno loro riservato una posizione privilegiata in pagine rimaste immortali.

“Dies irae, dies illa / solvet saeculum in favilla / teste Davide cum Sibylla”. La celebre sequenza duecentesca attribuita a Tommaso di Celano, in cui, con immagini di forte impatto emotivo e figurativo, viene rappresentata la grandiosa scena del Giudizio Universale – il terribile giorno in cui il mondo e il tempo saranno ridotti in cenere – collega la profezia biblica di Davide con quella di origine classica delle Sibille: pagani e cristiani, uomini e donne, ovunque abbia alitato lo spirito di Dio, hanno profetizzato “dies illa”, quel giorno. Dalla musica raccolta degli antichi monasteri alla sublime solennità dell’ultimo Mozart fino alla travolgente grandiosità di Verdi, ovunque il Requiem con la sequenza del “Dies irae” ha scandito la colonna musicale di secoli e secoli, così che, come scrive Dante nell’ultimo canto del Paradiso “al vento nelle foglie lievi si perde la sentenza di Sibilla” (Par. 33, vv. 65-66).

Amatissime nell’arte di ogni tempo, con i loro volti dai mille lineamenti a seconda dei luoghi, delle epoche, dei contesti, della sensibilità degli artisti, fanno capolino dai posti più impensati. Potremmo quasi affermare che le mutevoli Sibille incarnino l’immagine stessa della donna, che si trasforma senza sosta per rendere continuamente nuova l’antica attesa dell’avvento di Dio nel mondo. Ci vengono incontro leggiadre e piene di grazia in un luogo veramente particolare: il Collegio del Cambio di Perugia, affrescato, negli ultimi anni del Quattrocento dal pittore umbro Perugino, forse con la collaborazione del giovane allievo Raffaello.

Un luogo davvero inconsueto: la sede ufficiale dei cambiavalute perugini, in cui si stabiliva il valore delle monete del tempo per renderle più competitive negli scambi commerciali e in cui si tentava di controllare la diffusione del prestito ad usura. Una piccola Borsa rinascimentale. Ma perché proprio qui, nel tempio degli affari, si sono dipinte le Sibille?

La lunetta peruginesca della Sala dell’Udienza (la stanza in cui si prendevano le decisioni più importanti), sullo sfondo di un verde, luminoso paesaggio umbro ci mostra due distinti gruppi di personaggi: da un lato sei Profeti (Isaia, Mosè, Daniele, Geremia, Davide, Salomone) dal volto grave e ispirato, dall’altro le sei Sibille (Eritrea, Persica, Cumana, Libica, Tiburtina, Delfica) dai visi dolci, botticelliani e gli sguardi assorti di chi più che sul presente, è concentrato sul futuro; i capelli sono acconciati secondo i dettami del tempo, gli abiti leggeri, sobri, dalle delicate sfumature cromatiche, i piedi atteggiati a passo di danza, le mani dai gesti “parlanti”. Profeti e Sibille sono avvolti da filatteri con brani allusivi alla prima e all’ultima venuta di Cristo. Il Padre Eterno benedicente, circonfuso da una mandorla dorata, sovrasta i due gruppi.

Nella parete opposta della Sala, Perugino dipinge le Virtù di cui uomini e donne devono rivestirsi: la venuta di Cristo, dunque, dovrà originare nuove creature, dotate di quelle virtù che sole possono guidarci nella realizzazione concreta del progetto divino.

In questo affresco, dipinto in pieno Umanesimo, è celebrata la dignità dell’uomo: il pittore l’ha qui rappresentato così come Dio l’ha creato, maschio e femmina, senza distinzioni di provenienza, biblica o pagana, anche nella profezia. Ognuno è inserito nel progetto divino, ne è non solo testimone, ma attore e responsabile in prima persona. Sembrano riecheggiare qui le splendide parole con cui in questi stessi anni Giovanni Pico della Mirandola ha tessuto forse il più bell’elogio alla dignità e al libero arbitrio dell’essere umano: “Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale perché sia tu stesso, quasi libero e sovrano, a plasmarti secondo la tua libera decisione: potrai annullarti in terra come le creature brute, potrai sollevarti fino alle cose più alte che sono divine”. Così un mestiere come quello del cambiavalute, inviso nel Medioevo perché a contatto col denaro considerato materiale impuro e ora rivalutato nell’ottica dei nuovi tempi e delle profonde trasformazioni, esercitato con prudenza, con giustizia, con sobrietà, guidato dalla fede, dalla speranza, dalla carità, sarà nella società strumento di cambiamento positivo per tutti e perciò degno della benedizione divina.

FOTO. Sibilla Cumana, Jan Van Eyck, Gand, Cattedrale di San Bavone

Dal centro dell’Italia alla ricca città di Gand. Siamo nelle Fiandre del primo Quattrocento, una delle aree più ricche dell’Europa: i mercanti, i banchieri, i borghesi attivi nei piccoli liberi centri stanno creando un mercato economico dove transitano merci di ogni tipo, con investimenti e profitti che segnano l’alba del capitalismo europeo. Fasto e splendore in breve rendono splendide Bruges, Gand, Anversa. E proprio a Gand opera il maggiore pittore del Rinascimento nordico: Jan Van Eyck. Per la cattedrale di San Bavone egli realizza un grandioso polittico in 20 pannelli in legno di quercia, in cui, attraverso 250 figure dai colori squillanti, sviluppa la storia della Redenzione dal peccato originale al trionfo finale di Cristo. E lì, sopra la scena dell’Annunciazione, avvolta in vesti sontuose, la Sibilla Cumana dà il suo vaticinio: “Verrà il tuo Re dei secoli futuri”. Parole che precedono e sottolineano il sottostante annuncio dell’angelo a Maria. Ciò che colpisce nella Sibilla fiamminga è lo splendido copricapo trapuntato da una reticella di candide perle e il verde mantello di pesante velluto con le maniche e il collo di preziosa pelliccia. E’ la moda con cui le ricche dame del nord si riparavano dai geli invernali. Colpiscono quel volto intenso e meditativo, quelle mani dai gesti così femminili: una sul grembo, come farà Maria, a sottolineare che quel Re verrà proprio da un corpo di donna, l’altra sorregge l’abito, nel gesto di alzarsi in piedi, stupita, ancora una volta come Maria, da un annuncio tanto solenne. Eppure la Sibilla sembra comunicarci dell’altro col suo viso pensoso: quel re non nascerà avvolto in velluti e pellicce, né sarà coccolato da banchieri e mercanti. Chi lo accoglierà? E come?

FOTO. Sibilla Libica, Siena, Cattedrale

Il dialogo dai quattro confini del mondo si fa stringente e drammatico. Le risposte ci riportano ancora in Italia, nella città di Siena. La Cattedrale dedicata all’Assunta domina la città del Palio dal colle più alto. Ci accoglie con la facciata dai bianchi marmi, ci apre la porta guidando gli occhi verso la splendida vetrata multicolore con cui Duccio di Buoninsegna celebra Maria. Ma ciò che subito attira l’attenzione è lo straordinario pavimento, che in 56 grandi tarsìe di marmi bianchi, neri, colorati compone con un originale programma teologico la storia del tempo, dell’uomo, della salvezza. E’ come se il fedele si mettesse lui stesso in cammino per arrivare, col suo fardello di dolori, di speranze, di errori a Cristo che dall’altare tutti accoglie, sotto la luminosa custodia di Maria. Può qui mancare la voce delle Sibille? Le loro figure occupano i 10 riquadri delle navate laterali, con un effetto di bianche statue classicheggianti, ciascuna con la propria profezia. Ma, sorpresa, la prima Sibilla, quella Libica “di cui parla Euripide” ha il viso, le mani, i piedi neri. L’immagine è di assoluta novità: è una delle prime raffigurazioni di un personaggio femminile di pelle nera nella storia della salvezza e nell’arte in senso generale. Da una donna nera viene una delle profezie più drammatiche, che risponde in modo spiazzante ai dubbi della Sibilla fiamminga. Mostra nelle pagine del volume aperto alla sua destra la scritta latina che annuncia: “Ricevendo pugni tacerà”, che si collega alla tabella sorretta da un vaso fiorito a cui s’attorcigliano due serpenti: “Capiterà in mani malvagie. Daranno a Dio schiaffi a piene mani. Misero e vergognoso recherà speranza ai miseri”. Che sia proprio una donna nera, da sempre negletta, da sempre umiliata e battuta, a pronunciare la profezia della Passione è un fatto sconvolgente. E’ un’immagine che perfora i secoli e che per noi, oggi, assume un significato ulteriormente nuovo. Nella certezza consolante che dopo la Passione c’è la Resurrezione.

FOTO. La Sibilla Cumana di Michelangelo nella Cappella Sistina

Certo, fra tutte le Sibille, l’immaginario di tutti non può non volare a Roma, nella Cappella Sistina, lo scrigno del genio di Michelangelo. Come i cicli in mosaico delle antiche basiliche, quello della Sistina è l’esempio più alto dell’arte al servizio della parola: un credo per immagini capace di tradurre in forme concrete, comprensibili a tutti, le verità che per tanto tempo erano appannaggio solo dei sapienti. Occorreva però che, accanto ad artisti pur grandi (Perugino, Botticelli

CREATIVITÀparadossale perché causata da un eccesso di stimoli, da una saturazione di tutti i recettori, in particolare uditivi e visivi, che induce un’attività frenetica del cervello, levando spazio alla riflessione e ostacolando la libertà del pensiero intasato dalle entrate sensoriali come le connessioni in rete o la Tv. È la solitudine di un cervello che, solo in una stanza, invia e riceve notizie unicamente attraverso messaggeri informatici, ma spesso ha perso il contatto affettivo con gli altri. Il cervello troppo connesso è solo, perché rischia di perdere gli stimoli dell’ambiente, del sole, della realtà palpitante di vita che lo circonda.

La mia preoccupazione di vecchio insegnante è rivolta principalmente ai giovani, per i quali le nuove tecnologie hanno oltrepassato la soglia di strumenti utilissimi per diventare «cervello», neuroni senza i quali non si può più pensare, producendo così una pericolosa restrizione dello spazio della libertà di ragionamento e della fantasia. Lo spazio del pensiero lento è stato invaso dal pensiero rapido.

Per me, neurofisiologo, che cerca di ragionare sui meccanismi cerebrali che stanno alla base di questo cambiamento, ciò non è sorprendente. La plasticità del cervello, cioè la sua capacità di cambiare funzione e anche struttura anatomica in dipendenza degli stimoli ricevuti è massima nei giovanissimi. Basta ricordare che le sinapsi, elementi essenziali del funzionamento cerebrale, numerosissime intorno ai due-tre anni cominciano a diminuire dopo l’adolescenza in maniera sempre più veloce e questa diminuzione è il substrato della vecchiaia del cervello.

La grande plasticità dei giovani ha assorbito naturalmente i messaggi del nuovo mondo e ne è rimasta ingolfata. Probabilmente la generazione degli adulti è responsabile per non aver dato, come educatori gli antidoti contro queste «droghe» pericolose. È interessante ricordare che Steve Jobs, per evitare il sorgere di una dipendenza, aveva proibito ai suoi bambini l’uso degli strumenti da lui stesso inventati. Il cervello dei giovanissimi può essere manipolato: ne è esempio l’educazione dei bambini di alcuni gruppi islamici che induce giovanissimi a pianificati gesti di suicidio.

La nostra scuola non è riuscita a incanalare tempestivamente la rivoluzione tecnologica nella sua pur forte tradizione formativa, rinforzando l’educazione al ragionamento critico, al dubbio su tutto e su tutti. Scriveva Voltaire: «Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola.

Solo gli imbecilli sono inadeguati che spesso mirano al sonno cerebrale, e le altre forme di comunicazione della rete che insieme a messaggi importanti e civili portano disinformazione e possono al limite diventare strumenti pericolosi in mano a delinquenti e terroristi.

Come terapia io non vedo che la scuola e nella scuola l’insegnamento delle materie umanistiche, e per materie umanistiche intendo tutte quelle guidate dalla curiosità, incluse la matematica che è puro pensiero, e tutte le discipline che, rimandando all’esperimento, educano all’argomentazione e al ragionamento. Purtroppo questo è oggi reso difficile dal progressivo degrado della scuola pubblica, della ricerca: insegnanti e ricercatori che preparano il futuro di un paese sono stati privati della loro dignità di funzione.

SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:

LA COSCIENZA A POSTO. Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti – L’URLO DI ITALO CALVINO (1980). PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE

INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: CHI INSEGNA AI MAESTRI E ALLE MAESTRE A INSEGNARE?!

CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.

Rispondere al messaggio

CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. — GOLIARDA SAPIENZA (1924-1996). 30 agosto 2016, di Federico La Sala

GOLIARDA SAPIENZA (1924-1996) *

Il 30 agosto 1996 moriva Goliarda Sapienza, scrittrice, attrice, sceneggiatrice, artista siciliana vissuta a Roma.

Figlia della sindacalista Maria Giudice (la prima dirigente donna della Camera del Lavoro di Torino), Goliarda cresce a contatto dell’ambiente anarchico siciliano, in un clima di assoluta libertà da vincoli sociali, tra gli insegnamenti della madre, che era stata la prima a incitare le donne nelle piazze a lottare per i propri diritti. Il padre ritenne opportuno non farle nemmeno frequentare la scuola, per evitare che la figlia fosse soggetta a imposizioni e influenze fasciste.

“Il bambino è il primo operaio sfruttato, dipende dai grandi e sempre per un tozzo di pane, si abbassa a “divertire”, leccare le mani dei padroni, si lascia accarezzare anche quando non ne ha voglia”.

In mezzo agli imprevisti di una vita spesso in povertà, verrà segnata anche dall’esperienza del carcere che ispirerà “L’Università di Rebibbia”.

Le dinamiche di potere, i rapporti fra le persone e quelli con le istituzioni, il confronto con sé stessi, esasperato e reso drammatico dalla solitudine. Ha attraversato quei corridoi bui, lunghi, angusti lontanissimi dal mondo e che però lo rappresentano in pieno... Il paradosso di una società che pretende di rieducare alla vita civile attraverso la detenzione.

“Desideriamo spesso il silenzio, ma quello della vita è sempre sonoro, anche in campagna, al mare, anche nel chiuso della nostra stanza. Qui dove mi trovo il non rumore è stato ideato per terrorizzare la mente che si sente ricoprire di sabbia come in un sepolcro”.

Molti suoi lavori, tra cui il suo romanzo più celebre, “L’arte della gioia” furono pubblicati postumi dove ebbero successo dapprima in Francia e poi in Italia.

E’ stata una perdita importante per il Movimento Femminista degli anni ’60, ’70 e ’80 non poter leggere queste opere riscoperte solo dopo la sua morte che trasudano un femminismo così poco dogmatico, e meravigliosamente sui generis. Resta il compito a noi, che quei libri li abbiamo potuti leggere, farne pratica femminista quotidiana.

“Allora il dolore, l’umiliazione, la paura non erano, come dicevano, una fonte di purificazione e beatitudine. Avevo quella parola per combattere. E col mio esercizio di salute, nella cappella col rosario fra le dita ripetevo: io odio. Questa fu da quel giorno la mia nuova preghiera. E pregando studiai. Cercai nei libri il significato di quella parola”.

“Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore esattamente come la parola morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. – Ecco che cosa dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali... e poi, ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggiore frequenza, le più marce, come: sublime, dovere, tradizione, abnegazione, umiltà, anima, pudore, cuore, eroismo, sentimento, pietà, sacrificio, rassegnazione. – Imparai a leggere i libri in un altro modo. Man mano che incontravo una certa parola, un certo aggettivo, li tiravo fuori dal loro contesto e li analizzavo per vedere se si potevano usare nel “mio” contesto. In quel primo tentativo di individuare la bugia nascosta dietro parole anche per me suggestive, mi accorsi di quante di esse e quindi di quanti falsi concetti ero stata vittima”.

  • FONTE: DINAMOpress, 30.08.2016.

Sul tema, nel sito, si cfr.:

lL “LOGO” DELLA SAPIENZA, L’UMANITA’, E L’ACQUA. PAESE IMPAZZITO

CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.

Rispondere al messaggio

LA SOCIETÀ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico. —– L’Islam, il cristianesimo e la polemica sul burkini (di Vito Mancuso) 26 agosto 2016, di Federico La Sala

LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.

KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO (“SECUNDA PETRI”) VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO (“SECUNDA PAULI”).

L’Islam, il cristianesimo e la polemica sul burkini

di Vito Mancuso (la Repubblica, 26.08.2016)

LA QUERELLE sul divieto del burkini e la polemica sulle suore in spiaggia ha avuto di certo il merito di richiamare la comune radice di cristianesimo e islam in ordine alla questione dell’abbigliamento cui devono essere tenuti i corpi delle donne. Ha avuto quindi una felice intuizione l’imam di Firenze, Izzedin Elzir, nel pubblicare sulla sua pagina facebook, come commento, una foto di alcune religiose al mare?

Per giudicare basta leggere ciò che al riguardo ordinava san Paolo (in questo articolo mi si scuseranno le lunghe citazioni, ma credo sia importante): «Voglio che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al proprio capo, perché è come se fosse rasata. Se dunque una donna non vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L’uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli» (Prima lettera ai Corinzi 11,3-10, versione ufficiale Cei).

Qui san Paolo dice tre cose precise: 1) che la donna è sottoposta all’uomo, così come l’uomo è sottoposto a Cristo, e Cristo è sottoposto a Dio, secondo una netta gerarchia ascendente; 2) che la donna non solo è sottoposta ma è addirittura finalizzata all’uomo, nel senso che è stata creata per l’uomo, di cui è chiamata a essere la “gloria”; 3) che la donna deve coprire la sua testa in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta.

L’islam ripresenta la medesima impostazione. La superiorità dell’uomo rispetto alla donna è affermata chiaramente dal Corano: «Gli uomini sono un gradino più in alto» (sura 2,228, trad. di Ida Zilio-Grandi). Nella stessa prospettiva la sura 4 intitolata Le donne afferma: «Gli uomini sono preposti alle donne perché Dio ha prescelto alcuni di voi sugli altri e perché essi donano parte dei loro beni per mantenerle. Le donne buone sono devote a Dio e sollecite della propria castità così come Dio è stato sollecito di loro, e quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti e poi battetele, ma se vi ubbidiranno non cercherete pretesti per maltrattarle, Dio è grande e sublime » (4,34).

Quanto alla finalizzazione della donna rispetto all’uomo, così scrive il Corano: «Agli occhi degli uomini è stato abbellito l’amore dei piaceri, come le donne, i figli e le misure ricolme d’oro e d’argento, e i cavalli di razza, e il bestiame e i campi» (3,14). Ed è sufficiente pensare alla concezione islamica del paradiso in cui donne giovani e belle saranno sempre a disposizione dei credenti maschi, per ritrovare confermata tale innegabile centralità maschile.

Da qui, come già per san Paolo, per il Corano discende il tipo di abbigliamento cui deve conformarsi il corpo femminile: «Profeta, di’ alle tue moglie e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si coprano con i loro mantelli; questo sarà meglio per distinguerle dalle altre donne affinché non vengano offese, ma Dio è indulgente e compassionevole » (33,59).

Appare quindi chiaro che, sia per il cristianesimo sia per l’islam, l’abbigliamento femminile comandato non è una semplice questione di tradizione né tanto meno di gusto, ma suppone una precisa concezione del rapporto uomo-donna all’insegna della subordinazione di quest’ultima.

Non è certo un caso che in Occidente l’affermazione della piena parità giuridica uomo-donna abbia avuto come conseguenza la mutazione dell’abbigliamento femminile da cui è scomparso ogni segno di subordinazione, compreso il velo in testa a cui, stando alle severe disposizioni di san Paolo, erano tenute tutte le donne in chiesa fino a solo qualche decennio fa.

Dietro il burkini quindi, e in genere dietro ogni tipo di velatura più o meno ampia (con fascia, scialle, foulard, velo semplice, velo totale incluso il viso), c’è l’idea che la donna sia inferiore all’uomo e a lui sottomessa. Per questo a mio avviso non ha torto il premier francese Manuel Valls ad affermare che il burkini «è la traduzione di un progetto politico, di contro-società, fondato notoriamente sulla sottomissione della donna » e che quindi «non è compatibile con i valori della Francia e della Repubblica». E dato che la parità uomo-donna è anche un nostro valore, io penso che quel costume, e in genere l’abbigliamento che esso traduce, non sia compatibile neppure con il nostro paese.

È semplicistico dire che alla libertà di andare in spiaggia con il bikini deve corrispondere quella di andarvi con il burkini: nel primo caso infatti si assiste a un movimento di liberazione del corpo, mentre nel secondo di asservimento. E la libertà, se la si intende seriamente, non è mai solo astratta, cioè fare quello che si vuole, ma sempre concreta, cioè fare quello che è giusto e fa bene, e non ci sono dubbi che la liberazione del corpo sia un bene, anche per la liberazione della mente che ne consegue.

Il cristianesimo e l’islam, così come l’ebraismo e le altre religioni, sono quindi uno strumento di oppressione? Lo possono essere, non ci sono dubbi, c’è la storia a dimostrarlo, come del resto la storia mostra che possono diventare anche strumento di liberazione se vissuti correttamente: una liberazione dall’oppressione sociale (si pensi alla teologia della liberazione in America Latina) e una liberazione dal proprio egocentrismo e dalle proprie cattiverie, si pensi alla storia della santità e della mistica.

Il punto essenziale è comprendere che siamo inseriti tutti in un processo di cui nessuno, neppure ovviamente la laicità francese, detiene il punto di vista assoluto e alla cui evoluzione tutti sono chiamati a contribuire.

Diceva il grande teologo Raimon Panikkar che «le religioni si devono convertire ». È vero: le religioni si devono convertire all’idea di non rappresentare il punto di arrivo dell’umanità, ma di essere uno strumento a servizio del bene e della giustizia, i quali sono i veri punti di arrivo cui continuamente tendere.

L’imam di Firenze ha accostato le suore cristiane alle donne musulmane, ma ha dimenticato che le suore rappresentano un gruppo particolare di donne che ha liberamente scelto di vivere in povertà, castità e obbedienza, e il cui abbigliamento richiama il loro stile di vita alternativo. Sono ben lontane però dal rappresentare tutte le donne occidentali, le quali hanno altrettanto liberamente orientato se stesse secondo ben altri stili di vita e di abbigliamento.

L’islam, che non ha suore, in un certo senso tende a rendere un po’ suore tutte le donne che vi aderiscono. Il che però non è compatibile con l’idea di donna cui l’Occidente è giunto. E di questo i musulmani e le musulmane che vogliono vivervi dovrebbero, a mio avviso, prendere atto.

Rispondere al messaggio

CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE — OLIMPIADI RIO 2016: Cento metri di libertà, la saudita Kariman Abuljadayel ha già vinto (di Alberto Caprotti). 17 agosto 2016, di Federico La Sala

La storia

Cento metri di libertà, la saudita Kariman ha già vinto

di ALBERTO CAPROTTI,

INVIATO A RIO DE JANEIRO *

Kariman è lì, un po’ incerta. Ai blocchi dei cento metri. Le altre esibiscono braccia lucide, sguardi aggressivi, body sgargianti. Lei invece è una tartarugona impacciata, che non sa dove mettere piedi e mani. Addosso lo hijab d’ordinanza. Tutto nero, da capo a piedi, senza sponsor ovviamente, senza scritte. La sola ad essere coperta, a non mostrare le gambe, a chinare gli occhi.

Si chiama Kariman Abuljadayel, la sua bandiera è quella dell’Arabia Saudita. E a guardarla viene in mente che, piaccia o meno, è lei il simbolo del futuro, della donna musulmana che si mette a correre. Ma anche del passato, che ti permette di arrivarci ai Giochi ma vietandoti di vestirti come le altre, negandoti la cultura, l’informazione.

Non era una batteria importante la sua: la terza dei 100 metri donne. Quella delle meno attrezzate, diciamo così. Kariman parte lenta, passi pesanti, un fagotto nero che resta indietro. A metà pista è ultimissima, poi rimonta, fuori dall’inquadratura della tv. Bisogna alzare gli occhi dallo schermo per trovarla: quando la Wingfield, che è di Malta, lei pure terzo mondo della velocità, taglia il traguardo prima, Kariman è quasi 5 secondi dietro. Un secolo su questa distanza. Ma non arriva ultima: risale, e si lascia di poco alle spalle la Tewaaki, atleta del piccolo stato del Kiribati.

Geografie lontane, donne di un altro mondo. Quelle saudite, Kariman e altre tre, a Rio ci sono venute solo grazie a un invito speciale da parte del Cio. Le norme religiose in Arabia Saudita non consentono alle donne di praticare sport e, quindi, partecipare a eventi di qualificazione. L’unico modo per competere alle Olimpiadi è su invito del Comitato olimpico, che richiede da alcuni anni che ogni delegazione abbia almeno una donna. I sauditi hanno accettato, controvoglia. Assicurando che in nessun caso saranno violate le leggi religiose. «Continueremo ad agire in accordo con le norme governative e religiose. E così faranno anche le nostre atlete», hanno comunicato alla vigilia dei Giochi. Fissando tre condizioni: indossare un adeguato abbigliamento per la religione, l’approvazione da parte del marito della loro presenza; non entrare in contatto con gli uomini.

Questo c’è dietro quella corsa impacciata e splendida. Che anche per questo ha un senso enorme. Peccato solo che chi gareggiava con lei, non l’ha capito. Tagliato il traguardo, nessuna si è fermata ad abbracciare Kariman. Sarebbe stato favoloso se anche le altre avessero perso qualche istante con un fagotto che non correrà mai veloce, ma che è stata costretta da un governo fatto da uomini, a non partecipare in maniera indipendente alla vita. Avrebbe voluto dire che questa atletica è anche capace di ricordare i traumi, le difficoltà, le arretratezze del mondo. E di farsene carico, almeno per cento metri di strada.

  • Avvenire, 13/08/2016 (ripresa parziale – senza foto).

Rispondere al messaggio

CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. — BURKA, BURKINI, E LA DIGNITA’ DELEL DONNE (di Donatella Di Cesare).. 17 agosto 2016, di Federico La Sala

Burka e burkini

Coprire una donna vuol dire calpestare la dignità di tutte

Una comunità dove manca lo sguardo femminile, dove il volto è consegnato alla irrealtà, non può non essere sminuita e lesa. Proprio questo non si può accettare: l’esclusione dallo spazio pubblico

di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 17.08.2016)

Si chiama burkini la versione meno castigata del burka, concepita per le donne musulmane che vanno in spiaggia. Si vede qualcosa in più: i piedi, le mani, parte del volto. Sarebbe troppo definirlo un costume da bagno. Il nome fa pensare ovviamente al bikini. E forse non è azzardato vedere nel burkini una risposta identitaria ai due pezzi conquistato a fatica dalle donne occidentali: voi vi scoprite – noi ci lasciamo coprire.

Può darsi che un burkini sia anche bello. Alcuni sono perfino colorati. E c’è chi non ha mancato di ironizzare sulla forte carica erotica di quei drappeggi che, una volta nell’acqua, fanno trapelare le forme del corpo. Viene in mente l’immagine di Ursula Andress quando, nel film 007 Licenza di uccidere, esce dal mare con la muta da sub. Non è un classico dei fantasmi maschili? Come la t-shirt bagnata. Perché questa ipocrisia?

Certo è, però, che l’immagine di una donna in burkini sulla spiaggia può inquietare e irritare per numerosi motivi. Non stupiscono, dunque, le ordinanze emesse dai sindaci che lo hanno vietato, prima a Cannes, poi a Villeneuve-Loubet, sulla Costa Azzurra. Vietare, si sa, è sempre un gesto odioso. Ma a poco più di un mese dalla strage di Nizza il burkini viene percepito da molti francesi come una provocazione inopportuna che potrebbe contribuire a esasperare gli animi. Da un canto la nudità disarmata dei bagnanti, che nonostante tutto vanno in spiaggia, dall’altro quel costume-armatura che copre, fin quasi a nascondere, la donna che lo indossa.

Alla provocazione si aggiunge inoltre il segno di un’appartenenza ostentata in un modo che, nella Francia repubblicana, non può non apparire indisponente (ma lo sarebbe anche da noi). Un costume integrale che richiama immediatamente l’integralismo. Questa è la differenza rispetto ad altri simboli religiosi, dalla kippàh alla croce, che vengono invece consentiti. Si intuiscono, poi, i motivi di sicurezza, sia perché non sarebbe difficile nascondere armi, sia perché basterebbe un paio di occhiali da sole per rendere completamente irriconoscibile l’identità.

È allora difficile comprendere le proteste sollevate da quelle organizzazioni, a cominciare dalla Ligue des Droits de l’Homme e dal Collectif contre l’islamophobie en France, che vorrebbero leggere nel divieto del burkini un caso di razzismo islamofobo. Stanno difendendo il diritto delle donne o non, piuttosto, il dovere che è loro imposto dagli uomini? La risposta viene dalle immagini di Manbij, la città siriana appena liberata, dove le donne si strappano gioiosamente il velo del burka, lo calpestano o lo danno addirittura alle fiamme. In questo periodo, inquietante e drammatico, in cui da uno sfondo di violenza, a stento immaginabile, riemergono le ragazze rapite da Boko Haram, l’abbraccio tra una donna velata e una soldatessa curda è, in tutto il suo contrasto paradigmatico, il sigillo di una speranza a cui non vogliamo rinunciare.

Resta la questione del burka, che la Francia ha vietato nel 2010 e su cui, invece, la Germania si mostra titubante rinviando per ora ogni decisione. Non si tratta solo di sicurezza. Né di diversi stili di vita.

Piuttosto è il corpo della donna che, secondo l’ottica integralista, non deve comparire pubblicamente, perché è «carne scoperta», esposta, e potrebbe provocare, fuorviare gli uomini. Tanto più insopportabile è il velo che abolisce il volto della donna. Una donna coperta dal burka è protetta, difesa, venerata? O non è forse mortificata? Esclusa soprattutto dalla reciprocità del «faccia a faccia»?

A essere danneggiata non è solo la donna, la cui dignità viene calpestata, ma tutta la comunità che sul «faccia a faccia» reciproco si fonda. Una comunità dove manca lo sguardo delle donne, dove il loro volto è consegnato alla irrealtà, non può non essere sminuita e lesa. Proprio questo non si può accettare: l’esclusione delle donne dallo spazio pubblico.

Rispondere al messaggio

CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE — Insegnare l’antropologia nelle scuole (di Marino Niola) 13 agosto 2016, di Federico La Sala

ANTROPOLOGIA come ANTROPOLOGIA o come “ANDROPOLOGIA” E “ANDRAGATIA”?! L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (E DEL FIGLIO), DI “MAMMASANTISSIMA”:

CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.

CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.

LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).

Miti d’oggi

Insegnare l’antropologia nelle scuole, arma contro fondamentalismo e razzismo

di Marino Niola (la Repubblica, Venerdì, 12.07.2016)

Insegnare l’antropologia culturale nelle scuole per sconfiggere integralismo, radicalismo e razzismo. Lo hanno chiesto alle Istituzioni della Ue i rappresentanti delle associazioni antropologiche europee che si sono riuniti nei giorni scorsi a Milano rispondendo all’appello delle due sigle italiane, Anuac e Aisea. È singolare che in un mondo sempre più globalizzato e multiculturale, dove forme di vita, tradizioni, identità e religioni diverse convivono gomito a gomito, manchi totalmente nelle nostre scuole una qualsiasi educazione alla differenza. Che sarebbe invece il presupposto indispensabile per costruire un dialogo interculturale pacifico.

Insomma conoscenza contro diffidenza. E contro violenza. Che spesso nascono dall’ignoranza reciproca. E dalla paura dell’altro. È paradossale, secondo Cristina Papa, presidente dell’Anuac, che in uno scenario del genere la scuola, che avrebbe il compito di formare i cittadini di domani, non preveda l’insegnamento dell’antropologia, l’unica scienza che studia proprio le differenze, ma anche le compatibilità tra culture, modi di vita, usi e costumi dei diversi popoli. E che oggi sarebbe fondamentale sia per i ragazzi europei sia per i migranti di seconda e terza generazione che, sempre più spesso, reagiscono negativamente all’impatto con il paese ospitante. Col risultato, che è sotto i nostri occhi, di rinchiudersi nella propria apartheid identitaria. E di radicalizzare la propria origine, o la propria religione, trasformandole in un’arma a disposizione del fondamentalismo. È

erranza sé, per sé

Venire fuori e tramontare –già lì determinaesserly remoty remoteggy remoteggia mondialeventy mondeggy mondeggia eterny eternity abgrundeventy nulleggy esserly pensareventy esserly ontosofia Absoluteventy esserly catastrofeventy katastrophy esserly pensareventy futureventy relativeventy’arteventy esserly schemeventy epistemeventy esserly struktureventy ontologrammy “al di là ” oltre: “al di là nell’aldilà”)al di là al di là nell’aldilà paradigmabgrammy. Già Daseinstryngrammy] ‘nullabgrundy’ esistita ’ragione sovrana’. Al contrario, ciò che Kant stesso ha chiamato una volta Anthropologia transscendentalis sembra essere una specie di ’Critica della comune ragione umana’, il cui statuto trascendentale non può tuttavia essere esplicitato perché proprio tale ragione comune è condizione della possibilità della stessa ragione pura, la sua pietra di paragone. Che è, poi, la natura della facoltà di giudizio.

E sarà anche il caso di ricordare che al vero e proprio sensus communis aestheticus, principio di tale facoltà, che rappresenta trascendentalmente la soggettività e su cui si fonda la conformità a scopi, Kant associa strettamente il cosiddetto sensus communis logicus, le cui massime, pur non essendo “parti della critica del gusto”, possono tuttavia “servire come chiarimento dei suoi principî”. E da quella soggettività trascendentale, non certo da una soggettività vuota, che nascono le massime (cioè: i principî soggettivi) più alte della cosiddetta “Auflklarung”, dell’illuminismo: “1. Pensare da sé; 2. Pensare mettendosi al posto di ciascun altro; 3. Pensare sempre in accordo con se stessi” (§ 40, p.130), cioè non un soggettivismo che metta alla pari giudizi e pregiudizi, ma il programma di una comunicabilità universale dei concetti e dei giudizi, quindi il compito di comprendere nella “socievolezza del giudizio” (espressione che ricorre nella Riflessione appena citata), per quanto è possibile, i pregiudizi oltre i pregiudizi, verso una verità che ha per sfondo un ‘incondizionato’ ideale.

Ma questo ’incondizionato’ rappresenta per caso il mito opposto di una verità oggettiva che azzeri definitivamente ogni pregiudizio? Certamente no, se si pensa che proprio dall’esame delle difficoltà che esso pone nasce la critica della ragione pura e la sua dialettica. L’incondizionato di cui si parla e che continuamente affiora nella terza Critica è altra cosa. Poiché il compito stesso del pensare sarebbe impossibile senza un qualche riferimento all’incondizionato e alla totalità, quale sfondo inesponibile e inconoscibile del condizionato e del particolare, e proprio ai fini di una comprensione e di una conoscenza del condizionato e del particolare, il pensare l’incondizionato e la totalità sarà sensato solo dal punto di vista di chi sta innanzitutto nel condizionato e nel particolare soggettivo-oggettivo.

Riflessione e comprensione (o la ’filosofia’ in genere) non possono non essere quindi, mediante l’analogia, uso di concetti determinati in vista di concetti condizionanti e incondizionati che li ricomprendono e sono per se stessi necessariamente indeterminati, la determinatezza di quelli provenendo dall’esperienza determinata solo in quanto questa già contiene un’istanza incondizionata per se stessa indeterminata. “Infatti ci rendiamo subito conto che alla natura nello spazio e nel tempo manca del tutto l’incondizionato, e quindi anche quella grandezza assoluta che pure è richiesta dalla ragione più comune” (p. 104, corsivo nostro). (Per esempio, non è questa forse l’intuizione che sta alla base della nozione di indeterminatezza semantica del linguaggio e del suo essere di volta in volta determinato pragmaticamente: un’intuizione che non solo non promuove un banale relativismo, come capita a molti altri, ma anzi tende a cogliere, nella comprensione del linguaggio, la sua determinatezza e insieme la sua ideale., e pur paradossale, totalità indeterminata?).

  • Emilio Garroni – Hansmichael Hohenegger, Introduzione a: I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, pp. LXXVIII-LXXX – senza le note.

Federico La Sala (giugno-agosto 2010)

Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:

LE DUE METÀ DEL CERVELLO. Il linguaggio del cambiamento

? UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA “EDIPICA”!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO – DONNE, UOMINI E VIOLENZA: “Parliamo di FEMMINICIDIO”.

?KANT, FREUD, E LA BANALITÀ DEL MALE. PER LA CRITICA DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA. Un breve saggio (in pdf, scaricabile) – di Federico La Sala, con pref. di Riccardo Pozzo.

  • RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant

  • CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LA’ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA. Una importante provocatoria riflessione di Lidia Ravera

“UN UOMO PIÙ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO”Franca Ongaro Basaglia, Donna, in Enciclopedia, 5, Torino, Einaudi, 1978, p. 89.

LE DUE METÀ DEL CERVELLO. Il linguaggio del cambiamento

LE DUE META’ DEL CERVELLO (Alfabeta, 1980)

Rispondere all'articolo

CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE — Il Femminismo e la rivoluzione sessuale: un bilancio (di Elena Tebano) 5 settembre 2016, di Federico La Sala

CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.

LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).

DAL “CHE COSA” AL “CHI”: NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI “CARITÀ”! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant

FEMMINISMO

Le donne, il piacere: ?cosa è successo

La pillola, legale in Italia da 45 anni, ha rivoluzionato la sessualità femminile. Ma la strada è ancora lunga, tra conquiste ed errori . Quanto ha contribuito il movimento femminista alla liberazione sessuale? Ne parleremo in Triennale l’11 settembre

di Elena Tebano (Corriere della Sera, 05.09.2016)

La sessualità femminile in Italia ha una data di nascita ufficiale (e recente): 1971. È il 16 marzo di 45 anni fa quando la contraccezione smette di essere un reato – contro la stirpe, per altro: la Corte Costituzionale dichiara illegittimo l’articolo 553 del Codice penale introdotto dal Fascismo che puniva chiunque incitasse all’uso degli anticoncezionali. La pillola, comparsa nelle borse delle donne già dagli Anni 60, diventa legale e permette alle italiane di far sesso per il piacere di farlo senza rischiare di avere figli che non vogliono.

L’estate di quello stesso anno Carla Lonzi, raffinata (e oggi spesso dimenticata) teorica del femminismo, pubblica «La donna clitoridea e la donna vaginale» per la casa editrice del gruppo Rivolta Femminile. Sessantaquattro pagine in cui sostiene che il vero orgasmo è quello che si ottiene con la stimolazione del clitoride e non quello che deriva dalla penetrazione, e afferma che la cultura maschile ha intrappolato le donne in un mito per molte irraggiungibile. Una distinzione che fornisce un grimaldello psicologico alla lotta delle donne: il clitoride «diventa l’organo in base al quale “la natura” autorizza e sollecita un tipo di sessualità non procreativa», scrive Lonzi, che denuncia «nella colonizzazione sessuale la condizione di base dell’indebolimento e dell’assogettamento della donna». La critica della sessualità e la ricerca di una sua espressione autentica diventano uno dei cardini del movimento femminista, articolate e rivissute quotidianamente nei gruppi di autocoscienza. È una rivoluzione copernicana.

La negazione del desiderio (femminile)

«Prima del femminismo una donna per bene non doveva provar piacere: doveva adeguarsi a quello maschile e magari diventare madre. Se perseguiva il proprio piacere era considerata perduta. La generazione di mia madre parlava del sesso come un fastidio inevitabile che si poteva superare perché ci si voleva bene – racconta Barbara Mapelli, studiosa e scrittrice che a quella stagione ha preso parte –. Per noi, che avevamo tutte tra i 20 e i 30 anni e avevamo già avuto figli, era ovvio partire da lì: ci rendevamo conto che la sessualità socialmente e culturalmente imposta negava il nostro desiderio».

Quarantacinque anni sono poca cosa nella storia dell’umanità, eppure quei tempi non potrebbero sembrare più lontani. Che cosa resta adesso di quel tentativo? Il movimento femminista ha davvero contribuito alla liberazione sessuale delle donne? E c’è ancora bisogno di una riflessione sulle forme e i modi della sessualità? Se da un lato nessuno (almeno in Italia e in Occidente) può più mettere in discussione il diritto delle donne al piacere nel sesso, dall’altro sembrano ormai altrettanto inaccettabili alcuni eccessi di quegli anni. «Il nostro errore – spiega ancora Mapelli – è stato pensare che con il pensiero si possano immediatamente mutare i comportamenti. Noi li cambiavamo ma così finivamo per esasperarli e perdevamo autenticità».

La prestazione anche nel sesso

Oggi è dunque scomparsa l’idea che esista un tipo più vero (o libero) di orgasmo. Ed è sparita anche quella – sostenuta dalle teoriche radicali americane degli Anni 70 Catharine MacKinnon e Andrea Dowrkin – che le donne nel sesso vengano inevitabilmente ridotte a oggetti del piacere maschile, una reificazione che le priverebbe di umanità e da lì finirebbe per definire tutta la condizione femminile. Su questo tema ha scritto pagine bellissime la filosofa Martha Nussbaum che in un saggio del 1995 «Persona oggetto» (pubblicato in Italia due anni fa da Erickson) spiega come in condizioni di parità e di rispetto reciproco uno degli aspetti «meravigliosi» del sesso sia trattarsi a vicenda come oggetti di desiderio e piacere e perdere l’autosufficienza e il controllo che caratterizzano gli altri ambiti della nostra esistenza.

Ma se le donne godono di maggiore libertà non significa che la sessualità sia «finalmente» libera o autentica. Il problema è soprattutto quello che Roberto Todella, sessuologo e presidente del Centro interdisciplinare per la ricerca e la formazione in sessuologia chiama «modello prestazionale» su cui uomini e donne tendono a valutare se stessi e ciò che fanno a letto. «L’attenzione al piacere, anche da parte delle donne, è diventata centrale, ma sempre più spesso viene misurata sull’immaginario della pornografia con la sua insistenza su posizioni, intensità, ruoli stereotipati – dice Todella –. In questo scenario la donna è sempre disponibile e sembra godere qualunque cosa le venga fatta, l’uomo deve essere prima di tutto forte, prestante, impositivo. Se il sesso diventa imitazione di un repertorio precostituito, però, non è più un’esperienza, non passa attraverso la conoscenza di sé e si deforma per aderire a un copione scritto da altri. Smette di rappresentarci».

Desideri e sexy shop

Una tendenza evidentissima secondo Yasmin Incretolli, scrittrice 22enne che in «Mescolo tutto» (Tunuè, 2016) ha raccontato anche la centralità del sesso (spesso mal vissuto) nella sua generazione. «La rivoluzione sessuale ormai è sdoganata – afferma –, ma spesso il sesso viene vissuto come se fosse un mantra, in modo ritualistico ed estremizzato».

Anche perché manca una vera educazione alle sessualità a scuola e da parte di molti genitori: «L’insegnante per i maschi è Internet, la pornografia. I maestri delle ragazze sono i ragazzi che si scelgono: anche per loro c’è un nesso con il porno, filtrato però dai gusti del loro compagno, che è anche peggio. Il sesso dovrebbe essere scoperta di sé, non un’ospitata nel mondo maschile».

Non è un caso che tra i temi dei nuovi femminismi ci sia la riappropriazione in chiave emancipatoria della pornografia: «I movimenti del post-porno hanno dimostrato che è possibile una pornografia diversa, che non riproduca le medesime strutture di potere della società che mette a nudo, in cui l’uomo sta sopra e la donna sotto, in tutti i sensi», dice Barbara Bonomi Romagnoli, autrice di «Irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio» (Eir, 2014).

È solo uno dei tentativi delle nuove generazioni femministe di riprendere la questione sessuale, «che rimane rilevante e viene declinata da vari punti di vista – rileva Bonomi Romagnoli –, Post-religiosi, atei, materialisti: nell'infinita gamma degli atteggiamenti dell'Occidente secolarizzato verso la religione sembra manchi solo quello più semplice: credere. È ormai una scelta marginale, in via d'estinzione? Niente affatto, tanto è vero che il bisogno di Dio sembra tornare alla ribalta ovunque nel mondo, in modi anche drammatici. Perché? È opinione comune che la religione sia stata inventata dagli uomini per autoconsolarsi della propria condizione mortale. Ma se le cose stanno così, come mai tutte le religioni hanno sempre offerto ai fedeli e ai non-fedeli scenari inquietanti, dal giudizio finale al paradiso e all'inferno? Il fatto è che la religione, nel momento in cui risponde alla domanda sul senso della vita, riguarda la nostra libertà, perché della libertà è l'ultima difesa e non la soppressione. Ecco perché il ritorno a Dio è necessario al fine di contrastare il totalitarismo in tutte le sue forme. Se è vero che la religione non può essere tenuta fuori dalla sfera pubblica, riflettere sulla sua opportunità significa riflettere sulla giustizia, che è ciò da cui si dispiega, secondo la lezione del pensiero antico da Parmenide in poi, l'ordinamento stesso del mondo e del nostro stare insieme come umani. Uno dei nostri maggiori filosofi si interroga e ci interroga sulla necessità della religione prima ancora che sul bisogno di essa, avendo il coraggio di prendere le distanze da figure mai come ora oggetto di discussione e al centro del dibattito: Nietzsche e Heidegger. E lo fa da laico, consapevole che laico non è chi rivendica la propria indifferenza nei confronti della religione ma al contrario chi la prende sul serio, riconoscendo che i contenuti essenziali con cui è chiamato a fare i conti, le ragioni per cui si vive, vengono proprio da lì. Un percorso incalzante e profondo che fa appello alle conclusioni di poeti e scrittori non meno che a quelle dei filosofi – Hölderlin e Dostoevskij su tutti –, intreccia alla religione il discorso sul sacro e mette in guardia dai pericoli del relativismo e dell'etica utilitaristica. Al cuore, una domanda cruciale: davvero possiamo fare a meno della verità sull'uomo e sul mondo che solo la religione è in grado di comunicare?

Post-religiosi, atei, materialisti: nell'infinita gamma degli atteggiamenti dell'Occidente secolarizzato verso la religione sembra manchi solo quello più semplice: credere. È ormai una scelta marginale, in via d'estinzione? Niente affatto, tanto è vero che il bisogno di Dio sembra tornare alla ribalta ovunque nel mondo, in modi anche drammatici. Perché? È opinione comune che la religione sia stata inventata dagli uomini per autoconsolarsi della propria condizione mortale. Ma se le cose stanno così, come mai tutte le religioni hanno sempre offerto ai fedeli e ai non-fedeli scenari inquietanti, dal giudizio finale al paradiso e all'inferno? Il fatto è che la religione, nel momento in cui risponde alla domanda sul senso della vita, riguarda la nostra libertà, perché della libertà è l'ultima difesa e non la soppressione. Ecco perché il ritorno a Dio è necessario al fine di contrastare il totalitarismo in tutte le sue forme. Se è vero che la religione non può essere tenuta fuori dalla sfera pubblica, riflettere sulla sua opportunità significa riflettere sulla giustizia, che è ciò da cui si dispiega, secondo la lezione del pensiero antico da Parmenide in poi, l'ordinamento stesso del mondo e del nostro stare insieme come umani. Uno dei nostri maggiori filosofi si interroga e ci interroga sulla necessità della religione prima ancora che sul bisogno di essa, avendo il coraggio di prendere le distanze da figure mai come ora oggetto di discussione e al centro del dibattito: Nietzsche e Heidegger. E lo fa da laico, consapevole che laico non è chi rivendica la propria indifferenza nei confronti della religione ma al contrario chi la prende sul serio, riconoscendo che i contenuti essenziali con cui è chiamato a fare i conti, le ragioni per cui si vive, vengono proprio da lì. Un percorso incalzante e profondo che fa appello alle conclusioni di poeti e scrittori non meno che a quelle dei filosofi – Hölderlin e Dostoevskij su tutti –, intreccia alla religione il discorso sul sacro e mette in guardia dai pericoli del relativismo e dell'etica utilitaristica. Al cuore, una domanda cruciale: davvero possiamo fare a meno della verità sull'uomo e sul mondo che solo la religione è in grado di comunicare?

Essere: l’evento-radura dell’Esserevento-«è»’esser-ci abissale già radura (evento)) in sé. Essere? (Evento)(evento)della storia dell’Essere debba essere rara e quasi impossibile e completamente inefficace (abbandono dell’essere); il fatto che, quindi, ogni esperienza storica della verità dell’essere si presenti solo nella forma di una «opinione storiografica», che da lungo tempo si abbandona a ciò che è passato; il fatto che, in generale, la «filosofia» appaia come il darsi di una successione di opinioni di singoli individui.

  1. Non si può semplicemente e all’improvviso dire, invece di verità, «non-velatezza», come se prima non dovesse accadere ciò che è più essenziale, perché questa denominazione possa avere un senso.

Come se si trattasse solo di una formulazione migliore o del tutto «nuova» del concetto di verità.

È sempre più genuino «rifiutare» l’????e?a come antiquata e e impossibile, invece che prenderla per un’«essenza» speciale, in base a un «accecamento inconoscibile».

  1. Il fondamento del mutamento dell’essenza della verità Il fondamento del mutamento dell’essenza della verità, il fondamento della sua non-fondazione iniziale resta nascosto all’intera metafisica. Quest’ultima non domanda nemmeno di esso.

Perché deve essere così in base alla sua essenza?

Il fondamento del mutamento (l’Essere) determina l’essenza dell’aperta «storia» della verità. a partire dal rapporto all’uomo e in quanto rapporto? Ma in che modo tutto ciò?

In che modo il domandare scaturisce da un trovare e dispiega «solo» questo.

  1. L’Ente dell’Essere Non più in base alla rappresentazione: l’ente in quanto tale e nel suo insieme, bensì storicamente nella radura del frattempo (contesa e contrasto: la decisione più remota).

  2. Il primo inizio Il primo inizio e la stessa inizialità si portano all’esperienza solo nell’altro inizio. Occorre esporre questa esperienza, prestando attenzione al detto (Anassimandro, Eraclito, Parmenide), in cui l’inizio si è portato alla parola.

Questo prestare attenzione ha già esperito lo s-volgimento e, a partire dall’essenza di quest’ultimo, pensa l’????e?a e...f?s??.

L’????e?a non è un «momento» della f?s??, bensì la f?s?? è la non-velatezza dello svelamento, che è s-volgimento (conforme all’evento). (La svolta a favore dell’essere come enticità; ????e?a per l’?µ???s??). Questo s-volgimento (come l’origine del procedere) vela se stesso nella non-velatezza come svelamento, che si dispone in primo luogo nello schiudersi (f?s??), cosicché il tornare indietro rimane qui subito velato, e il mero schiudersi si stabilizza immediatamente nel venire alla presenza, al massimo in ciò che mai tramonta (t? µ? d????, Eraclito).

????e?a è l’essenza dell’essere, tale che l’????e?a si s-volge dall’inizio; dopo tale s-volgimento, l’essere si s-volge dall’????e?a, diventa f?s?? e, invece di dispiegare la propria essenza in senso iniziale, trova il suo fondamento nel riferimento al ??e?? – ???e??… (? ?de??).

L’essenza, conforme all’evento, dell’uomo resta nascosta. Perché? Come primo predominio dell’ente in quanto tale, il premere dell’«enticità». L’uomo stesso si installa immediatamente nella t???? t?? ??t??. Ma, poiché egli è transpropriato all’essere, l’uomo gli deve corrispondere. Egli si conforma allo s-volgimento nel procedere e trova «se stesso» salvato nell’??a??? e nell’?d?a.

  1. L’esperienza dello s-volgimento nel primo inizio (il primo e l’altro inizio) Questo esperire, il più remoto dolore – che giunge nell’estrema lontananza della vicinanza dell’iniziale – dello stare-dentro nella differenza di primo e di altro inizio; non il dolore della non-essenza del primo, bensì il dolore della divergenza del congedo nell’altro inizio.

Il primo inizio (l’????e?a) è non-fondato; schiudendosi, l’inizio si s-volge dal suo giro, che è anch’esso celato e solo nell’esperienza dell’altro inizio appare c...e l’altro inizio non sono due inizi diversi. Essi sono lo Stesso – ma lo sono ora nel frattempo, che si apre all’esperienza come passare.

Schiudendosi come non-velatezza – svelamento, il primo inizio si s-volge dal giro, nel senso che il suo dispiegarsi essenziale non è rivolto all’inizialità (tramonto), bensì possiede il carattere dello sciogliersi. Questo è il fondamento del procedere verso la metafisica. L’inizio inizia dapprima con lo s-volgimento: diversamente, non ci sarebbe nessuna ????e?a e, quindi, mai la possibilità della salvaguardia.

  1. t? ?? – t? ta?t?? – ????e?a nel carattere dello schiudentesi s-volgimento; non si tratta di uno strappare, perché anzi l’essenza fondamentale (l’evento) resta ciò che accorda, bensì questo schiudentesi s-volgimento è la raccolta (?????); ma che non accada propriamente nessuna fondazione, cioè propriamente nessuno s-volgimento dell’inizio, si mostra nel fatto che solo l’?? si schiude e lo schiudersi si determina come ?? (?? come raccogliente s??) raccolta – ritiro e uno.

Eraclito: Quale frammento è nominato come il primo, che accorda tutto? Frg. 16: t? µ? d????. (f?s?? – ????e?a – ?a????e??).

Esperire l’inizio – dire l’evento. L’essenza del «pensiero» a partire dall’Essere come evento. Con quale diritto questo riferimento di essere e pensiero è ciò che guida? A partire dalla caduta in direzione dell’ente – uomo; essere e pensare. Cf. il più iniziale ??e?? – e??a?.

  1. L’esperienza del primo inizio Che cos’è il primo inizio; che cos’è l’inizio; che cosa l’altro. L’altro inizio è l’inizialità del non iniziato (cioè del primo inizio). Che cos’è esperienza. A quale presupposto sottostà questo esperire. Che tutto l’esperire e la non esperienza sottostanno alla sua giunzione.... (l’????e?a) è non-fondato; schiudendosi, l’inizio si s-volge dal suo giro, che è anch’esso celato e solo nell’esperienza dell’altro inizio appare come l’inavvicinabile altro.

Il primo e l’altro inizio non sono due inizi diversi. Essi sono lo Stesso – ma lo sono ora nel frattempo, che si apre all’esperienza come passare.

Schiudendosi come non-velatezza – svelamento, il primo inizio si s-volge dal giro, nel senso che il suo dispiegarsi essenziale non è rivolto all’inizialità (tramonto), bensì possiede il carattere dello sciogliersi. Questo è il fondamento del procedere verso la metafisica. L’inizio inizia dapprima con lo s-volgimento: diversamente, non ci sarebbe nessuna ????e?a e, quindi, mai la possibilità della salvaguardia.

  1. t? ?? – t? ta?t?? – ????e?a nel carattere dello schiudentesi s-volgimento; non si tratta di uno strappare, perché anzi l’essenza fondamentale (l’evento) resta ciò che accorda, bensì questo schiudentesi s-volgimento è la raccolta (?????); ma che non accada propriamente nessuna fondazione, cioè propriamente nessuno s-volgimento dell’inizio, si mostra nel fatto che solo l’?? si schiude e lo schiudersi si determina come ?? (?? come raccogliente s??) raccolta – ritiro e uno.

Eraclito: Quale frammento è nominato come il primo, che accorda tutto? Frg. 16: t? µ? d????. (f?s?? – ????e...perire l’inizio – dire l’evento. L’Esserevento là è già «in sé»L’Essere è l’«è»spazio-tempo–Esserci-da-sé-di-sé –da sé« in sé ( «l’» essere.

Al di là è ”l’«essere» ––evento Dell’Essere’evento è oltre–verità kAt’evento l’evento è’eventontologynphynyty l’«essere» ––verità. Essa è un tentativo della parola che risponde, che fonda; il Dire della divergenza; ma un cammino su un sentiero interrotto.

A partire dai Contributi alla filosofia (Dall’evento), trasformare tutto in questo Dire.

*

Il destino dell’Essere si consegna ai pensatori

Sotto ognuna delle parole fondamentali è detto lo Stesso, l’evento. La loro successione è determinata in base all’essenza della divergenza, alla cui insistenza il Dire è talvolta transpropriato.

Le parole fondamentali sono tracce, che, in un circolo attorno all’evento non dominabile dallo sguardo, conducono in un ambito, che è oltre ogni prossimità e, per questo, ignoto per ogni immediata rappresentazione.

Ogni parola risponde a e risponde, che fonda; il Dire della divergenza; ma un cammino su un sentiero interrotto.

A partire dai Contributi alla filosofia (Dall’evento), trasformare tutto in questo Dire.

*

Il destino dell’Essere si consegna ai pensatori

Sotto ognuna delle parole fondamentali è detto lo Stesso, l’evento. La loro successione è determinata in base all’essenza della divergenza, alla cui insistenza il Dire è talvolta transpropriato.

Le parole fondamentali sono tracce, che, in un circolo attorno all’evento non dominabile dallo sguardo, conducono in un ambito, che è oltre ogni prossimità e, per questo, ignoto per ogni immediata rappresentazione.

Ogni parola risponde alla pretesa della svolta: che la verità dell’Essere si dispieghi essenzialmente nell’Essere della verità.

L’anello della svolta indica l’in-volgimento (Verwindung) dell’inizialità.

Il pensiero della storia dell’Essere fonda il fondamento abissale, insistendo nella verità dell’inizio e trasformando così la parola.

*

La disposizione dell’Essere nell’evento per l’inizio....La connessione è la compagine e soprattutto il disporsi.

La commessura dell’Essere è l’uno e l’altro a partire

dalla connessione dell’inizio.

*

Non solo per tutto il mondo

ma attraverso tutto l’Essere

nell’evento

per l’inizio

ma mai all’inizio

pensando disporsi

disponendo pensare – reggere fino in fondo la differenza nel congedo.

L’esposizione va avanti e torna indietro, segue la svolta e si dà nell’eco di risonanza e consonanza.

*

A proposito dei «Contributi alla filosofia (Dall’evento)»

  1. L’esposizione risulta in alcuni punti troppo didascalica.

  2. Il pensiero si attiene, motivato solo da ragioni didattiche, alla distinzione tra la «domanda fondamentale» e la «domanda guida» all’interno della «questione dell’essere». Quest’ultima è ancora compresa nello stile della metafisica, piuttosto che essere pensata al modo della già concepita storia dell’essere.

  3. Di consegu.......i conseguenza, anche «l’inizio» è ancora compreso in base alla sua attuazione da parte del pensatore e non nella sua unità essenziale con l’evento.

  4. Per lo stesso motivo, l’evento non serba ancora l’essenziarsi puramente iniziale dell’abisso, in cui si prepara l’avvento dell’ente e la decisione riguardo al divino e all’essere umano.

Il pensiero dell’ultimoa Dio resta ancora impensabile.

  1. Certo, l’esser-ci è pensato essenzialmente a partire dall’evento, ma riferito ancora in maniera unilaterale all’uomo.

  2. L’essere umano non ancora sufficientemente conforme alla storia destinale..... storia dell’Essere [GA 69]

cf. L’oltrepassamento della metafisica [GA 67]

cf. Meditazione [GA 66]

cf. Contributi alla filosofia (Dall’evento) [GA 65]

cf. Conferenza sulla verità 1930: Dell’essenza della verità [GA 80]

cf. Essere e tempo [GA 2]

cf. Corsi universitari:

Semestre invernale 1931/32: Dell’essenza della verità. Sul mito della caverna di Platone e il Teeteto [GA 34]

Semestre estivo 1932: L’inizio della filosofia occidentale (Anassimandro e Parmenide) [GA 35]

Semestre invernale 1934/35: Gli inni di Hölderlin «Germania» e «Il Reno» [GA 39]

Semestre estivo 1935: Introduzione alla metafisica [GA 40]

Semestre estivo 1936: Schelling: sull’essenza della libertà umana (1809) [GA 42]

Semestre invernale 1937/38: Verità: Domande fondamentali della filosofia. Selezione di «problemi» di «logica» [GA 45]

  1. Il primo inizio L’????e?a si dispiega essenzialmente come l’inizio.

La verità è la verità dell’essere.........La verità è «la dea» ?e?.

La sua casa è ben rotonda, non chiusa, cuore mai (tremante) dissimulante, bensì disvelante rilucere di ogni cosa. L’????e?a è nel primo inizio ciò che è velato – la verità: la velante salvaguardia del diradato – aperto, la garanzia dell’inizio, l’ammissione del venire alla presenza. La verità è l’essenza dell’essere.

*

L’ente ????e?a (primo inizio)

Essere – verità

Verità – Essere

Svolta la verità (altro inizio)

Evento

Inizio

Differenza

Divergenza

«Essere» (Sein) «è» già nello s-volgimento (Entwindung) (e precisamente esso dispiega la propria essenza nello s-volgimento inconoscibile). L’in-volgimento (Verwindung) dell’essere.

Certo, in un primo momento, sarà difficile rinunciare all’Essere (Sein) sulla base dell’in-volgimento e, allo stesso tempo, esperire la verità come ciò che è «più essente......a quanto possa fare un’interpretazione gnoseologica della sua essenza.

  1. ????e?a – ?d?a Lo svelamento; quando e dove esso è e accade? Possiamo porre tale domanda, qualora sappiamo che ????e?a è l’essere stesso; tuttavia ?st?? ??? e??a? – certamente, ma questo implica che lo stesso essere faccia essere essenzialmente il luogo-tempo, senza poter mai essere esso stesso saldamente collocato al suo interno mediante l’indicazione di una posizione.

Ma non diventa sempre inevitabile la domanda: come dovrebbe essere accolta e custodita l’????e?a? Sicuramente – ma questa assunzione (l’essenziarsi dell’uomo come ????) non è la fondazione dell’????e?a, la quale si dispiega essenzialmente soltanto nel suo proprio essere iniziale, cioè inizialmente. Per questo, l’esperienza di ciò che è iniziale è decisiva, ma lo sono, anche, la rinuncia alla spiegazione o alla collocazione in un luogo. Tutto ciò porta solo alla questione: perché noi pensiamo nei termini dell’ente e siamo ancor meno in grado di corrispondere all’essere, essere che noi, in virtù della denominazione, prendiamo e cerchiamo allo stesso tempo come un «oggetto»?

Ma allora l’?d?a, la capacità di risplendere, non è la stessa cosa dell’????e?a? Sì e no. In essa ancora l’essenza di ciò che si schiude, ma, al tempo stesso, l’assun.....allora, e prima di tutto, dobbiamo considerare a fondo: ????e?a è lo svelamento del velamento ed è essenzialmente in ciò che è abissale e in ciò che è enigmatico – e questo non è soltanto una barriera alzata nei confronti della comprensione umana; anzi, la fondazione abissale è l’essenziarsi stesso – l’iniziare.

Tuttavia, rimane ancora la questione del riferimento all’????e?a e all’inizio stesso – indeterminato nel primo inizio, nell’altro inizio: l’esser-ci.

  1. L’erranza è l’estrema non-essenza della verità.

  2. ????e?a (Platone) Negli pseudo platonici ???? (definizioni):

413 c 6 sq.

????e?a ???? ?? ?ataf?se? ?a? ?p?f?se?· ?p?st?µ? ??????.

??n-velatezza – l’atteggiamento nell’addire e disdire. «Conoscenza» di ciò che è non-velato.

413 c 4 sq.

??st?? ?p?????? ???? t?? ??t?? ??e?? ?? a?t? fa??eta?·ßeßa??t?? ?????.

Fede, la corretta anticipazione, il fatto che qualcosa si comporta così come si mostra a qualcuno. Saldezza del portamento....e tipo di ‘unità’?

Cf. Kant, unità del coesistere, Critica della ragion pura, B § 16.

«Insieme» – pa??.

«stare» – st?s??.

stabile –

«costante» – ?e?.

  1. Verità e essere nei Greci (Detto e non detto)

(cf. Semestre estivo 1942, p. 34 s.)*

L’esperienza dell’essere come f?s?? non contraddice il pensiero che muove dal non detto e dal velato.

Ma l’??s?a – qui anche già il cominciamento della distruzione dell’????e?a.

  1. ?–???e?a Nell’????e?a è custodita l’essenza della grecità. In che modo, però, questa custodia dovrebbe non accadere nell’essenza della verità che un tale popolo fu in grado di esperire? L’????e?a – il non-velato – dice che il vero non è la verità; la verità come verità racchiude appunto il velato, o piuttosto il velamento del velato, velamento che lascia sorgere nella verità solo una certa misura dello svelamento.

Qui si cela la determinazione del ..... cela la determinazione del pensiero iniziale, ovvero che esso è pronto, dall’inizio, al riconoscimento dell’inconciliabile e dell’escludentesi, dal momento che presagisce la loro unità come il fondamento, senza tuttavia essere in grado di esperirla già in un domandare. (l’essenza dell’??!)

In questa duplice essenza dell’????e?a si devono custodire l’?? e il µ? ?? e il loro riferimento; qui è il fondamento per l’?? – p??ta (Eraclito B 50), l’??µ???a ?fa??? (B 54), t? ??t????? s?µf???? (B 8), il s?µa??e?? (B 93), tutto ciò è pensato per lo più nei termini della modernità e sulla base della coscienza, ovvero dialetticamente e, per questo, anche frainteso.

  1. ????e?a e «spazio e tempo» Spazio e la rappresentazione spaziale e il pensiero (cf., per esempio, l’essenza della rammemorazione del già-stato)

Si dice che noi impieghiamo ovunque rappresentazioni spaziali, anche nella sfera «spirituale», priva di spazio e non riducibile allo spazio.

In verità, non adoperiamo lo spaziale, bensì non riconosciamo soltanto il cosiddetto mero spaziale come un oscuramento e un de-essenziarsi (Entwesung) dell’aperto diradato – cioè del carattere estatico della verità dell’Esse......dinario né attraverso l’abituale rappresentazione spaziale.

In verità, tale ignoranza dell’essenza di spazio e tempo è sicuramente già molto antica e quasi iniziale, perché l’essenziarsi della verità nel suo inizio doveva restare non-fondato. Per questo, anche nella spiegazione, luogo e tempo hanno acquisito rilevanza e con la metafisica moderna la «natura» è del tutto staccata dalla f?s?? e trasformata nell’oggettività di un modo di rappresentazione o nel cosiddetto «biologico» nel modo di rappresentazione di un’egualmente vaga e confusa esperienza vissuta del flusso della vita.

Il vaniloquio senza freni di questo rappresentare è inadeguato all’esperienza dell’Essere in senso iniziale.

  1. ????e?a e il primo inizio (f?s??) Ciò che è essenzialmente nel primo inizio, ciò che di esso è più iniziale è l’????e?a.

Anassimandro: ta?t? – ?pe????

Eraclito : f??e?? ???ptes?a? – questo è più

essenzialmente della f?s?? stessa

t? µ? d???? p?te

Parmenide : ????e?a t? ??? a?t?

d??a – f?s??

E proprio questo, il fatto che ????e?a sia l’inizio, quindi l’essenziarsi dell’essere, ciò che è più s...nciare da Platone, ma, attraverso la non-fondazione nel primo inizio, data come procedere).

Perciò il ricordare deve innanzitutto tentare di trovare nella f?s?? il primo sostegno per la dimensione iniziale dell’essere e deve in primo luogo trarre questa dal fraintendimento che è invalso finora. Ma qui risiede il pericolo che la f?s??, da parte sua, venga posta ora come l’inizio e l’????e?a le venga semplicemente assegnata. Ma più iniziale è l’????e?a stessa.

Non appena l’interpretazione della f?s?? sarà sviluppata per una volta in maniera sufficiente, non appena anche l’essenza della «verità» sarà (innanzitutto) portata oltre la adaequatio indietro in direzione della non-velatezza come essenziarsi dell’ente, non appena f?s?? e ????e?a saranno liberate dalle catene della metafisica, ma, soprattutto, non appena si comprenderanno l’essere iniziale dell’inizio e la sua storicità, si potrà arrischiare di nominare l’????e?a come l’essenza iniziale del primo inizio.

Da qui risulta però, nuovamente, la necessarietà di pensare la f?s?? sul fondamento essenziale dell’????e?a, nel senso di una già determinata ????e?a, cioè della d??a nel senso essenziale dell’apparire, del sorgere.

F?s?? diventa allora l’origin...tato ceduto all’?d?a, la f?s?? diventa la determinazione di un ambito ancora più vicino, vale a dire più stabile e insieme mutevole: la «natura».

  1. ?–???e?a (il suo velato essenziarsi è: il velamento come (evento))

(cf. Dell’inizio)

Abbiamo del tutto dimenticato, finora, il fatto che nell’????e?a il ?a????e??, il velare, è il «positivo». L’a- sembra portare nell’aperto e rendere superflua la meditazione sul ?a????e??.

Così è nel primo inizio e anzi in modo necessario e per quale ragione? Perché è solo lo schiudersi, lo svelamento che ha dato per la prima volta l’aperto e lo ha dato innanzitutto come sovrabbondanza – e tuttavia come f?s??. Eraclito (cf. sulla Fisica di Aristotele B 1). L’?–???e?a non qualcosa di diverso dall’essere, bensì la dimensione iniziale dell’inizio.

  1. Nel primo inizio Non-velatezza è esperita (f?s??).

Velamento è esperito (f?s??).

F?s?? lo schiudentesi risalire come stabilità nel venire alla presenza («essere» come divenire).

L’essenziarsi della f?s??, tuttavia, è l’????e?a.....a non-velatezza e velamento non vengono interrogati nel loro fondamento.

Essi sono essenzialmente come il primo, come ????.

Per questo, il non-velato stesso deve guadagnare una posizione di preminenza e con esso ciò che spinge in avanti nell’ambito dell’apprendere.

Il non-velato nell’apprensione (Parmenide: ta?t??), il non-velato nella sua visività (?d?a), la visività come stabilità del venire alla presenza (?????e?a).

Allo stesso tempo: il primato dell’ente stesso nel trasferimento all’a?t?a.

Quindi: ????e?a lasciata indietro nella dimenticanza.

  1. La verità e il vero Il vero – significa che ciò che ogni volta è fondato ed esperito nella stessa non riconosciuta essenza del vero, della verità, è sempre la medesima cosa, nella misura in cui esso costituisce il riferimento all’«ente» e lascia permanere in esso.

La verità invece, l’essenziarsi del vero, è a volte, sebbene abbastanza raramente, in ogni caso diverso. E questo essere diverso scaturisce dalla ricchezza dell’Essere stesso.

  1. Non-velatezza è strappata con la forza a un velamento e a una velatezza. Deve esserci una lotta? (cf. Eraclito: p??eµ??). Conformemente al modo e all’originarietà, con cui si domanda del velamento e della sua appartenenza all’Ess....nche di questo stesso, conformemente all’essere iniziale della tonalità emotiva e della transpropriazione nell’Essere, da cui soltanto scaturisce il domandare, è possibile pensare anche la non-velatezza e l’essenza del «non».

Il «non» è anzi il segno del tipo di iniziale appropriazione della radura dell’Essere e della conseguente interpretazione e formulazione concettuale.

Con la semplice citazione del nome «non-velatezza» non si è fatto nulla; neppure i tentativi di pensare a questo proposito «in modo greco» conducono qui a ciò che è essenziale.

  1. f?s?? – ????e?a – Essere Costituisce una decisione anche il fatto che, con l’interpretazione di Platone dell’essere come ?d?a, l’essenza dell’????e?a è portata nell’indeciso; essa è anzi la decisione, a cui dovrebbe essere destinata la più vasta portata nel corso della «storia» della «verità» quale si è data finora.

Con questa decisione per l’indecisione, e cioè qui, immediatamente, per l’indecidibilità dell’ormai inaccessibile inizio essenziale dell’essenza della verità, nasce un’«epoca» nella storia dell’essere. L’essere vela la sua essenza dopo lo schiudersi nel primo inizio; il velamento lascia venire nell’essere, cioè, ora, nella «potenza», l’abbandono dell’ente da parte dell’essere nella forma dell’enticità c...ione. L’«??a???», il «bene», «è» la sua essenza: il «male».

  1. ?–???e?a e l’aperto Il concetto di «aperto», conforme alla storia dell’Essere, è la determinazione dell’inizio iniziato, cioè dello svelamento. L’aperto – e la sua apertura – è il carattere essenziale dell’essere ed esso può giungere all’esperienza solo nel sapere iniziale. Nella misura in cui solo l’uomo storico è essenzialmente nel riferimento all’essere dell’ente, il suo apprendere, cioè l’apprensione assunta dall’uomo si distende nello svelamento. Solo l’uomo apprende un aperto. Senza il mantenimento del rigoroso riferimento tra ????e?a e apertura, l’essenza dell’aperto conforme alla storia dell’Essere non può mai essere pensata in modo essenzialmente corretto. Solo nel conquistare con il domandare l’essenziarsi dell’Essere, il pensiero raggiunge il concetto di «aperto» così determinato.

Solo dove è questo aperto, là c’è «mondo» come ordinamento dell’insistentemente fondato aperto (verità) dell’ente.

L’ente è solo un possibile [oggetto] che-sta-contro e un oggetto che sta di fronte (??t?), perché esso è essenzialmente nell’aperto dell’essere. Proprio dove c’è un «di fronte a», là è essenzialmente ciò che è più originario, la radura del frattempo. E proprio questo aperto è questo è accaduto proprio là dove l’ente è diventato ciò che è oggettuale, perché al tempo stesso l’essere dell’ente non è più valorizzato nell’essenza, ma è persino preso per ciò che è puramente deciso, anzi come ciò che è certo, che è piegato nella «riflessione» e, così bloccato, come ciò che è assicurato. Questa non valorizzazione dell’essere è, nel modo della dimenticanza dell’essere, un modo proprio della verità dell’ente, che attesta più che mai l’essenziarsi dell’essere e cioè lo svelamento dell’aperto.

L’uomo – determinato metafisicamente – è animal rationale, e la ratio è riflessiva: l’uomo colui che è «girato» e in tal modo rivolto all’ente, che per questo può essere solo oggetto.

Ma colui che è «riflesso» è l’uomo moderno. E la rotazione proviene dall’essenziarsi e dalla storia dell’essere stesso. Ma ciò che non è girato di questa rotazione non è mai l’essenza del mero «animale» – al contrario: ciò che non è girato è l’appartenere all’inizio, appartenere che è appropriato solo a partire dal carattere di inizialità. Qui, tuttavia, lo svelamento dispiega la propria essenza come l’inizio. E da tutto ciò è esclusa sempre tutta l’animalità.

(Si compie un enorme fraintendimento di Essere e tempo, quando, nei consueti paragoni storiografici....sì come «l’angelo» indica la sua posizione fondamentale nella metafisica. L’uomo è, per Rilke, «interiorità», il soggetto rinchiuso, spazio interno, in cui tutto deve essere trasformato.

Già(1555-morta di parto alla quarta gravidanza) che è della generazione precedente, ci furono due scrittrici, ossia Lucrezia Marinelli (1571-1653) e Sara Copio Sullam (1590- 1641), che furono mogli, madri e autrici di novelle e trattati pubblicati.96 Questo, contro la divulgata teoria che le donne riuscissero a scrivere solo nei monasteri: a mio avviso è finora dimostrato semplicemente che i monasteri conservavano meglio i documenti e semmai 30 incoraggiavano la scrittura e pubblicazione (dei soli testi devoti). Quello che possiamo dire senz?altro per certo è che la sua tragica vicenda personale ispirò effettivamente ad Arcangela Tarabotti un?analisi lucidissima sulla condizione monastica, con quella marcia in più di cose vissute, sapori annusati, piccoli aneddoti anche sottaciuti che solo l?esperienza diretta, il giornalistico reportage sul campo, riescono a dare.97 Da qui a sostenere, come fa Gabriella Zarri, che il monastero rappresentò l?autonomia e la realizzazione di Arcangela, ce ne vuole.98 Edward H. Carr, di nuovo, dice che le qualità portanti dello storico sono “imagination” e “compassion”:99 ci vuole mancanza di immaginazione, mancanza di compassione e anche molta forzatura dei documenti per dire che Arcangela Tarabotti fu felice in convento e che questo fu “un luogo adatto per la propria autorealizzazione e promozione sociale”.100 Possiamo dire invece che, con la sua grande intelligenza e capacità, seppe fare di necessità virtù e trarre ispirazione dal suo caso personale per allargarsi a una denuncia più generale, vivendo “se non proprio consolata, almeno assai meno discontenta” grazie al suo mestiere di scrittrice e polemista. Oggi, a distanza di quasi quattro secoli, consola – almeno in parte e postumamente, almeno a me - saperla ripagata delle sue sofferenze personali per le 31 quali certamente continuerò a piangere, anche se solo in termini metaforici e storiografici,101 grazie a una fama che, per sua immensa fortuna, le giunse in vita e che le sopravvive ancora adesso, immutata, in morte. 32 *Questo paper è stato presentato all?incontro di studio “Una donna del „600. Intorno ad Arcangela Tarabotti”, Università Ca? Foscari, Venezia, e Ateneo Veneto, in occasione della presentazione del volume di Arcangela Tarabotti, Lettere familiari e di complimento, a cura di Meredith Ray e Lynn Westwater, il 12 maggio 2006. Ringrazio in ordine alfabetico gli amici veneziani, di nascita o di adozione, che mi hanno aiutato: Luisa Accati, Anna Bellavitis, Simona Bortot, Flavia De Rubeis, Giuseppe Del Torre, Mario Infelise, Roberto Mancini, Vittorio Mandelli, Martina Minini, Tiziana Plebani, Pietro Valle, Giovanni Vian, Roberto Zago. Come sempre sono la sola responsabile di quanto scritto. 1 Prima nella sua tesi di laurea con Nicola Matteucci discussa a Bologna presso l?Università di Scienze Politiche e poi con la pubblicazione del suo volume: vedi Ginevra Conti Odorisio, Donna e società nel Seicento. Lucrezia Marinelli e Arcangela Tarabotti, Roma, Bulzoni, 1979, con introduzione di Ida Magli, pp.9-16. 2 Vedi ora il romanzo di Melania Mazzucco, La lunga attesa dell?angelo, Milano, Bur, 2008, in part. pp.105, 112-113, 130-141, 259-261, 309-312 e 343-344, in cui si parla estesamente del monastero di Sant?Anna in Castello, dove le due figlie di Tintoretto furono realmente monache nello stesso periodo di Arcangela e dove, nel romanzo, una di queste, suor Lucrezia (nella realtà suor Ottavia), lettrice di libri proibiti munita di occhialini, ha probabilmente preso i tratti dalla Nostra, sebbene nel romanzo questa si diletti di filosofia e di astronomia e non di politica e letteratura; cfr. della stessa, Jacomo Tintoretto e i suoi figli. Storia di una famiglia veneziana, Milano, Rizzoli, 2009 (opera davvero notevole per la ricerca storica dispiegata), dove Tarabotti è ripetutamente citata nel testo alle pp. 367, 617, 618, 624, 629, 721, 726, 727, 733, 735, 737, 738, 780, 791, 796, 797, 812, e nelle note alle pp. 902, 907, 920, 922, 925, 928, 930, 931, 1005, e in part. p. 726, dove viene definita “dopo la manzoniana Virginia de Leyva la monaca più celebre del Seicento italiano e una delle sue più importanti scrittrici”. 3 Vedi Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2009, vol. II Dalla decadenza al Risorgimento, pp.50-52, in part. per la citazione p.50. Cfr., per un pubblico più allargato, Paolo Mauri, L?Italia e i suoi scrittori, “la Repubblica”, 4 febbraio 2009, pp.36-37: “[…] donne scrittrici,che consente di recuperare anche in secoli lontani figure non marginali e solo da poco ristudiate come quella della monaca secentesca Arcangela Tarabotti, una sorta di gemella di 33 suor Gertrude quanto alla condizione di segregata in una clausura, ma attiva soprattutto nella scrittura per difendere dalle stereotipate calunnie maschili il sesso femminile e per descrivere (è il titolo di una sua opera) „l?Inferno monacale? quando appunto la monacazione era forzata” Cfr. Luigi Malerba, L?infero delle monache, “la Repubblica”, 25 ottobre 1990, p.35; Gianfranco Corsini, L?inferno monacale di Arcangela Tarabotti, “L?Unità”, 9 gugno 1990, p.27. 4 Vedi Virginia Cox, Women?s Writings in Italy 1400-1650, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2008, pp. XVII, 174, 194, 204, 205, 206-208, 211-212, 222, 225-226, 232, in part. p.211. 5 Cito l?exergo posto sul frontespizio del volume di Emilio Zanette, Suor Arcangela monaca del Seicento veneziano, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1960, a tutt?oggi l?unica biografia sulla Nostra. 6 Vedi, curiosamente, poiché l?aveva personalmente conosciuta e – almeno per un periodo, fra il 1642 e il 1644 – intensamente frequentata, Angelico Aprosio, La biblioteca aprosiana, passatempo autunnale di Cornelio Aspasio Antivigilmi, Bologna, Manolessi, 1673, pp. 168- 170, 172-173, 176, in part. p. 168: “Nel 1644 venne voglia ad Angelica Tarabotti…”. Lo stesso del resto fa il suo primo studioso ed estimatore, Apostolo Zeno: vedi Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia (d?ora in poi BNMVE), Ms. Marciano It., Cl. XI, CCLXXXVIII (7.2778), Vol. S-Z, Catalogo autografo di Apostolo Zeno, ad vocem, “Arcangela [soprascritto], Angelica [sottoscritto]…”. 7 Vedi per l?appunto padre Angelico Aprosio, Lo scudo di Rinaldo di Scipio Glareano, Venezia, Hertz, 1646, prefazione e cap. VII; Id., Biblioteca aprosiana, Bologna, Manolessi, 1673, pp. 168, 173; abate Michele Giustiniani, Scrittori liguri, Roma, 1667, pp.63-65; Egidio Menagio, Mescolanze, Rotterdami, 1692, p.312. 8 Vedi Francesco Boninsegni, Contro il lusso donnesco. Satira menippea con l?Antisatira D. A. T. in risposta, dedicata all?Altezza Sereniss. di Vittoria Medici della Rovere, Granduchessa di Toscana, Venetia, per Franc. Valvasensis, 1644, con licenza de? superiori e privilegi. 9 Vedi Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragion d?ogni poesia, Milano, Agnelli, 1739-1752, vol.II, 1741, pp.570-571, in part., p.571 ; cfr. in mancanza di meglio ad vocem, a firma di Giulio Natali, Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Roma, Istituto dell?Enciclopedia Italiana, 1935, vol. XXVIII, p.586. 10 Vedi Giammaria Mazzuchelli, Gli scrittori d?Italia, cioè notizie storiche e critiche intorno alle vite e agli scritti dei letterati italiani, Brescia, Bossini, 1753, vol.I, parte II, ad vocem, pp.887-896, cito da p.892. ad 34 vocem, a firma di Giulio Natali, Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Roma, Istituto dell?Enciclopedia Italiana, vol.XXII, p.658. 11 A partire dal Settecento i repertori dedicati alle donne sono diffusi (fra questi, è specificata la pagina ove sia citata la Nostra): vedi, ad esempio, Francesco Clodoveo Maria Pentolini, Donne illustri, Livorno, Falorni, 1776, p.154-155; Ambrogio Levati, Dizionario biografico delle donne illustri, Milano, Bettoni, 1821, vol.III, p.170; Ginevra Canonici Fachini, Prospetto biografico delle donne illustri, Venezia, Alvisopoli, 1824, p.162 (citata per altro come “Trabotti”); Pietro Leopoldo Ferri, Biblioteca femminile italiana, Padova, Crescini, 1842, p.360-361 per Tarabotti; Rosalia Amari, Calendario di donne illustri italiane, Firenze, Bencini, 1857, p. 373; Eugenio Comba, Donne illustri italiane, Torino-Roma, Paravia, 1872; Oscar Greco, Bibliografia femminile italiana del XIX secolo, Venezia, Issoglio, 1875; Luisa Pomba Pacchiotti, L?apostolato delle donne, Torino, 1882; Carlo Villani, Stelle femminili, Napoli, Officina Aldina, 1913; Maria Bandini Berti (a cura di), Poetesse e scrittrici, vol. II, in Enciclopedia biografica e bibliografica italiana, Roma, E.B.B.I., 1942, pp.293-294; e ora ad vocem in Diane Robin, Anne R. Larsen, Carole Levin (edd.), Encyclopedia of Women in the Renaissance: Italy, France and England, pp.351-355. 12 Vedi Arcangela Tarabotti, Lettere familiari e di complimento, Meredith Ray, Lynn Westwater (a cura di), Torino, Rosenberg e Sellier, 2005; Francesca Medioli, L?Inferno monacale di Arcangela Tarabotti, Torino, Rosenberg e Sellier, 1990. Cfr. inoltre i seguenti articoli sempre di chi scrive: Id., Alcune lettere autografe di Arcangela Tarabotti: autocensura e immagine di sé, “Rivista di storia e letteratura religiosa,” 1996, pp.133-141, 146-155; Id. Arcangela Tarabotti?s Reliability about Herself: publication and selfrepresentation (together with a small collection of previously unpublished letters), “The Italianist”, 23, I, 2003, pp.54-101; Id., Tarabotti fra omissioni e femminismo: il mistero della sua formazione, pp. 1-28, per il convegno internazionale, tenutosi a Venezia 8-10 maggio 2008, “Donne a Venezia. Spazi di libertà e forme di potere (XVI-XVIII secolo)”, attualmente accessibile in rete negli atti a cura di Anna Bellavitis nella sede di “Storia di Venezia” in www.storiadivenezia.net/sito/donne/Medioli_Tarabotti.pdf e ora in corso di pubblicazione per i tipi di Quiedit, Verona; Id., Arcangela Tarabotti: una famiglia non detta e un segreto indicibile in famiglia, “Nouvelles de la 35 République des Lettres”, in corso di pubblicazione (2011). 13 Vedi Francesco Buoninsegni, suor Arcangela Tarabotti, Satira e Antisatira, Elissa Weaver (a cura di), Napoli, Salerno, 1998; per la storia di questo testo, vedi Id., Un falso editoriale: la princeps (1644) dell'Antisatira di Arcangela Tarabotti, in T. Crivelli (a cura di), Feconde venner le carte: studi in onore di Ottavio Besomi, Bellinzona, Casagrande, 1997, pp.393-404. 14 Vedi Arcangela Tarabotti, La Semplicità ingannata, Simona Bortot (a cura di), Padova, il Poligrafo, 2007. 15 Vedi Arcangela Tarabotti, Che le donne siano della spezie degli uomini (Women are no less rational than men), Letizia Panizza (a cura di), London, Institute of Romance Studies, 1994; cfr. Simon Gedik, Arcangela Tarabotti, Women are not human. An anonymous treatise and responses, Theresa M. Kenney (a cura di), New York, Crossroad Publishing Company, 1998. 16 Vedi Arcangela Tarabotti, Paternal Tiranny, Letizia Panizza (a cura di e traduzione di), Chicago, Chicago University Press, 2004. 17 Vedi Arcangela Tarabotti, Paradiso monacale libri tre con un Soliloquio a Dio di Donna Arcangela Tarabotti, in Venetia, presso Guglielmo Oddoni, 1663 (ma 1643), con lincenza de? superiori e privilegio. 18 Su Arcangela Tarabotti, vedi inoltre i seguenti contributi più o meno recenti, che a mio avviso nella maggioranza dei casi poco aggiungono: Emilia Biga, Una polemica femminista del Seicento: La maschera scoperta di Angelico Aprosio, Ventimiglia, Civica Biblioteca Aprosiana, 1989; Daniela De Bellis, Arcangela Tarabotti nella cultura veneziana del XVII secolo, “Annali del Dipartimento di Filosofia”, Università di Firenze, VI, 1990, pp.59-110; Nancy Canepa, The Writing behind the Wall: Arcangela Tarabotti?s Inferno monacale and claustral Autobiography in the Seventeenth Century, “Forum Italicum”, 1996, 30 (1), pp.1-23; Amalia Bettini, Il teatro e la memoria. Letteratura e filosofia nell?”Inferno monacale” di Arcangela Tarabotti, in Pina Totaro (a cura di), Donne, filosofia e cultura nel Seicento, Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 1999, pp.51-59. Di altra qualità, invece, Meredith K. Ray, Letters From the Cloister: Defending the Literary Self in Arcangela Tarabotti's Lettere familiari e di complimento, “Italica”, 81, 1 (2004), pp.24-42; Id., Writing gender in women's letter collections of the Italian Renaissance, Toronto, University of Toronto Press, 2009, in part. pp 184-213; Id., Letters and Lace: Arcangela Tarabotti and Convent Culture in Seicento Venice, in Julie D. Campbell, 36 Anne R. Larsen (edd.), Early modern women and transnational communities of letters, Farnham, Burlington, VT, Ashgate, 2009, pp.46-73; Lynn Westwater, A cloistered nun abroad: Arcangela Tarabotti?s international literary career, in Anke Gilleir, Alicia C. Montoya, Suzan van Dijk (edd.), Women writing back/writing women back: transnational perspectives from the late Middle Ages to the dawn of the modern era, Leiden, Boston, Brill, 2010; e l?ottima sintesi di Dolores Valencia, Mujer, cultura y escritura en la Venecia barroca: Arcangela Tarabotti, in Estela Gonzáles de Sande, Ángeles Cruzado Rodríguez (editoras), Rebeldes literarias, Sevilla, ArCiBel Editores, 2010, pp.657- 677(ringrazio Mario Infelise per questa segnalazione). 19 Sulla figura di Apostolo Zeno, vedi ora Cesare De Michelis, ad vocem, Dizionario critico della letteratura italiana, Torino, Utet, vol.IV, 1986. Vedi Luisa Bergalli Gozzi, Componimenti poetici delle più illustri rimatrici di ogni secolo raccolte da, Venezia, Mora, 1725, ora Adriana Chemello (a cura di), Mirano, Eidos, 2006. 20 Vedi Benedetto Croce, Appunti di letteratura secentesca inedita e rara, “La critica”, III, VI, 1929, pp. 478-480; Id., Nuovi saggi della letteratura del Seicento, Bari, Laterza, 1931, cap. XIII, “Donne letterate nel Seicento”, pp.154-157, 176. 21 Vedi Emilio Zanette, Elena Tarabotti e la sua “Semplicità ingannata”, “Convivium”, 1, 1930, pp.49-53; Id., Ancora di Elena Tarabotti, “Convivium”, 1, 1931, pp.124-129; Id., Una monaca femminista del Seicento (suor Arcangela Tarabotti), “Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti”, 102, 1942-1943, pp.4-83, 4-96; Id., Giovan Francesco Loredan visita suor Arcangela Tarabotti, “Le tre Venezie”, XIX, 1944, pp. 67-69. Per i dati biografici su di lui, vedi Fernando Coletti, “Ricordo di Emilio Zanette”, in Emilio Zanette, Dizionario del dialetto di Vittorio Veneto, Vittorio Veneto, De Bastiani, 1980, pp.IX-XV. 22 Vedi Natalia Costa Zalessow, Tarabotti?s La semplicità ingannata and its twentieth century interpreters, with unpublished documents regarding its condemnation to the Index, “Italica”, 78, 2001, pp.314-325; Id., La condanna all?Indice della Semplicità ingannata di Arcangela Tarabotti alla luce di manoscritti inediti, “Nouvelles de la République des Lettres”, I, 2002, pp.97-113. 23 Vedi Elissa Weaver (a cura di), Arcangela Tarabotti. A literary Nun in Baroque Venice, Ravenna, Longo Editore, 2006. 24 Vedi Edward H. Carr, What is history?, London, Penguin, 1961. Cito dalla traduzione (a cura di Carlo Ginzburg): 37 Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Torino, Einaudi, 1972, in part. il primo capitolo e p.16, dove Carr fa il celebre esempio di “fatto storico” con il passaggio del Rubicome di Cesare, quando milioni di persone avevano traversato lo stesso fiume. Vedi ora sul grande storico inglese, Michael Cox (a cura di), E.H. Carr. A critical appraisal, London, MacMillan, 2000. 25 Vedi ora per la grande opera iniziata nel 1925 www.treccani.it/biografie/. 26 Vedi Tarabotti, Paradiso cit., p.8. 27 Vedi BNMVE, Mss. It., X, 358 (= 7323), c.n.n. 28 Vedi Tarabotti, Paradiso cit., p.10. 29 Vedi Francesca Medioli, Arcangela Tarabotti?s Reliability cit., p.69. 30 Vedi Emanuele Antonio Cicogna, Delle iscrizioni veneziane, Venezia, Orlandelli, 1834, vol. I, pp.135-136, in part. p.136 per la citazione. 31 Vedi ASPVE, Parrocchia di San Pietro in Castello, Registri Battesimi, filza 7, c.158v penna. 32 Vedi Archivio di Stato di Venezia (d?ora in poi ASVE), Corporazioni religiose soppresse, Sant?Anna in Castello, busta 34, c.7r-v. 33 Vedi ASPVE, Parrocchia di San Pietro in Castello, Registri Morti, filza 2, registro 7, c.24v penna. 34 Vedi Galerana Baratotti, La semplicità ingannata, Leida, Gio Sambix, 1654. 35 Vedi l?ancora imprescindibile Raimondo Creytens,La giurisprudenza della S.C. del Concilio nella questione della clausura delle monache, in La Sacra Congregazione edl Concilio. Quarto centenario dalla fondazione (1564- 1964). Studi e ricerche, Città del Vaticano, 1964, pp.563-597; Id., La Riforma dei monasteri femminili dopo i Decreti Tridentini, in Il concilio di Trento e la riforma tridentina, vol.I, pp.45-84. 36 Vedi ad esempio Moira Gatens, “Lo stato di oppressione del mio sesso”: Mary Wollstonecraft sulla ragione, i sentimenti e l?uguaglianza, in Anna Rossi Doria (a cura di), Il primo femminismo (1791-1834), Milano, Edizioni Unicopli, 1993, pp.119-138. 37 Cito da Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venetia, Iacomo Sansovino, 1581, p.5, ma 7r; cfr. Ennio Concina, Venezia nell?età moderna. Struttura e funzioni, Venezia, Marsilio, 1989, p.141. 38 Vedi la versione aggiornata di Francesco Sansovino, Venezia città nobilissima et singulare, descritta in XIII libri con aggiunta da D. Martinoni, Venezia, Curti, 1663, pp.23-24 (ora Venezia, Filippi, 1968). 39 Vedi Mary Laven, Virgins of Venice. Enclosed Life and Broken Vows in the Renaissance Convents, London, 38 Penguins-Viking, 2002, p.162; ora nella traduzione di Federico Barbierato: Id., Monache. Vivere in convento nell?età della Controriforma, Bologna, il Mulino, 2004. 40 Ibid., pp.75-76; Sansovino, Venetia… cit., p.6v. 41 Vedi Concina, Venezia… cit., “Atlante delle funzioni”, tavola II (1537) e III (1582) “Distribuzione delle botteghe in Venezia”: in entrambe le immagini a Castello le botteghe non passano la densità compresa fra l?1 e il 10%. 42 Vedi Concina, Venezia… cit., p.159. 43 Sulla dimora dell?ambasciatore di Francia nel Seicento, vedi Mario Infelise, Conflitti tra ambasciate a Venezia alla fine del „600, “Mélanges de l?Ecole française, Italie et Méditerranée MEFRIM, 119, 1, 2007, pp. 67-75; cfr. A.S.VE, Collegio, Cerimoniale,III, c.123r, 2 guigno 1646, per il battesimo del piccolo Grémonville, figlio dell?ambasciatore francese, che si svolse presso la parrocchia di residenza della famiglia, ossia San Geremia. 44 Vedi Concina, Venezia… cit., ill. 83, e p.220 dove specifica le proprie fonti (ASVE, Miscellanea Mappe, 617 e Museo Civico Correr, Mss. Morosini Grimani, b. 531), sottolineando tuttavia che si tratta di informazioni riguardanti la seconda metà del „700. 45 Nella prima tornata vennero incriminati e condannati Agostino Gussoni q. Andrea, Piero Morosini q. Barbon, Alvise Thiepolo q. Francesco, Tomaso Querini q. Zorzi, Alvise Morosini terzo, detto anche Zuan Piero q. Alvise, Marco Zen fu Girolamo, Piero Gritti fu Piero, Marco Giustiniani q. Giacomo, Almoro Dolfin q. Giacomo: vedi ASVE, Provveditori sopra i monasteri, cc.n.n., ma 8 novembre 1608. Nella seconda tornata furono Galeazzo Semitecolo q. Zorzi, Bernardo Grimani q. Zuanne, Zorzi Zorzi q. Zuanne, Nicolò Gussoni q. Andrea: vedi ASVE, Provveditori, b. 12, cc.n.n. ma 31 gennaio 1608 (more veneto, cioè 1609). Seguì Gasparo Ferro q. Francesco: vedi ASVE, Provveditori, b. 12, cc.n.n. ma 12 febbraio 1608 (more veneto, cioè 1609). Infine Giulio da Molin q. Marco: vedi ASVE, Provveditori, b. 12, cc.n.n. ma 22 febbraio 1608 (more veneto, cioè 1609) e Alvise Quirini “overo Chirini, nodaro della Cancelleria Ducale”: ASVE, Provveditori, b. 12, cc.n.n. ma 23 febbraio 1608 (more veneto, cioè 1609). 46 Vedi Zanette, Suor Arcangela… cit., pp.41-42. Per le monache implicate, vedi Archivio Storico Patriarcale di Venezia(d?ora in poi ASPVE), Curia Patriarcale, Sezione Antica, Monialium, Decreti e mandati Vendramino, filza 2 (1609-1619), cc.6-15r-v, in part. c.9r. E ora Mazzucco, Iacomo cit., pp.715-716, che tuttavia forza a mio parere 39 le fonti laddove ad esempio dice l?attività erotica di suor Maria Isabella volta a pagarsi, prostituendosi, un procuratore a Roma per intentare causa di nullità. 47 Vedi Laven, Virgins… cit., pp.155-158. Cfr. Jutta Gisela Sperling, Convents and the Body Politics in late Renaissance Venice, Chicago-London, University of Chicago Press, 1999, che sbaglia l?indicazione della busta dei X, che non è la 37, come da lei asserito a p.340: cfr. ASVE, Consiglio X, Parti criminali, b.25, cc.80.121r-v. Cfr. ASVE, Provveditori sopra i monasteri, busta 12, cc.n.n, ma 1608, 30 novembre. 48 Tutta la ricostruzione dello scandalo e dei destini dei suoi protagonisti anche uomini è ora in Mazzucco, Jacomo… cit., capitolo “Un inconveniente notabile”, pp.659-719 e per le note pp.913-919. 49 Vedi ASVE, PSM, busta 1, cc.39r-41v, citato da Laven, Virgins… cit., p.150. 50 Come unica eccezione vedi l?episodio riportato da Laven, Virgins… cit., pp.161-162, in cui il padre confessore delle Convertite, Giovanni Pietro Lion, che si era costruito un effettivo harem fra le monache ex prostitute, venne giustiziato in Piazza San Marco nel novembre 1561. 51 Vedi ASVE, Consiglio dei X, Criminali, Filze, b. 61, cc.45v-46r, 25 maggio 1611. Ringrazio Vittorio Mandelli per la cortese segnalazione. Sulla famiglia Gussoni, vedi dello stesso, Studi di famiglie e di collezionismo a Venezia fra Sei e Settecento, “Saggi e Memorie di Storia dell?Arte”, 31, 2007, pp.237-243. 52 Vedi ASVE, Provveditori sopra i Monasteri, b. 265, fascicolo 22 giugno 1618, cc.n.n. ma 1-6r-v, in part. c.4r–v, per la citazione. 53 Vedi ASVE, Provveditori, b. 265, fasc. 22 giugno 1618, c.4v. 54 Vedi ASVE, Provveditori, b. 265, fasc. 22 giugno 1618, c.5v. 55 Vedi ASPVE, Monialium, Decreti, b. 2, cc.51v-52r. 56 Vedi ASVE, Provveditori, b. 265, fasc. 22 giugno 1618, cc.1-16r-v. 57 Vedi ASVE, Provveditori, b. 265, fascicolo 22 giugno 1618, c.4v. Vedi ASVE, Miscellanea Codici, Serie I, Mss. 17-23, Marco Barbaro, Arbori de? patrizi veneti (dove notoriamente non compaiono le figlie femmine, né le sposate, né tanto meno le monacate), in part. Ms.21, vol. V, c.394, “Mosto”. Tuttavia è stato possibile ricostruire, incrociando fonti diverse, che suor Cherubina, di cui non si conosce il nome al secolo, era figlia di Zuanne (1508-1564) del q. Francesco da Mosto, e di Caterina Querini del q. Antonio, sposatisi nel 1544, e 40 dunque sorella di Piero (1550-1590), padre del nostro Piero (1591-1661), ossia del giovanotto colto sul fatto. Teoricamente nel 1618 suor Cherubina avrebbe potuto avere da un massimo di 73 anni, essendo nata da un matrimonio celebrato nel 1544, a un minimo di 53, comparendo nel 1591 in una elenco di monache di Sant?Anna che avevano fatto la professione solenne, per la cui età minima si doveva aver compiuto i 16 anni. Tuttavia, secondo ASPVE, San Pietro in Castello, Registri dei Morti, b.2, f.4, c.12r, suor Cherubina morì il 19 luglio 1640 a 99 anni (il che la farebbe nascere nel 1541, cosa non compatibile con la data del matrimonio dei suoi genitori), ma che suggerisce come più plausibile la data di nascita del 1545 e la morte

È là come quella, non proprio concisamente espressa dalla Stessa – e per una volta non sospettabile di dolo o depistaggio – circa: […] il dì che trapassai dal mondo alla religione, fui chiamata alle celesti nozze alhora che correva l?anno ventesimo sopra il mille e seicento de? Vostri natali, in giorno nel quale giubilavano gli angioli e godeva la terra per la nascita di quella cara Bambina i cui primieri vagiti furono così maestosi che la testimoniarono per già anticamente nata ed eletta ad essere madre di Dio.26 Tutto questo per dire che aveva preso l?abito l?8 settembre 1620. O come afferma Zeno, senza dichiarare la propria fonte, circa la professione solenne emessa il 27 settembre 1623.27 Che il probabile termine post quem per la sua consacrazione (fino alla quale dice di se stessa “vissi […] monaca solo di nome, ma non d?habito e di costumi, quello pazzamente vano e questi vanamente pazzi”)28 è il 1629, essendo l?età canonica prescritta i 25 anni, per altro non sempre rispettati.29 E via dicendo. Serve insomma una via d?uscita all?equivoco, in cui io per prima sono caduta, di prender per buono quel che scrive lo storico epigrafista veneziano Emanuele Antonio Cicogna (1789-1858): “Ma le notizie da me qui recate appoggiano alle stese sue opere e principalmente alle Lettere, dalle quali altre molte ne potrebbe cavare chi la vita di questa donna scriver volesse”.30 8 I fatti e le date certe, oltre a quelle di cui sopra, sono dunque pochissimi: la piccola Elena Cassandra nacque in data imprecisata e venne battezzata il 24 febbraio 1604, prima femmina di sette.31 Entrò in Sant?Anna come educanda e compare nei registri dal 1617.32 E qui morì il 28 febbraio 1652.33 A fronte di ciò restano le sue opere: il Paradiso monacale pubblicato nel 1643, l?Antisatira l?anno seguente, le Lettere familiari e di complimento nel 1650, Che le donne siano della spetie degli uomini nel 1651, a cui si aggiunse nel 1654, due anni dopo la sua morte, la Semplicità ingannata oltre al manoscritto Inferno Monacale.34 In esse il punto di vista tutto politico di Arcangela Tarabotti e il suo protofemminismo appaiono in piena nitidezza: prima di tutto la denuncia delle monacazioni forzate, cogente problematica a lei contemporanea mai rivendicata in termini personali, e poi il diritto alla parità in termini sociali ed economici e anche di opportunità (lo studio prima e poi il diritto al lavoro) fra uomo e donna, il diritto di partecipare alla vita pubblica e a quella religiosa, il diritto alla sessualità.35 Non a caso per trovare un?altrettanto forte lucidità, bisogna aspettare Mary Wollstonecraft…36 4. Miti e luoghi comuni storiografici 9 Ugualmente restano da sfatare alcuni miti, sia all?interno di questa cornice storica certa, sia più in generale. È un fatto che Sant?Anna in Castello fosse ormai un convento piccolo e fuori mano, per quanto in prossimità della chiesa cattedrale di Venezia, San Pietro in Castello, posto vicino a una zona di paludi esistenti ancora nel „700. Francesco Sansovino (1521-1586), con occhio esperto da figlio di architetto, se non proprio da „foresto?, nel suo Venetia città nobilissima et singolare lo definisce senza mezzi termini: “luogo antico […] et per la sua molta vecchiezza, quasi del tutto nudo di bellezza”.37 È senz?altro vero che poi i restauri iniziarono nel 1634, ossia durante il periodo in cui la povera Arcangela vi visse (non voglio pensare alla polvere e al rumore che dovette patire), ma ugualmente, anche dopo, pur venendo definito “al presente in bella leggiadra forma”, non divenne mai un luogo architettonico importante.38 Negli anni in cui ci stava lei, ospitava fra le 30 e le 40 monache professe: nulla a confronto delle 400 indicate per le Convertite.39 Forse non poverissimo come appunto le Convertite alla Giudecca o San Sepolcro, ma certamente non era un convento lussuoso come i ben più centrali San Zaccaria o San Lorenzo, o le Vergini, quest?ultimo poco distante da Sant?Anna, ma di antichissima tradizione e di immenso prestigio, visitato in occasione dell?elezione di ogni nuova badessa dal doge in persona.40 Inoltre Castello, e specialmente quella zona di 10 Castello posta oltre l?Arsenale, non era né elegante (priva di palazzi patrizi, era da sempre abitato da arsenalotti, gli operai specializzati nella costruzione delle navi veneziane) né tanto meno frequentato per le sue botteghe come invece Rialto.41 Era una zona popolare e sovraffollata di quella grande metropoli che era Venezia allora, definita da Leonardo: “congregazione di popolo, che a similitudine di capre l?uno adosso all?altro si stanno, empiendo ogni parte di fetore,[…] semenza di pestilente morte.”42 Questo voleva dire, in termini pratici, che per vedere suor Arcangela bisognava effettivamente muoversi con l?intento di recarle visita. Per intenderci, il suo amico Nicolas Bretel de Grémonville, ambasciatore a Venezia dal 1644 al 1646, doveva spostarsi dal suo palazzo, posto nel sestiere di Cannaregio nella parrocchia di San Geremia, lungo Fondamenta Nuove e circumnavigando a piedi o in gondola l?Arsenale fin quasi a Sant?Elena.43 E i suoi famigliari, dal 1616 trasferitisi all?altro capo della città, con cui per altro Arcangela aveva rapporti tutt?altro che idilliaci, dovevano muoversi da San Niccolò dei Tolentini traversando tutta quanta Venezia.44 Inoltre Sant?Anna era un monastero chiacchierato: nell?inverno 1608-1609 era stato teatro di uno scandalo che aveva visto coinvolti non meno di una decina di “monachini” (così chiamati coloro che amoreggiavano con le monache) facenti parte della „meglio gioventù? dei patrizi veneziani 11 di quella generazione.45 Zanette lo riporta elencando i nomi dei “monachini”, ma senza ricavare quelli delle monache implicate (ossia suor Maria Isabella Franceschi e suor Alba Semitecola, citate apertamente solo nelle carte del Patriarca), una delle due incinta, entrambe relegate poi alle Convertite, la fuggiasca prima incarcerata ai Piombi col permesso di venire torturata.46 Grazie a una lettera dell?ambasciatore e poeta inglese Henry Wotton, allora di stanza a Venezia, Mary Laven fa il nome del monastero coinvolto, assente per la consueta tutela della „privacy? dalle carte sia del Consiglio dei Dieci sia dei Provveditori sopra i monasteri, dove si legge che le due monache di Sant?Anna venivano “transported […] to their private chambers, and up and down the town in masking attire at festival assemblies”.47 Le condanne furono – almeno sulla carta – esemplari: 15 anni di bando ad Agostino Gussoni, contumace come quasi tutti gli altri, ma che aveva avuto “per lungo spatio di tempo […] con essa monaca comercio carnale” dentro il monastero, a un Morosini, “absente ma legittimamente citato” recidivo come “monachino”, e via dicendo.48 Ma dal 1571 i patrizi potevano essere giudicati solo dal Consiglio dei Dieci, il che in questo caso almeno era a tutela, dal momento che nel 1604 (7 febbraio) lo stesso Consiglio aveva decretato: Se alcuno nell?avenire sarà trovato dentro di alcun monasterio, ovvero sarà accusato di esservi stato, 12 così di giorno come di notte, etiam che non fusse convinto di comertio carnale, essendo retento et giustificata la verità, gli sia tagliata la testa, sì che si separi dal busto et muora.49 Cosa che di fatto era stata applicata, che io sappia, un?unica volta e non a un patrizio.50 Per il resto, di solito il bando veniva revocato dopo poco: è quanto accadde all?altro Gussoni, Nicolò, fratello del summenzionato, il cui padre era stato per altro ambasciatore in Francia ed era uomo di grandi mezzi, per il quale venne fatta una supplica, accolta dallo stesso Consiglio dei Dieci il 25 maggio 1611.51 Naturalmente non tutti gli episodi di infrazione della stretta clausura erano così estremi e coinvolgevano scandali di natura sessuale volti, come si diceva, ad malum finem. Di solito si trattava di episodi che denotavano l?ancora elastica percezione della stretta clausura – a oltre cinquant?anni dalla sua introduzione – sia da parte delle monache sia da parte dei loro familiari, a fronte delle autorità sia laiche sia religiose che invece tentavano con ogni mezzo di implementarla. In occasione della Pentecoste del 1618, una comitiva passeggiava per la laguna in gondola: il patrizio Piero di Piero da Mosto con sua sorella Lucrezia, vedova in un Contarini, insieme alla loro “gastalda” con due figlie da marito in visita. Fu allora che (è Piero da Mosto che parla): Nel viazo incontrassimo una barca de pesse et comprai 10 0 12 scombri et de l?altro pesse, et così ragionando dove si haveria cusinando ste pesse 13 mia sorella disse: “Andemo da la nostra ameda a Sant?Anna”.52 Detto fatto, pregustando il banchetto, mandai un servitor in terra colla sessola piena de pesse a far reverentia a suor Cherubina da Ca? da Mosto, nostra ameda, et a pregarla che la mel facesse cusinar.53 Ma i visitatori preferivano non scendere a terra, essendo la sorella “in zoccoli bassi e senza capa”, e allora la zia mandò a dire di trovarsi “alla riva della caneva”, ossia nel limitrofo canale di Quintavalle, restando loro in gondola: le monache si sarebbero affacciata alla porta: Et cosi? andassimo, dove venne detta signora ameda e due mie [cugine] zermane, suor Nicolosa da Ca? Foscarini e suor Costantina da Ca? Zorzi, colle quali si ragionò. Sfortuna volle che passasse in quel momento proprio sulla riva opposta il capitano dei Provveditori sopra i Monasteri (ossia della magistratura laica, creata nel primo Cinquecento e preposta al governo delle monache)… Interrogato dai Provveditori sul fatto, Piero da Mosto rispose che “non sapeva non si potessero visitar, anzi credeva che mi fosse concesso, essendo sorella de mio padre”.54 La scusa era plausibile, ma in quel frangente specifico i Provveditori lavoravano solerti e in team con il Patriarca: in una manovra a tenaglia, lo stesso 22 14 giugno 1618 arrivò la reprimenda di quest?ultino anche alle monache di Sant?Anna: Alla diletta in Xsto la rev. madre abbadessa del monastero di Sant?Anna. Per ragionevoli et degni rispetti che movono l?animo nostro, vi commettiamo in virtù di santa obbedienza e sotto le pene infrascritte che non dobbiate permettere che altre monache vadino in caneva se non le perpetue canevare. Et che queste non debbano aprir la porta della detta caneva, se non occorrono di scaricar li vini del monastero. Né meno possano andar alla finestra di detta caneva sotto pena di scomunica. […] Et acciò che questo nostro ordine sia debitamente esequito, […] volemo che la madre badessa sempre sia tenuta publicarlo una volta al mese in reffettorio o in altro luogo publico del monastero, a chiara notizia di cadauna.55 Le pene comminate se l?ordine non fosse stato rispettato erano la scomunica, insieme alla privazione della carica per la badessa (colpevole di incapacità nel mantenere la disciplina), e la privazione della voce attiva e passiva e del parlatorio per un anno per le monache a lei sottoposte. Aleggiava su tanta severità, sproporzionata all?episodio in sé, la memoria dello scandalo del 1608 (in cui grande parte aveva avuto appunto la porta della “cantina” sul canale), che sopravviveva dentro e fuori il convento. Ma c?era dell?altro che anzi in quel momento tornava a essere scottante. A marzo era fuggita di nuovo dalle Convertite suor Maria Isabella Franceschi, la protagonista dello scandalo del 1608, e un biglietto anonimo, trovato proprio il 22 giugno nella “casella delle denontie”, la diceva libera e “per i fati soi, 15 senza che la giusticia ne fazi alcun moto” (e in effetti la fuggitiva non venne mai più ritrovata).56 Piero da Mosto, comunque, all?epoca scapolo e di 27 anni (si sarebbe sposato a 39), capiva benissimo che lo si sospettava di essere a sua volta un „monachino? e di utilizzare l?attempata zia settantenne suor Cherubina (non poi così intima se la sorella vedova era “per esser tre o quattro anni [che] non vi era più stata [a trovarla]”)57 come copertura per incontrarsi con una possibile innamorata, monaca giovane e non parente (non suor Nicolosa Foscarini, figlia di una sorella del nonno, Lucia di Francesco, e dunque, come detto da Piero, cugina per lui in secondo grado, che doveva avere a sua volta 53 anni, né suor Costantina Zorzi, la cui parentela esatta non sono riuscita a ricostruire, ma che doveva avere più o meno la stessa età).58 Sull?usare l?attempata zia come copertura, c?era almeno un precedente illustre che, per via dei legami famigliari, doveva essere ben noto anche a Piero da Mosto (e alle monache stesse, oltre che forse ai legislatori): Zorzi Zorzi del fu Zuane, uno dei “monachini” dello scandalo del 1608 e futuro ambasciatore in Francia, era due volte nipote proprio di suor Costantina Zorzi, essendo la di lui madre, Lucrezia di Zorzi di Costantino Zorzi (sposata – per l?estinguersi della sua linea – a Zuanne di Paolo Zorzi) e la di lui 16 altra zia materna, Elisabetta di Zorzi di Costantino (sposata a Giacomo di Paolo Zorzi, fratello dell?appena citato Zuanne di Paolo), entrambe sorelle carnali di suor Costantina…59 Per questo Piero, con accenti veementi, teneva a sottolineare il proprio buon nome e la propria buona fede: Non ci sarei andato in alcuna maniera et questa non è mia professione et quando si attrova alcuna cosa contro di me in proposito di monache, sì di questo come de qualsivoglia altro monasterio, mi castighino, Illustrissime Eccellenze, che mi contento; et anzi se vi è alcuno che aborrisca „sta cosa, son io uno de quelli […] et la conoscerà la mia innocentia et semplicità de „sto fatto.60 5. Alcune questioni più generali Dopo la stretta clausura imposta da Trento come legge universale a tutte le monache della cristianità, ivi comprese le terziarie,61 i monasteri femminili restarono permeabili alle famiglie e alla vita sociale locale, ma di fatto vennero sigillati. Magari si poteva contare sulla tolleranza dei singoli più illuminati (oltre che sulla lontananza da Roma, le tradizioni particolari ecc.). Proprio a Venezia il patriarca Giovanni Tiepolo lo teorizzò davanti al Senato nel 1629, spiegando apertis verbis di non voler infierire sulla disciplina per far in modo che le monacate senza vocazione potessero vivere “se non proprio consolate, per lo meno assai meno 17 discontente”.62 Localmente si poteva contare magari anche su specifiche congiunture: senz?altro si può ipotizzare che le monache veneziane – e la Tarabotti con loro - ebbero complessivamente maggiore libertà delle monache, poniamo, fiorentine o milanesi, nell?epoca che va dall?Interdetto (1606) fino allo scoppio della guerra di Candia (1645), nel periodo cioè in cui i rapporti fra la Serenissima e la Santa Sede furono più tesi. Al di là di ciò, tuttavia bisogna sottolineare con forza che la stretta clausura di fondo fu una misura carceraria e che venne vigorosamente fatta osservare, sia come clausura attiva (l?uscita dal convento) sia come clausura passiva (chi vi entrava, anche se di sesso femminile). E che la vera e propria ossessione su di essa, di cui partecipavano sia le autorità religiose sia quelle secolari, era mantenere il suo involucro inviolato, a rappresentare le monache non violate: su quel che poi succedeva all?interno, o almeno su quel che succedeva senza pubblico scandalo, si poteva anche lasciar perdere.63 Non sempre, va detto: il già citato patriarca Tiepolo, persona particolarmente illuminata, il 12 ottobre 1620 intervenne presso tutti i monasteri femminili di Venezia “sotto pena di peccato mortale e di escomunica maggiore dalla quale non possino esseregià

È Grundygrammy. C'è Grammetastryngrundy[Sublimetagrammy resynstryngrammy—eventygrammetastryngrundy Ontologrammy. Thetrakthystryngrammetabgrundy eventhystryngrammetabgrundy È Resynstryngrammetabgrundy radurabgrundygrammy Paradostryngrammetabgrundy è Nullabgrundygrammypsé radurabgrundyresynstryngrammypsé lì. Metagrammabgrundy esserné in sé già nullabgrundygrammy. È evEnthystryngrammetabgrundy——TheTrakthystryngrammetabgrundy“GRammEtabgrundy c'è nulla Perché nulla c'è storygrammabgrundy È fenoumenontologrammetabgrundy eventhygrammy È” Paradoxabgrundygrammy “)]. È LympHythethrakthystryngrammy”” ?? storygrammetabgrundy eventygrammetabgrundy Grammevento-katastroficoNty. “ “ Lymphytetraktystringrammetabgrundy già l'essersÈ catastrofevoluzionty”catastrofeventhyx” è lì. Eventhystryngrammetabgrundy catastrofica? Panschemabgrundygrammy è catastrofeventhyx lì • ThetrakthystryngraMmetabGrundy È lì. È catastrofe: Pancatastrofe dal panulla. È vuotontologrammetabgrundy la catastrofe-del-vuoto-nulla grammevento. Lymphycatastroficabgrundygrammypsé dal nulla dal panulla è catastrofeveNty catastrofe-C'è catastrofico-eventypsé evento-catastroficontosofia'interevento eventy eventosofy catastrofevento catastrofÈsserne. È sé c'è La crea catastrofevento catastrofeventuale. La catastrofÈvento catastrofessere catastrofeventhyx catastrofe-crea-radura dà'ONtoLogrammy È dà È. È Là lì. Lì già È Resynabgrundy. È già c'è Là C'è vuotontologrammetabgrundy là. RaduRa al di là si dà È. È Thetrakthyx. È Radura È dell'essere C'è. È già in sé al di là. È già spaziatuRaDurabgrundy già OntologrammaBgRundy] paradoxabgrundy lymphypoemabgrundy katatetrakthystryngluonousontologrammy È thethrakthystryngluonousabgrundy. È vuotabgrundy È katagrammabgrundy Senzaperché è già: è lì decadenzabgrunDy diagrammabgrundy in sé È lymphypoesiabgrundy tetraktyspoeticontologrammabgrundy. Lymphypoesiabgrundy tetrakthystryngluonouslymphypoeticabgrundy lymphypoeticabgrundy Katatetraktystryngluonoux kataStryngluonousabgrundy]]. È lì: eventua spazio. L'Essere dal nulla È già lì c'è dal nulla È l'evento metabgrundy Resynabgrundy lymphypoetabgrundy stryngrammabgrundy Resynabgrundy-lì'angosciabgrundy È Evento È “]. È grammangosciabgrundy È lymphyresynabgrundy È già È di per sé catastrofeventy-Resynabgrundy, stryngrammabgrundy È già-in-sé-eventy-Resynabgrundy spaziaturaDurAbgrundy È radurabgrundy già Tetrakthystryngrammabgrundy pittogrammy abgrammy abeventy metabgrammy È metabeventy abessere È Metabevento. C'è lì:abessere metAbrammyll'interno di quell'idea, l'assenza e il segno sembrano sempre creare una tacca apparente, pro-visionale e derivativa nel sistema della prima e dell'ultima presenza. Sono pensati come incidenti e non come condizioni della presenza desiderata. Il segno è sempre un segno di caduta. L'assenza si riferisce sempre al distacco da Dio. Per evitare la chiusura di questo sistema, non è sufficiente eliminare l' ipotesi o l'obbligo “teologico” . Se si nega a se stesso le strutture teologiche di Condillac quando lui cerca l'origine naturale della società, della parola e della scrittura, Rousseau fa sì che i concetti sostitutivi della natura o dell'origine giochino un ruolo analogo. Come possiamo credere che il tema della Caduta sia assente da questo discorso? Quanto specialmente quando vediamo il dito scomparso di Dio apparire esattamente quando si verifica la cosiddetta catastrofe naturale? Le differenze tra Rousseau e Condillac saranno sempre contenute nella stessa chiusura. Uno non può affermare il problema del modello della Caduta (platonico o giudeo-cristiano) se non all'interno di questa chiusura comune. 15 La prima scrittura è quindi un'immagine dipinta. Non che il dipinto fosse servito come scritto, come miniatura. I due furono dapprima mescolati: un sistema chiuso e muto entro il quale il discorso non aveva diritto di ingresso e che era protetto da ogni altro investimento simbolico. Lì, uno non aveva altro che un puro riflesso di oggetto o azione. “È con ogni probabilità alla necessità di delineare così i nostri pensieri che l'arte della pittura deve il suo originale; e questa necessità ha senza dubbio contribuito a preservare il linguaggio dell'azione, come il più facile da rappresentare con la matita “(Sec. 128) [p. 274]. Questa scrittura naturale è quindi l'unica scrittura universale. La diversità degli script appare dal momento in cui la soglia della pura pittografia è ((284)) incrociate. Sarebbe un'origine semplice. Condillac, seguendo Warburton in questo, genera o piuttosto deduce tutti gli altri tipi e tutti gli altri stadi di scrittura di questo sistema naturale. 16 I programmi lineari saranno sempre quelli della condensazione e della condensazione puramente quantitativa. Più precisamente, riguarderà una quantità oggettiva: volume naturale e spazio. A questa legge profonda sono presentati tutti gli spostamenti e tutte le condensazioni grafiche che solo lo evitano in apparenza. Da questo punto di vista, la pittografia, il metodo principale che impiega un segno per oggetto, è la meno economica. Questo spreco di segni è americano: “Nonostante gli inconvenienti derivanti da questo metodo, le nazioni più civilizzate in America erano incapace di inventare un migliore. I selvaggi del Canada non ne hanno altri “(Sec. 129) [p. 274]. La superiorità dello script geroglifico – “immagine e carattere” – dipende dal fatto che “solo una singola figura [è usata] per indicare diverse cose” [pp. 275, 274]. Il che suppone che ci possa essere – è la funzione del limite pictografico – qualcosa come un segno unico per una cosa unica, una supposizione contraddittoria rispetto al concetto stesso e al funzionamento del segno. Per determinare il primo segnale in questo modo, per fondare o dedurre l'intero sistema di segni con riferimento ad un segno che non appartiene a tale sistema, è quello di ridurre significato di presenza. Il segno da allora in poi non è altro che una disposizione di presenze nella biblioteca. I l il vantaggio dei geroglifici – un segno per molte cose – è ridotto all'economia delle biblioteche. Questo è ciò che hanno capito gli “egizi più geniali”. Loro “furono i primi a usare un metodo più breve che è noto con il nome di geroglifici”. “L'inconveniente derivante dall'enorme quantità di volumi, li indusse a utilizzare solo una singola figura per indicare diverse cose.” forme di spostamento e condensazione che differenziano il sistema egiziano sono comprese in questo concetto economico e sono conformi alla “natura della cosa” (nella natura delle cose) che è quindi sufficiente “consultare”. Tre gradi o tre momenti: la parte per il tutto (due mani, uno scudo e un arco per una battaglia in geroglifici curiosi); lo strumento – reale o metaforico – per la cosa (occhio per conoscenza di Dio, spada per il tiranno); infine una cosa analoga, nella sua totalità, per la cosa stessa (un serpente e il miscuglio delle sue macchie per i cieli stellati) nei geroglifici tropicali . Secondo Warburton, era già per ragioni economiche che i geroglifici corsivi o demotici venivano sostituiti per geroglifici che parlano correttamente o per la scrittura sacra. La filosofia è il nome di ciò che fa precipitare questo movimento: la corruzione economica che desacralizza attraverso l'abbreviazione e l'annullamento del significante a beneficio del significato: ma è tempo di parlare di una alterazione, che questo cambiamento del soggetto e del modo di Espressione fatta nella figura DELINEATION of Hieroglyphic ((285)) . Finora l'animale o la cosa che rappresentava era disegnata graficamente; ma quando lo Studio di Filosofia (che aveva occasionato la Scrittura Simbolica) aveva indotto il loro Imparato a scrivere molto, e variamente, quell'esatto Modo di Delineazione sarebbe troppo noioso quanto troppo voluminoso; perciò, per gradi, perfezionarono un altro Personaggio, che potremmo chiamare la Mano Corrente dei Geroglifici, simile ai Personaggi Cinesi, che essendo inizialmente formato solo dai Contorni di ogni Figura, divenne infine una specie di Marchi. Un effetto naturale che questo Carattere da Corsa avrebbe, nel Tempo, prodotto, non dobbiamo qui omettere parlare di; era questo, che il suo uso avrebbe tolto gran parte dell'Attenzione dal Simbolo, e lo avrebbe risolto sulla Cosa significata da esso; in tal modo lo studio della scrittura simbolica sarebbe molto abbreviato, essendoci poi poco da fare, ma per ricordare il potere del marchio simbolico ; mentre prima, dovevano essere apprese le Proprietà della Cosa o Animale, usate come simbolo : in una parola, ridurrebbe questa scrittura allo stato attuale dei cinesi. (I: 139-40) [Warburton, p. 115] Questo annullamento del significante portò di grado all'alfabeto (cfr pp. 125-26) [pp. 109-111. Questa è anche la conclusione di Condillac (punto 134). È quindi la storia della conoscenza – della filosofia – che, tendendo a moltiplicare i libri, spinge verso la formalizzazione, l'abbreviazione, l'algebra. Con lo stesso movimento, separandosi dall'origine, il significante è esaustivo e desacralizzato, “demotizzato” e universalizzato. La storia della scrittura, come la storia della scienza, circolerebbe tra le due epoche della scrittura universale, tra due semplificazioni, tra due forme di trasparenza e univocità: una pittografia assoluta che raddoppia la totalità dell'entità naturale in un consumo sfrenato di significanti, e una grafia assolutamente formale che riduce la spesa significativa a quasi nulla. Non ci sarebbe storia di scrittura e di conoscenza – si potrebbe semplicemente dire di non avere alcuna storia – tranne tra questi due poli. E se la storia non è pensabile tranne tra questi due limiti, non è possibile disqualificare le mitologie della sceneggiatura, della pittografia o dell'algebra universale , senza sospettare il concetto stesso di storia. Se si è sempre pensato al contrario, contrapponendo la storia alla trasparenza del vero linguaggio, è stato senza dubbio attraverso una cecità verso i limiti archeologici o escatologici, a partire dal quale si è formato il concetto di storia. La scienza – ciò che Warburton e Condillac chiamano filosofia qui – l'epistémè e, alla fine, l' auto-conoscenza, la coscienza, sarebbe quindi il movimento di idealizzazione: una formalizzazione algebrizzante e de-poetizzante la cui operazione è di reprimere – per dominarla meglio: il significante carico o il geroglifico collegato. Che questo movimento renda necessario passare attraverso lo stadio logocentrico è solo un apparente paradosso; il privilegio del logos è quello della scrittura fonetica, di uno scritto provvisoriamente più economico, più algebrico, in ragione di una certa condizione di conoscenza. L'epoca del logocentrismo è un momento dell'effetto globale (286) del significante: uno crede che si stia proteggendo ed esaltando la parola, uno è solo affascinato da una figura della techè. Per lo stesso motivo, uno sdegno (fonetico) scrive perché ha il vantaggio di assicurare una maggiore padronanza nell'essere cancellato: nella traduzione di un (orale) significante nel miglior modo possibile per un tempo più universale e più conveniente; l'autoaffection fonica, dispensando tutti i ricorsi “esteriori”, consente, in una certa epoca della storia del mondo e di ciò che si chiama uomo, la più grande maestria possibile, la più grande autoriflessione possibile della vita, la più grande libertà possibile. È questa storia (come epoca: epoca non della storia ma come storia) che è chiusa allo stesso tempo della forma di essere del mondo che è chiamata conoscenza. Il concetto di storia è quindi il concetto di filosofia e dell'epistémè. Anche se fu solo tardivamente imposto a quella che viene chiamata la storia della filosofia, lo fu invocato lì dall'inizio di quell'avventura. È